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The Upper House: come sono finite le elezioni per il Senato USA?

The Upper House: come sono finite le elezioni per il Senato USA?

I repubblicani con ogni probabilità manterranno il controllo del Senato. Ma bisognerà attendere il doppio ballottaggio in Georgia per un quadro completo.

Com’è finita, poi, la partita per il Senato?

La scorsa estate abbiamo provato a raccontarvi 11 tra le 35 sfide per il Senato degli Stati Uniti che si celebravano insieme alle elezioni presidenziali lo scorso 3 novembre. Si trattava di elezioni che raramente trovano spazio tra le colonne della stampa non americana ma che sono cruciali, perché anche se la vulgata vuole che il Presidente degli Stati Uniti sia ‘l’uomo più potente del mondo’, in realtà i suoi poteri sono piuttosto limitati se il Congresso, nei suoi due rami, non sta dalla sua parte. Così, dal momento che la Camera dei rappresentanti è rimasta saldamente nelle mani dei democratici, la vera partita si giocava al Senato. Lì, poiché i senatori sono solo 100 (due per ogni stato) i margini sono molto ristretti e la differenza tra maggioranza e minoranza è molto sottile, quasi sempre di due o tre senatori (a cui si aggiunge, in caso di parità, il Vicepresidente degli Stati Uniti, che è di diritto Presidente del Senato).

Se il Presidente non ha la maggioranza del Senato dalla sua, il suo mandato si fa molto incidentato e ogni legge o nomina diventa frutto di una complicata negoziazione con i singoli senatori (solo il Senato, infatti, ha il potere di avdice and consent).

La situazione di partenza, alle elezioni di quest’anno, era di una maggioranza repubblicana di 53 a 47, con 35 seggi che andavano a rinnovo: il Senato non si rinnova infatti tutto insieme, ma solo un terzo alla volta ogni 2 anni e chi vince resta in carica 6 anni. Ai democratici, per ottenere la maggioranza, serviva conservare tutti i loro seggi – tranne uno, quello dell’Alabama, che era scontato sarebbe passato ai repubblicani – e vincerne 5 – i 4 che servivano a ribaltare la maggioranza e un altro per compensare quello che sarebbe passato ai repubblicani.
L’operazione è riuscita a metà, perché se è vero che i dem hanno conservato tutti i loro senatori tranne – come previsto – uno, è anche vero che delle 5 competizioni che ambivano a vincere e che sembravano alla loro portata ne hanno perse 3 (Maine, Iowa e probabilmente North Carolina) e ne hanno vinte solo 2 e mezza (una in Arizona, una in Colorado e mezza in Georgia).

 

La Georgia in particolare, merita un piccolo approfondimento, perché da lì arriva ciò che potrebbe fare la differenza. Le leggi elettorali dello stato prevedono che lì i senatori si eleggano diversamente dal resto del Paese: in Georgia non basta ottenere un voto in più degli avversari per vincere, ma bisogna ottenere almeno il 50% dei voti validi, e se nessuno dei due candidati riesce a raggiungere tale soglia allora si va al ballottaggio, previsto per il 5 gennaio. E così sarà, perché né il senatore repubblicano uscente David Perdue né lo sfidante democratico Jon Ossoff sono riusciti a farsi eleggere al primo colpo.

Ma non è tutto: in Georgia erano in palio – contrariamente a quel che succede di solito – non uno, ma entrambi i seggi dello stato, perché uno (quello per cui correvano Perdue e Ossoff) era arrivato a scadenza naturale e l’altro era stato reso vacante dalle dimissioni del senatore titolare, Johnny Isakson. Sempre secondo le peculiari leggi elettorali della Georgia, è previsto che se un seggio del Senato va a elezioni perché vacante, il nuovo senatore non passi per elezioni tradizionali ma per una jungle election, una specie di summa di primarie ed elezioni vere e proprie, e che potremmo tradurre come elezioni “tutti contro tutti”. Così, per questa seconda elezione erano in corsa ben 20 candidati, molti dei quali dello stesso partito, tutti in corsa per arrivare al 50%. E poiché nessuno ci è riuscito, anche per loro se ne riparla a gennaio, quando si sfideranno il democratico Raphael Warnock (pastore della Ebenezer Baptist Church, quella di Martin Luther King) fermo al 32% dei voti e la repubblicana Kelly Loeffler, formatasi al 26% ma in predicato per ricevere il 20% del terzo classificato, il repubblicano Doug Collins.

Dunque, allo stato attuale il Senato è fermo 48 a 48, con due stati ancora da chiamare (Alaska e North Carolina) ma che probabilmente andranno ai repubblicani e altri due, quelli della Georgia, che andranno al ballottaggio a gennaio: solo allora sapremo chi terrà il boccino della maggioranza al Senato. E solo allora sapremo quanto sarà difficile la vita del Presidente eletto.

Luciana Grosso

Giornalista di esteri, ha passato le notti dell’adolescenza a inseguire ‘The West Wing’ tra i canali in chiaro degli anni ‘90. Scrive (soprattutto di USA e di UE) per Il Foglio, Linkiesta, Business Insider, Il Venerdì di Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione Europea.

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