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Le grandi campagne elettorali raccontate da YouTrend: Kennedy 1960

Le grandi campagne elettorali raccontate da YouTrend: Kennedy 1960

Oggi raccontiamo l’ascesa e la conquista della Casa Bianca da parte del primo politico moderno: John Fitzgerald Kennedy

“A time for greatness”: così recita lo slogan elettorale della campagna presidenziale del 1960 di John Fitzgerald Kennedy. La stessa grandiosità che la storia oggi attribuisce a JFK. Ma per comprendere come il giovane senatore del Massachusetts costruì quella che viene definita la prima campagna elettorale moderna e si trasformò nell’icona pop della politica del XX secolo, occorre fare un passo indietro, al 1954.

Sette anni dopo il suo debutto al Congresso degli Stati Uniti, quella di John Fitzgerald Kennedy non è certo considerata una figura preminente del panorama democratico statunitense. Cattolico, non è né l’esponente politico di riferimento del suo stato, il Massachusetts, né tanto meno ha ricoperto, fino a quel momento, incarichi di particolare rilievo. Certo, è una figura promettente, per quanto giovane e inesperta, e ha alle spalle la potenza della famiglia Kennedy, tra le più ricche del Paese: ma per sua stessa ammissione, almeno fino al 1955, neanche lo stesso John nutrirà particolari ambizioni.

“Pensavo che, forse, avrei potuto divenire, un giorno, Governatore del Massachusetts.” – JFK

Lo scenario è destinato a cambiare radicalmente l’anno successivo. Il padre di JFK, infatti, si convince che il Presidente Eisenhower potrebbe non correre per un secondo mandato a causa delle sue precarie condizioni di salute: questo permetterebbe ai Democratici di giocarsi la presidenza. Decide così di contattare Lyndon Baines Johnson – fresco leader di maggioranza in Senato – invitandolo a correre per la presidenza e garantendo, in cambio dell’adozione di JFK come “running mate”, tutto il sostegno economico necessario.


 

Sebbene Johnson non appaia interessato alla Casa Bianca, nei mesi successivi il nome di JFK viene riportato da alcuni media come tra i papabili per una vicepresidenza. Le voci al riguardo si fanno, pian piano, sempre più insistenti. È in questo preciso momento che in Kennedy scatta qualcosa, grazie anche al sostegno del suo immancabile amico, stratega e spin doctor, Ted Sorensen. La convinzione del futuro Presidente aumento, il pessimismo mostrato per una corsa alla Presidenza svanisce. Sarà lui stesso, nel corso dell’anno successivo, a ignorare i consigli del padre che, ufficializzata la ricandidatura di Eisenhower, lo spinge a rinunciare alla corsa per la nomination, convinto di una disfatta democratica. Poco conta, perché alla fine è Estes Kefauver a ottenere il ticket con il candidato Presidente Adlai Stevenson.

 

Una vittoria che viene da lontano

La visione di Kennedy e di Sorensen è però corretta e lungimirante. A prescindere dal risultato e dal possibile ticket del 1956, occorre sfruttare al massimo l’occasione per costruire i tasselli di una strategia di lungo periodo. Occorre comprendere le reali possibilità di Kennedy per un futuro, se non da vicepresidente, addirittura da Presidente. Tra il 1955 e il 1956 JFK cresce prepotentemente in visibilità: diviene il punto di riferimento dei Democratici in Massachusetts, stringe amicizie che risulteranno utilissime, negli anni successivi, con il mondo dei media e inizia ad affrontare di petto i principali ostacoli alla sua ascesa. Tra questi il fatto di essere un cattolico, democratico: un problema serio in un’America a maggioranza protestante, che vede nella dimensione religiosa e temporale due sfere completamente separate e teme, nel caso di una presidenza cattolica, ingerenze da parte del Vaticano.

Nelle settimane tra la mancata nomination e le elezioni, i più attenti tra i Democratici iniziano a scorgere i segnali di quello che sarebbe stato il futuro obiettivo di Kennedy. Sorensen organizza incontri in oltre venti stati nei quali la fama di JFK è debole o inesistente, dando vita a quella che alcuni, nel partito, definiscono sottovoce una campagna parallela, piuttosto che di supporto a Stevenson. Nel solo 1957, gli incontri pubblici del Senatore Kennedy saranno ben 140.

“Provammo a far parlare Kennedy in quegli stati dove avrebbe avuto più effetto, in particolare in Massachusetts. John aveva i suoi personali inviti a parlare in giro per il Paese. Condusse quasi una propria campagna. C’era molto mormorio su questo.” – John Sharon, assistente di Adlai Stevenson

All’indomani della sconfitta democratica del 1956, JFK e Sorensen si mossero con inappuntabile efficacia, sottotraccia, per preparare la futura campagna elettorale, sia da un punto di vista organizzativo che strategico.

JFK inizia subito a occuparsi in prima persona dei problemi che affliggono gli stati dell’ovest, area i cui voti sarebbero stati fondamentali per raggiungere la nomination a candidato Presidente. Inoltre, con l’immancabile supporto di Sorensen – a cui molto deve nell’impostare parte del suo programma – si dedica, con regolarità, ad articoli e pubblicazioni dedicati ai temi più rilevanti di attualità politica internazionale e interna, con la speranza che ciò possa contribuire a togliersi di dosso il marchio di “giovane e inesperto”.

In questo periodo emergono anche alcuni punti chiave della sua ideologia, come le posizioni liberali sull’immigrazione o l’importanza assegnata all’istruzione. La sua popolarità è alle stelle, la sua visibilità sul nuovo media televisivo è enorme, e ciò aiuta JFK a conquistare la copertina di numerose riviste di massa, tra cui quella del Time, nel 1957. I media sono sempre più affascinati dalla sua figura.

La coppia Kennedy-Sorensen riesce però a dare il meglio nell’innovazione dei mezzi e degli strumenti veri e propri della campagna elettorale. Sono i primi a comprendere, come approfondiremo più avanti, la centralità della televisione: già nel 1957 entrano in contatto con Leonard Reinsch, importante punto di riferimento democratico e CEO della COX Communications. L’obiettivo, oltre a quello di assicurarsi un prezioso alleato, è di pianificare e ricevere consigli sul come massimizzare l’impatto televisivo di Kennedy.

Quindi, i due accompagnano all’attenzione per la nuova tecnologia una dimensione tradizionale, ma poco esplorata: Kennedy ama entrare a contatto diretto con le persone, e in questo contesto lui e Sorensen inaugurano il primo, vero uso di database per costruire una campagna elettorale nella quale la società civile è fittamente organizzata. Dal 1957 alla creazione del comitato elettorale di JFK, infatti, Sorensen raccoglie i nomi dei partecipanti di ogni incontro. Nasce così una mappatura di oltre 30 mila contatti, tutti con il potenziale di divenire preziosi sostenitori della corsa alla Casa Bianca.

La nomination democratica

La campagna per la rielezione a senatore, nel 1958, si rivela una pura formalità. Più complessa, invece, appare la sfida per le nomination democratica. Allora, infatti, le primarie non avevano luogo in ogni stato: per il 1960 ne erano previste 16 e ogni candidato sceglieva autonomamente a quali partecipare. La nomination si decide, dunque, nel partito, alla convention di Los Angeles, dove ad attendere il vincitore delle primarie ci saranno Lyndon Johnson e Adlai Stevenson: i due sono i favoriti per la nomina a candidato Presidente, per quanto per ora non si siano ancora esposti. I media – e soprattutto l’establishment democratico – sono dubbiosi, fino all’ultimo, sulle possibilità di Kennedy. È troppo giovane e inesperto, il suo accreditamento nel mondo che conta del partito è limitato e, per di più, è divisivo: il suo essere cattolico può spaccare il partito.

Kennedy vince agevolmente le primarie in West Virginia, annientando il suo principale rivale, il Senatore Hubert Humphrey. Si tratta di un vero e proprio trionfo: JFK ottiene il 60% dei voti in uno stato nel quale tutti credevano sarebbe andato incontro ad una disfatta.  Troppo forte l’ostilità verso un candidato cattolico, senza contare la grande crisi che stava colpendo l’industria del carbone. Il terreno è considerato fertile per Humphrey, notoriamente più a sinistra di Kennedy. Tutti, dal padre ai collaboratori più stretti, consigliano a JFK di non presentarsi. Kennedy, a ragione, è però convinto del contrario: non solo non correre in West Virginia sarebbe un segno di debolezza, ma potrebbe compromettere irrimediabilmente ogni sua ambizione.

“Non ho diritto di affermare di essere un candidato per la convention democratica se posso vincere le primarie solo in stati con il 25% di cattolici.” JFK

Si giunge, cosi, alla convention di Los Angeles. Qui, superate le prime, forti, tensioni con Truman (che aveva pubblicamente osteggiato la sua nomina e attaccato il padre) Kennedy riesce ad ottenere, al primo turno, anche grazie alla titubanze di Stevenson e alla debolezza dimostrata dal fronte “No Kennedy”, ben 806 delegati e la nomina a candidato Presidente (la scelta del vice ricadrà su Lyndon Johnson). L’ultimo ostacolo per entrare nella Sala Ovale si chiama Richard Milhous Nixon.

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La conferenza stampa in cui JFK risponde all’ex Presidente Harry Truman, che gli aveva chiesto di ritirarsi

 

La questione cattolica: la svolta del West Virginia

Fu proprio durante le primarie in West Virginia che Kennedy comprese un aspetto di fondamentale importanza per la campagna presidenziale, che influì fortemente la sua strategia. Abbiamo già scritto come uno dei suoi  principali punti di debolezza fosse essere cattolico. Sebbene negli anni precedenti Sorensen avesse lavorato sapientemente attraverso l’uso di sondaggi e ricerche per dimostrare che in realtà, in quel preciso momento storico, ciò rappresentasse più un vantaggio che uno svantaggio per un candidato democratico (sempre più cattolici stavano infatti guardando ai Repubblicani), era chiaro come ciò potesse servire in qualche misura a convincere l’establishment del partito, ma certo non gli elettori protestanti più timorosi.

Nel contesto del West Virginia, chiaramente, questo rappresenta il più grande ostacolo per Kennedy. Il futuro Presidente ne è consapevole, l’ha già percepito in un suo precedente viaggio esplorativo. Le speranze di vittoria sembrano diminuire ulteriormente quando riceve, a pochi giorni dall’inizio della campagna, la telefonata preoccupata del fratello Robert: la situazione non è preoccupante, è tremendamente esplosiva, e si temono anche problemi di ordine pubblico.

In quel momento Kennedy, messo alle strette, fa un tentativo quasi disperato: agisce in anticipo, evita di trattare l’argomento con un approccio difensivo. Ne parla spontaneamente, proattivamente, rivendica il diritto a ricoprire incarichi pubblici, sottolineando come, per lui come per molti altri cattolici, Stato e Chiesa siano due dimensioni completamente separate e indipendenti. Il risultato sulla platea, non certo filocattolica, è sorprendente.

Kennedy, a seguire, tornerà varie volte sul tema: non era sufficiente, ovviamente, vincere il West Virginia per affossare i dubbi degli scettici e le paure dei protestanti più radicali. Soprattutto a campagna presidenziale iniziata, la fede cattolica di Kennedy sarà uno dei principali temi di dibattito. Kennedy non arretra dalla sua strategia, anzi, la porta efficacemente quasi all’esasperazione a casa della controparte protestante, nel settembre del 1960, con il suo celebre discorso al  Greater Houston Ministerial Association di Houston, trasmesso – ovviamente – dai media.

“Credo in un’America dove la separazione tra Stato e Chiesa sia assoluta; dove nessun prelato cattolico possa dire al Presidente – qualora fosse cattolico – come comportarsi, e nessun ministro protestante dica ai suoi parrocchiani per chi votare; dove a nessuna chiesa o scuola religiosa siano garantiti fondi pubblici o favoritismi politici, e dove a nessun uomo sia negato un ruolo di pubblico ufficio perché la sua religione differisce da quella del Presidente che può nominarlo, o delle persone che possono eleggerlo.” – JFK, 1960, Greater House Association.

 

L’innovazione: il ruolo della televisione

Le primarie in West Virginia ci permettono anche di esaminare più in profondità uno dei punti di maggiore innovazione della campagna elettorale di Kennedy: quello del media televisivo. La sicurezza davanti alle telecamere che mostrerà nel corso del primo, storico confronto tra candidati alla Presidenza del 1960, JFK l’aveva infatti conquistata da tempo, studiando da vicino e accuratamente uno strumento presente oramai nelle case di quasi il 90% degli americani. Come abbiamo già accennato, Kennedy, sin dal 1957, inizia a lavorare per avere tutta l’esposizione mediatica possibile. Ad esempio, è il primo politico americano di un certo rilievo ad apparire ad un Night Show, ospite di Jack Paar durante la corsa per la nomination democratica nel 1959. La prima campagna elettorale moderna della storia non nasce quindi per caso, ma viene in buona parte preparata a tavolino – e con buon anticipo.

Un assaggio del sapiente uso dei media audiovisivi da parte del comitato Kennedy si ha durante le primarie democratiche. Già in Wisconsin, il comitato aveva autorizzato Robert Drew a riprendere da vicino e passo dopo passo JFK, permettendo la nascita di quello che viene considerato uno dei primi documentari moderni. In West Virginia, nelle ultime settimane di campagna elettorale, il futuro Presidente si spinge oltre: vengono girati e mandati in onda diversi spot televisivi dalla durata, per i tempi, piuttosto contenuta – e quindi meno invasivi per il grande pubblico. Ciascuno spot, introdotto da una voce narrante, ha per protagonista JFK, che tratta i temi di dibattito politico (uno è dedicato proprio alla questione della sua fede cattolica), confrontandosi anche con delle particolari categorie di elettori.  Il feedback è così positivo che Kennedy non si preoccupa troppo delle critiche, nei mesi a venire, per l’eccessivo budget elargito per conquistare le primarie del partito.

Questi spot, che per la prima volta fanno entrare con cadenza quotidiana i candidati nelle case degli elettori, svolgono poi un ruolo fondamentale anche nella campagna presidenziale, contribuendo a trasformare Kennedy nel primo candidato pop nella storia degli Stati Uniti. D’altronde, ad essere sinceri, il contenuto ideologico del programma di JFK, sulle tematiche principali, non si discosta poi drasticamente da quello di altri democratici tradizionali del dopoguerra. Sono l’immagine e la comunicazione che cambiano completamente.

In questo contesto, la sua giovane età non è più inesperienza ma, al contrario, un’arma per guardare al futuro, per dare entusiasmo e rinnovate speranze ai cittadini, davanti ad un’America il cui prestigio è messo a rischio a livello globale (un pericolo, reale o meno, più volte paventato ai cittadini da JFK tra il 1959 e il 1960). Ed è proprio sui concetti chiave di cambiamento e speranza che si focalizza la strategia elettorale, come si può ben intendere dalle parole del suo jingle: “Do you want a man for President who’s seasoned through and through? But not so dog-goned seasoned that he won’t try something new? Do you want a man who’s old enough to know and young enough to do?” (a proposito di jingle elettorali, Nixon ne presenta uno dal titolo “Click with Dick” che in un passaggio recitava: Come on and / Click with Dick / The one that none can lick).

A contribuire alla costruzione di quest’immagine, accanto a lui scendono in campo personaggi iconici della cultura popolare, come Frank Sinatra, che registra per l’occasione una versione rivisitata del suo brano “High Hopes” (che nei fatti diviene il vero inno della campagna elettorale di JFK) o Harry Belafonte, protagonista di uno dei tanti commercials. Un cambio di paradigma che segnerà la storia delle elezioni americane.

Micro-targeting e uso dei sondaggi: tra latinos e diritti civili

La campagna di Kennedy, però, non si limita a una rivoluzione d’immagine: le innovazioni sono diverse e efficaci anche da un punto di vista strategico. Abbiamo già citato l’attenzione a mappare da vicino i potenziali elettori del Presidente tra il 1957 e il 1959. Dopo la nomination democratica, questa propensione raggiunge il culmine con un lavoro mirato di micro-targhetizzazione anche di alcune minoranze che avrebbero conquistato sempre più peso, nei decenni successivi, nel determinare l’inquilino della Casa Bianca. Ciò avviene, come descritto in precedenza, con precisi e circoscritti messaggi elettorali televisivi, ma anche con strategie di più ampio respiro. Un esempio è quello che riguarda le comunità ispaniche e afroamericane sebbene, in quest’ultimo caso, è soprattutto la sorte a venire in soccorso del futuro Presidente.

Infatti, se oggi ogni comitato elettorale è profondamente consapevole dell’importanza che riveste il voto dei latinos, è solo nel 1960 con Kennedy che la loro esistenza come “blocco elettorale” inizia timidamente a essere riconosciuta. In onda sulle televisioni del Sud viene trasmesso un messaggio di Jacqueline Kennedy in lingua spagnola e, cosa ancora più importante, sin dal 1959 nasce il movimento “Viva Kennedy” (attivo soprattutto in Texas, Arizona e South Carolina) per favorire l’iscrizione alle liste elettorali degli ispanici. Per contro, in quell’anno, i Repubblicani non hanno né una presenza attiva nella comunità messicana in USA, né tanto meno si preoccupano di rivolgersi a questa minoranza con degli spot dedicati. Il risultato è che l’85% di loro vota per JFK.

Un altro passaggio di grande importanza per le sorti delle elezioni statunitensi del 1960 è la conquista dei voti afroamericani, impegnati nella lotta per il riconoscimento dei propri diritti civili. Al contrario di quanto in molti possano oggi pensare, l’approccio di Kennedy a questo tema fu, almeno fino alla seconda fase della sua presidenza, piuttosto cauto, e gli storico dibattono ancora oggi se ciò avvenne anche a causa di una sua limitata conoscenza della comunità afroamericana, o piuttosto unicamente per precisi calcoli politico/elettorali.

Ad esempio, i democratici del Sud – i cosiddetti Dixiecrats – si oppongono da sempre a qualsivoglia riforma dei diritti civili e il loro voto, per la corsa alla nomination e alla Casa Bianca, è fondamentale. In molti attribuiscono a ciò la decisione di Kennedy di votare contro il Civil Rights Act promosso dai Repubblicani nel 1957. Anche durante la campagna elettorale per la Presidenza, per quanto emerga la sua simpatia e solidarietà verso la comunità afroamericana, da parte di JFK non vi sono proposte di particolare rilevanza o una netta presa di posizione sull’argomento. Come avranno modo di scrivere Jacobs e Shapiro, Kennedy evita di affrontare la questione da un punto di vista morale, “limitandosi” a esprimere il suo supporto in termini costituzionali.

Occorre qui sottolineare come Kennedy fece un uso molto elevato dei sondaggi di opinione, appoggiandosi ai metodi innovativi di Louis Harris. Questi ricoprirono un ruolo fondamentale nella costruzione della strategia e vennero utilizzati in modo ambivalente: da una parte per individuare e circoscrivere quei temi che, se utilizzati al meglio, potevano dare forma e sostanza alle qualità di leadership di JFK; dall’altra anche per comprendere quali argomenti avrebbero potuto creare eccessive divisioni nell’elettorato e situazioni spiacevoli in termini di consenso.  Nel caso dei diritti civili e della comunità afroamericana, i sondaggi suggeriscono ovviamente una profonda eterogeneità dei risultati nel territorio, prevalentemente diviso tra Nord e Sud. Ad esempio, i sondaggi rivelano che in stati come South e North Carolina, fondamentali per i Democratici, la contrarietà all’integrazione è il principale e più sentito tema politico. Una maggiore esposizione potrebbe quindi danneggiare irrimediabilmente la campagna di Kennedy.

Ed ecco che, ad imprimere una svolta, arriva la dea bendata. Nell’ottobre 1960, durante una protesta organizzata ad Atlanta, il reverendo afroamericano Martin Luther King Jr. viene pretestuosamente arrestato. Il rischio che in carcere qualcuno possa attentare alla sua vita è concreto. Se da parte sua Nixon non agisce, Kennedy decide di andare contro i consigli dei suoi advisor, e di intervenire. Prima chiama la moglie di Martin Luther King Jr., quindi fa muovere il fratello Bob per assicurarsi la sua scarcerazione.

Il risultato è sorprendente anche per lo stesso Kennedy: dopo il rilascio arrivano, mezzo stampa, le parole di gratitudine di Martin Luther King Jr verso Kennedy, che suonano come un endorsement, per quanto il reverendo insista nel puntualizzare il contrario.

“I think a great deal of Senator Kennedy, I have met him and I’ve talked with him on three different occasions since the nomination and I think a great deal of him. But I would not, at this point, endorse any candidate because of the nonpartisan position that I follow.” – Martin Luther King Jr.

Più diretti, in tal senso, sono invece i messaggi provenienti dalle persone intorno a King (come quello, ad esempio, del padre del reverendo). Il comitato e i sostenitori di Kennedy comprendono l’opportunità, e danno vita ad una nuova campagna di micro-targeting: viene stampato il cosiddetto Blue Bomb, un volantino distribuito nei principali luoghi di ritrovo della comunità afroamericana in tutto il Paese, per renderla consapevole dell’accaduto e delle parole di M. Luther King. Un contributo, quello degli afroamericani, che risulterà assolutamente fondamentale per la vittoria delle presidenziali. La fortuna di Kennedy è doppia, perché i media principali affrontano solo marginalmente il tema, relegando spesso la notizia a un trafiletto nelle ultime pagine, limitando l’impatto negativo che l’accaduto avrebbe potuto avere su certi potenziali elettori bianchi. Alle elezioni, più del 70% della comunità afroamericana voterà per Kennedy.

 

Il primo dibattito televisivo e la vittoria di Kennedy

Il 26 settembre del 1960 è previsto il primo confronto televisivo della storia tra i candidati alla presidenza. L’audience stimato è del 50 per cento e la tensione dei due candidati, nei giorni precedenti, è più che comprensibile: la consapevolezza che si tratterà di un momento determinante per le sorti delle elezioni è chiara e forte. Le regole: ogni candidato ha otto minuti per una dichiarazione di apertura e tre minuti per una di chiusura, con un intermezzo di quattordici minuti dedicato a rispondere alle domande poste da alcuni giornalisti.

Oggi questo dibattito segna un punto di svolta nella storia della comunicazione politica. Non tanto perché si tratta del primo scontro televisivo tra due candidati presidenti, ma perché, per la prima volta, si ha testimonianza diretta di come l’immagine, negli anni a venire, sarebbe stata per certi versi più importante del contenuto.

Il mito che ricorda, oggi, un Nixon annichilito dall’abilità oratoria di JFK è ben lontano dalla realtà. Lo scontro sui contenuti non fu così sbilanciato. Secondo un sondaggio eseguito nei giorni successivi, per quanto controverso, la maggior parte di coloro i quali hanno ascoltato il dibattito tra Nixon e Kennedy alla radio, si dicono convinti che a vincere sia stato il candidato repubblicano. Il problema, per Nixon, è che quella parte di pubblico televisivo (esponenzialmente maggiore di quello radiofonico) che si sente di assegnare la vittoria del dibattito a uno dei due candidati, propende in larga maggioranza per Kennedy (anche se un 50% non ritiene che vi sia stato un vincitore).

A determinare tale output è l’immagine dei due candidati trasmessa dalla televisione. Kennedy, seguendo i suggerimenti del suo consigliere per la televisione, Bill Wilson, sceglie di apparire con abito e cravatta scuri, e di utilizzare un leggero trucco per il viso. Nixon, al contrario, si presenta con un abito e una cravatta grigi (e senza trucco).

Il risultato è che la figura di Kennedy appare ben definita, il volto è risaltato dal contrasto dei colori dei suoi vestiti, il viso appare omogeneo e pulito, aumentando l’immagine di sicurezza e il suo impatto carismatico. Inoltre, la maggior confidenza di Kennedy con il mezzo è evidente nella sua gestualità rassicurante e nel suo modo di guardare dritto in camera.

La scelta di vestiario di Nixon, invece, non solo riflette la luce – creando degli effetti poco gradevoli – ma rende la sagoma del candidato repubblicano meno definita, quasi sfumata e confusa con lo sfondo, ridimensionando, in un certo senso, la portata delle sue parole. Inoltre, il volto è presto lucido per il calore irradiato dalle lampade utilizzate nello studio: ma la maggior parte dei telespettatori non lo sa, e ritiene che Nixon stia sudando perché teso e in difficoltà, dato che Kennedy – grazie al make-up – non soffre dello stesso problema. Nixon, nei successivi dibattiti, riuscirà a porre rimedio agli errori e a risultare molto più convincente: ma oramai il danno è stato fatto.

 

Il vantaggio che i sondaggi già assegnano a Kennedy, nelle settimane successive al dibattito aumenta significativamente. Si giunge così all’8 novembre 1960: gli Stati Uniti sono chiamati a votare, e Kennedy è il favorito. Le elezioni si risolvono, in realtà, con un margine risicatissimo: nel voto popolare, Nixon arriva dietro di appena 111 mila voti. Ciononostante, il margine di Grandi Elettori conquistati da JFK, anche grazie alle vittorie nello stato di New York, in Texas, Pennsylvania e Illinois è ben più ampio: 303 a 219.

Cala così il sipario sulla prima campagna elettorale moderna, ma non su John Fitzgerald Kennedy. Il suo mito è appena iniziato. Alla Casa Bianca, quello che fino a poco tempo prima era un giovane, promettente e sottovalutato Senatore del Massachusetts costruirà, tassello dopo tassello, una delle più apprezzate presidenze di sempre, destinata a divenire prematuramente storia il 22 novembre 1963.

 

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Bibliografia

  • Donaldson, Gary A.. The First Modern Campaign. Rowman & Littlefield Publishers.
  • Martin Luther King Jr.; Clayborne Carson. The Papers of Marthin Luther King Jr.  Volume V.  University of California Press.
  • Oliphant, Thomas; Wilkie, Curtis. The Road to Camelot: Inside JFK’s Five-Year Campaign. Simon & Schuster.
  • Jacobs L., Shapiro R.. Issues, candidate image, and priming: the use of private polls in Kennedy’s 1960 Presidential Campaign. American Political Science Review. Vol. 88, N.3. Settembre 1994. Link.
  • Stevens D.. Public Opinion and Public Policy: The Case of Kennedy and Civil Rights. Presidential Studies Quarterly, Vol. 32, No. 1. Marzo 2002. Link.
  • John F. Kennedy Presidential Library and Museum. Sito web. Link.
  • Brody, Richard. Star Power. John F. Kennedy welcomed documentary cameras, which loved him back. The Newyorker. Maggio 2016. Link.
  • Green, Emma. The forgotten joy of 1960 Presidential Campaign Jingles. The Atlantic. Link.
  • Plouffe, Favid. JFK’s pioneering election campaign and its reverberations through the years. The Washington Post. Maggio 2017. Link.
  • Simon, Roy. See How JFK Created a Presidency for the Television Age. Time. Maggio 2017. Link.
  • Weber, Bruce. William P. Wilson. Kennedy’s TV Aide for Historic 1960 Debate, Is Dead at 86. The Washington Post.  Dicembre 2014. Link.

Andrea Viscardi

Classe 1988, caporedattore di YouTrend e Responsabile dei Public Affairs e della ricerca parlamentare di Quorum. Nel 2012, ai tempi studente alla LUISS, diedi vita al progetto Europinione.it, testata online di approfondimento politico, internazionale ed economico di cui sono stato responsabile sino al 2017. Tra il 2014 e il 2018 sono stato Segretario Particolare del Presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato, occupandomi principalmente di comunicazione, spin-doctoring e legislativo.

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