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The Upper House: Maine, cercasi Susan disperatamente

Quarto appuntamento della rubrica curata da Luciana Grosso e dedicata alle sfide più delicate e avvincenti delle elezioni senatoriali di novembre

Il prossimo 3 novembre, negli Stati Uniti, non si vota solo per la Presidenza. Si vota anche per 35 seggi al Senato e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti. La cosa non è secondaria, anzi: senza un Parlamento dalla sua parte, il Presidente può incontrare grandi difficoltà nel suo mandato.

La gara più serrata è al Senato perché lì i numeri sono molto ristretti: ogni Stato dispone di due senatori indipendentemente dalla popolazione, per un totale di 100 Senatori. Attenzione però: il Senato si rinnova solo per un terzo, perché si vota ogni due anni e ogni Senatore rimane in carica sei anni.

In queste settimane Luciana Grosso ci racconta allora le sfide più delicate, avvincenti e cruciali per diventare o restare Senatore degli Stati Uniti e, di fatto, avere nelle mani il destino di milioni di persone.

Oggi siamo nel Maine, quarta tappa del nostro viaggio oltreoceano.

Se vi piacciono le storie di politici che finiscono nella polvere, che a grandiosi successi fanno seguire (per colpa loro o per colpa del caso) clamorose sconfitte, allora la storia delle elezioni per il Senato in Maine fa per voi, perché è una di queste storie. 

Al centro di tutto c’è Susan Collins, senatrice repubblicana dello stato dal 1996. Le elezioni del prossimo novembre girano tutte attorno a lei. Se vince, ha vinto lei. Se perde, ha perso lei.

La ‘concorrente’, Sara Gideon, è una democratica che siede nel parlamento locale: popolare, sì, ma di lei non si ricordano azioni particolarmente significative, posizioni forti, dibattiti. Un po’ una tra tante.

Ma Susan Collins no. Susan Collins è un’altra cosa: è stata per decenni una delle senatrici più amate, votate e rispettate d’America; è stata per anni il punto di riferimento politico di tutto quanto il Maine, di democratici e repubblicani; per decenni non c’è stata elezione – locale o nazionale – in cui il suo parere, il suo endorsement, la sua posizione non fossero determinanti. 

Nonostante questo, oggi la storia d’amore tra Susan Collins e il Maine sembra essere finita. E come tutte le storie d’amore quando finiscono, si è trasformata in rancore senza sconti.

Ora in Maine Susan Collins è passata a essere la più detestata di tutti, da che era la più amata e ascoltata. Quegli stessi elettori (soprattutto donne, segmento in cui Collins mieteva il 77% dei consensi) che la tenevano in grande considerazione, ora si pentono (o addirittura negano) di averla votata e seguita, anzi la sbeffeggiano con cartelli e adesivi sui bagagliai delle auto su cui campeggia la scritta “Bye Bye Susan”.

Solo a novembre sapremo se la storia di Collins, senatrice e beniamina del Maine, sarà finita per davvero, oppure se 20 anni di ‘servizio’ avranno dato frutti abbastanza radicati da farla sopravvivere all’onda dell’ostilità e della delusione.

I sondaggi sono incerti: danno Gideon avanti, ma di un soffio. A decidere tutto sarà solo Susan Collins: dipenderà tutto da lei.

 

Il Maine: avete letto IT?

Avete letto IT? Ricordate il terrore di quelle pagine, reso ancor più tremendo dal fatto che si presentasse, puntuale e spietato, tra le vie di una ordinata e ordinaria piccola città?
Ricordate Derry, la cittadina, più simile a un paese che altro, in cui se non fosse stato per IT nulla mai sarebbe successo?
Derry (che, per inciso, non esiste) è nel Maine. E il Maine è un po’ come Derry: un posto tranquillo, benestante, ordinato e ordinario.
Non si registrano grandi scosse, grandi sommovimenti, grandi drammi sociali. Uno stato mediamente ricco, ma non opulento (30 mila dollari di reddito medio), una popolazione quasi completamente bianca (94%), un alto tasso di scolarizzazione e buoni servizi. La disoccupazione è stata bassa per anni, e solo di recente le cose sono un po’ peggiorate, a motivo della crisi dell’industria della carta.

Il Maine è un posto in cui ci sono più foreste che persone, e quelle poche che ci sono, o non si incontrano mai (il Maine è grande come un terzo dell’Italia ma ha una popolazione di 1,3 milioni di persone) o si conoscono tutte (la città più grande, Portland, ha 66 mila abitanti). Il tasso di omicidi qui è uno dei più bassi d’America: 1,8 per 100 mila abitanti. Sembra basso, e per gli standard americani lo è di certo, ma siamo comunque in America, dove ci si spara e tanto: la Louisiana, per dire, ha un tasso di omicidi pari a 11 ogni 100 mila abitanti; l’Italia, per intenderci, ne ha uno di 0,6 ogni 100 mila abitanti.

Insomma, il Maine è un posto tranquillo, di cui molti di noi hanno sentito parlare e magari non sanno nemmeno di preciso dove si trovi (sulla costa est, molto a nord, al confine con il Canada), o magari lo conoscono solo per la frase di chiusura di tutti i libri di Stephen King, ‘scritto a Bangor, nel Maine’, oppure perché qui sono ambientate molte delle storie della ‘Signora in giallo’ Jessica Fletcher, la cui sola presenza fa schizzare verso l’alto le statistiche sugli omicidi: la BBC ha calcolato che, se Cabot Cove esistesse davvero, avrebbe un tasso di omicidi quasi doppio di quello dell’Honduras e che, ogni anno, il 2% della popolazione sarebbe morta di morte violenta. Ma Cabot Cove non esiste, Jessica Fletcher nemmeno e, quanto a IT, ognuno ha il suo. 

La ragione per cui vi abbiamo raccontato queste cose è che prima di parlare della politica del Maine ha senso provare a capire chi sono, cosa vogliono, cosa desiderano, cosa temono le persone che ci abitano. Del resto è un vecchio adagio pieno di verità quello secondo cui “Chi conosce solo la politica, non sa niente di politica”. Per questo parlare di Maine, posto tranquillo e senza scosse, aiuta a capire chi sono i politici che qui vengono eletti: sono persone come il loro stato, tranquille e senza scosse. Moderati, centristi, dialoganti. Non progressisti barricaderi stile Bernie Sanders, non conservatori con il fucile in mano stile Sarah Palin. No, qui piacciono persone di buon senso, tiepide, forse, ma trasversali. Qui non ci sono fedi a prescindere in questo o quel partito, come accade in California o in Texas.  Qui si votano le persone, non i partiti. Per avere un’idea di quanto questo sia vero, basti pensare che alle liste elettorali sono iscritti il 34,95% di indipendenti (uno dei tassi più alti d’America, il quinto in classifica, dopo Alaska, Colorado, Iowa e Connecticut). I democratici sono invece il 32,97% e i repubblicani il 27,37%.

I risultati elettorali sono conseguenza di questa indipendenza, di questa volontà di votare le persone e non i partiti. Alle presidenziali, per esempio, vincono quasi sempre i democratici (l’ultimo repubblicano a vincere qui è stato George H. W. Bush, nel 1988). Per il resto, per esempio tra i governatori, c’è una buona alternanza tra repubblicani e democratici, con una buona e piuttosto rara parte riservata agli indipendenti, come il governatore Angus King che, senza appartenere a nessun partito, ha governato lo stato dal 1995 al 2003 e che ora, sempre da indipendente, siede al Senato in uno dei due seggi assegnati al Maine (nota di colore: Angus King e Bernie Sanders sono gli unici due senatori non iscritti né ai repubblicani né ai democratici).

Per dire quanto siano indipendenti, in ogni senso, gli elettori del Maine, basti sapere che nel 2008 Collins vinse tutte e 16 le contee dello stato. Lo stesso giorno, Barack Obama vinse in 15 contee su 16. Questo significa che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli elettori avevano votato per una repubblicana al senato e per un democratico alla presidenza. Non era questione di partiti, era questione di persone. Stesso copione anche alle elezioni successive: nel 2014 Susan Collins fu rieletta con poco meno del 70% dei voti, mentre nel 2016 Hillary Clinton vinse lo stato. In Maine non è mai questione di partiti, è questione di persone. 

 

Susan Collins, battitrice libera

Susan Collins è una del Maine, in tutti i sensi. Non solo perché ci è nata e ha svolto quasi tutta la sua attività lavorativa e politica qui, ma anche perché corrisponde al tipo di persona che nel Maine abita e vota.

È repubblicana, sì, ma si è sempre tenuta le mani libere dal partito. Per esempio, è una assolutamente pro choice, una che si è sempre battuta per i diritti della comunità LGBT e che ha fatto della lotta al sessismo e al gender gap una delle sue bandiere. 

In 24 anni da senatrice (è stata eletta la prima volta nel 1996) ha votato più del 40% delle volte contro il suo partito. Nel 2016 si è rifiutata categoricamente di votare per Donald Trump; nel 2017 è stata uno dei due franchi tiratori (l’altro era John McCain) che affossarono il piano di Donald Trump volto a cancellare l’Obamacare.
Questa sua indipendenza, unita alla sua capacità di sposare le istanze più vicine al libero mercato insieme a quelle più liberal sul fronte dei diritti civili, l’aveva resa straordinariamente popolare e ben voluta. Una popolarità che si tramutava in certezze elettorali: fino a un paio di anni fa la sua rielezione in Maine non era nemmeno in discussione: repubblicani e democratici, insieme, votavano Collins, punto e basta. Le sue percentuali di elezione, dal 1996 a oggi, sono state sempre altissime e in crescendo: 49%; 58%; 61%; 68%.
Per vent’anni il fatto che Susan Collins venisse eletta in Maine era sicuro come il sorgere del sole. Non c’erano discussioni.
Poi?

Poi è arrivato Donald Trump.

 

Collins a un bivio

Se c’era una cosa per cui nessuno poteva dire qualcosa di male su Susan Collins era il fatto di essersi sempre, sempre, sempre schierata dalla parte delle donne. Sempre. Fossero democratiche o repubblicane, bianche o nere, povere o ricche, Susan Collins era dalla loro. Sempre.

Era in nome delle donne, per esempio, che nel 2016 Collins si era rifiutata di votare, o anche solo di appoggiare, Donald Trump: troppo brutta la sua storia di predatore sessuale, troppo ripugnanti i nastri di Access Hollywood, troppo machista, nell’insieme, il personaggio.
Poi, però, Trump vinse le elezioni e divenne Presidente, e allora per Susan Collins le cose hanno preso a mettersi male. La senatrice per i primi mesi si è opposta alle leggi di Trump che trovava ingiuste e inique: non solo la controriforma sanitaria, ma anche la riforma fiscale, che Collins giudicò troppo sbilanciata a favore dei grandi ricchi e che non votò, o la nomina di Betsy DeVos a Segretario per l’istruzione. Ma sembrava tutto inutile: Trump, dopo essersi preso l’America, si stava prendendo il partito. I dirigenti, certo, ma anche le teste delle persone.
Così, nel giro di poco tempo, Collins si ritrovò a dover scegliere. Il bivio che le si parava davanti era atroce: da un lato il suo elettorato, fatto di centristi e donne; dall’altro Donald Trump.

In realtà, a guardarla da qui, risulta evidente come entrambe le scelte fossero un suicidio. Se Collins avesse scelto di resistere a Trump, avrebbe perso l’appoggio del partito e buona parte dei fondi elettorali dei superpac, cosa che la avrebbe esclusa, di fatto, dai giochi elettorali; se avesse scelto Trump, invece, avrebbe tradito e deluso il suo elettorato, sgretolando il suo consenso.
Susan Collins alla fine ha scelto Trump. Difficile capire o sapere perché: forse non si è fidata dei suoi elettori e neppure di se stessa; forse le pressioni nel partito erano troppo forti; forse si è convinta che i solchi che Trump ha scavato nella politica e nelle teste degli americani dureranno a lungo e saranno vincenti. Chi lo sa.
Certo è, però, che alla fine, tra Trump e i suoi elettori, Collins ha scelto il primo.

Lo ha fatto gradualmente, certo, non dalla sera alla mattina. Lo ha fatto piano, ma inesorabilmente, spostandosi ogni giorno un pezzettino sempre più a destra. I voti da dissidente sono gradualmente scomparsi, le obiezioni si sono fatte sempre più tenui, le questioni di principio sono praticamente sparite, i compromessi con i democratici si sono fatti sempre più rari e fragili. Da ultimo, lo scorso gennaio, Collins ha votato contro l’impeachment: una cosa che la ‘vecchia’ Susan non avrebbe mai fatto. Nonostante fosse d’accordo sulla colpevolezza di Trump, Collins, la battitrice libera dei repubblicani, votò con il suo partito, a favore di Donald Trump e contro se stessa.

Ma non è stata questa la cosa più grave che ha rotto il rapporto di fiducia tra Collins e i suoi elettori. Al momento dell’impeachment quel rapporto era già guasto: a romperlo in modo profondo e forse irreparabile era stata una storia di qualche mese prima: la storia della nomina del giudice Brett Kavanaugh.

 

Il terremoto Kavanaugh

Brett Kavanaugh è un giudice della Corte Suprema, l’organo che non ha il potere di promulgare le leggi, ma ha il potere di cancellarle, se crede, o di renderle esecutive in tutti gli stati, da subito (ricordate la faccenda dei matrimoni omosessuali nel 2015?). Si tratta di un consesso di 9 giudici nominati a vita. Ogni volta che per mille ragioni – dalla morte al ritiro – un posto diventa vacante, il presidente degli Stati Uniti deve nominare un nuovo giudice che rimane in carica per sempre. Il fatto che i presidenti possano nominare i giudici della Corte Suprema è forse uno dei più grandi poteri che la Costituzione conferisce loro, perché consente di influenzare per decenni, anche molto dopo la fine del mandato, la legislazione americana. I giudici che siedono oggi al tavolo della Corte sono, per esempio, eredità delle due presidenze dei Bush, di quella di Clinton e di quella di Obama, oltre che di quella, tutt’ora in corso, di Donald Trump.

Il sistema prevede che il Presidente scelga il nuovo giudice, la cui nomina deve essere approvata dal Senato. Se questo non accade, occorre ricominciare da capo e il Presidente deve scegliere un nuovo giudice da far approvare sempre in Senato. In genere non succede quasi mai che il Senato respinga un potenziale giudice (dal 1790 a oggi è successo, in tutto, 11 volte, l’ultima delle quali ai tempi di Ronald Reagan, che aveva scelto un giudice coinvolto nel Watergate).
Da quando si è insediato, Donald Trump ha nominato con successo due giudici (più Amy Coney Barrett, di cui sono in corso in queste settimane le audizioni in Senato): uno è Neil Gorsuch, un giudice conservatore sì, ma comunque stimato e rispettato. Sulla sua nomina c’erano state un po’ di schermaglie parlamentari, ma poca roba, più giochi da nerd dei regolamenti parlamentari stile Frank Underwood che altro: alla fine la sua nomina è stata infatti approvata senza troppi tormenti.

L’altro giudice di nomina trumpiana, invece, è Brett Kavanaugh. Contro di lui, nel 2018, al Senato si scatenò il putiferio.
I democratici definirono il suo nome come del tutto indigeribile. E le ragioni di tanta indigeribilità erano due: la prima era che  Kavanaugh era un superconservatore che, anni prima, aveva fatto parte dello staff del procuratore Kenneth Starr, ai tempi dell’inchiesta sexgate e dell’impeachment a Bill Clinton. Un passato, questo, che faceva sì che venisse messa in dubbio la sua terzietà e la sua capacità di essere protettore delle istanze di tutti gli americani, e non solo degli americani repubblicani.

La seconda ragione per cui la nomina di Kavanaugh era considerata inammissibile era che, nel periodo in cui iniziò a girare il suo nome per la carica di giudice supremo, una sua vecchia compagna di liceo, Christine Ford, raccontò di essere stata molestata da Kavanaugh, anche lui liceale all’epoca dei fatti. La Ford raccontò che Kavanaugh e un altro compagno l’avevano aggredita durante una festa, chiusa in una stanza e bloccata sul letto, sostenendo che solo il suo dimenarsi e lottare avevano evitato uno stupro.

Dopo il racconto di Ford, altre due donne si fecero avanti raccontando esperienze molto simili avute con Kavanaugh. Si trattava di accuse molto gravi, anche se impossibili da provare: erano passati 40 anni e di testimoni in giro non se ne trovavano. Kavanaugh smentì da subito, dicendo di non aver mai, in nessun modo e in nessuna epoca, fatto le cose di cui veniva accusato. Ma anche lì, non c’erano testimoni e le parole di Kavanaugh erano impossibili da provare. In pratica era la parola di Christine Ford contro quella di Brett Kavanaugh.

Le settimane che precedettero il voto in Senato su Kavanaugh furono infuocate da polemiche, editoriali, baruffe. L’FBI fu incaricata di investigare e Christine Ford fu chiamata a testimoniare davanti al Senato. La deposizione durò quattro ore e fu tesissima. Giustamente, peraltro: si trattava di una donna qualunque, un’insegnante che fino a poche settimane prima nessuno aveva mai sentito nominare, chiamata a raccontare davanti a 100 estranei, per lo più uomini di mezza età che in gran parte avevano già deciso di non crederle, quello che forse era il ricordo più traumatico e doloroso della sua vita. A un certo punto, il senatore Patrick Leahy, democratico del Vermont, le chiese quale fosse il ricordo più preciso che aveva di quella serata e di quelle violenze. E Ford, visibilmente scossa, rispose in un modo che fece ghiacciare l’aula: “Le loro risate”.

Kavanaugh intervenne dopo di lei smentendo tutto, dicendo che ciò che con tanta precisione e dovizia di particolari Ford aveva raccontato era una completa bugia. Totale. Inventata di sana pianta. Che né lui, né i suoi amici avevano mai fatto cose di quel genere o usato violenza a una donna. Che tutta questa storia era una montatura architettata dai democratici per distruggerlo.
Non sapremo mai chi dei due mentiva.

Ma la fine delle storia fu incredibile e paradossale. La testimonianza di Ford aveva colpito molto i senatori ed era sembrata credibile, anche se, certo, non c’erano prove e non c’erano testimoni. Persino il senatore repubblicano del Texas, John Cornyn, dichiarò di “non aver trovato motivo per non crederle”.

Nonostante questo, il Senato votò per l’approvazione di Kavanaugh. E anche Susan Collins, la repubblicana che difendeva le donne, votò per Kavanaugh: decise di non credere a una donna che denunciava, in mondovisione, una violenza. E questo fatto le sue elettrici del Maine, quelle che votano per le persone e non per i partiti, non l’hanno mai digerito.

 

Dov’è Susan?

Qualche mese fa, ricorderete, c’è stato poi il caso dell’impeachment a Trump. Gli elettori del Maine, che avevano votato per Hillary Clinton e che, fino a qualche mese prima, pensavano che una delle maggiori virtù della loro beniamina Collins fosse che sapeva tenere testa a Trump, si aspettavano che la senatrice votasse contro il presidente. Invece non è successo.

Ma non solo: Collins ha anche scelto (inspiegabilmente) di non partecipare a nessuno degli incontri pubblici organizzati per discutere di impeachment. Per quasi un mese, in Maine, Collins non si è vista.

I suoi elettori organizzavano serate e forum per discutere di impeachment, ma lei niente: non c’era, non si vedeva, non parlava. I suoi elettori facevano domande, ma lei niente: non c’era, non si vedeva, non parlava. I suoi elettori assediavano il suo ufficio con cartelli “Dov’è Susan?”, ma lei niente: non c’era, non si vedeva, non parlava.

La sua assenza era già grave in sé, ma era resa ancor più clamorosa dal fatto che Collins era una che negli anni precedenti andava, sempre, ovunque. Non c’era città, vertenza, incontro pubblico o assemblea studentesca alla quale non fosse presente e non facesse sentire la sua voce. Ma all’improvviso quella voce non si sentiva più, inghiottita e soverchiata dal clangore dei tweet di Trump.

Così, con il passare dei giorni, quegli elettori che brandivano cartelli “Dov’è Susan?” lasciarono perdere e smisero di chiederselo. Del resto, ormai la risposta la conoscevano: Susan era con Trump, ovunque lui avesse deciso di portarla. 

E dunque non era più in Maine e con il Maine. 

Dove fosse, a questo punto, interessava poco. Comunque era altrove.

Luciana Grosso

Giornalista di esteri, ha passato le notti dell’adolescenza a inseguire ‘The West Wing’ tra i canali in chiaro degli anni ‘90. Scrive (soprattutto di USA e di UE) per Il Foglio, Linkiesta, Business Insider, Il Venerdì di Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione Europea.

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