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Israele: com’è andata a finire?

Israele: com’è andata a finire?

Le elezioni “senza vincitori” sembravano aver avuto uno sconfitto certo: l’ex premier Benjamin ‘Bibi’ Netanyahu. E invece…

Nonostante molti si trovino spesso ad auspicare il ritorno alle urne peer risolvere i problemi di instabilità politica, non sempre si tratta di una soluzione al problema. Certo, ogni Paese ha il suo sistema politico e le sue regole, e non esiste una ricetta valida sempre e dovunque. Lo stato di Israele, ad esempio, dal 2013 ad oggi ha chiamato quattro volte i suoi cittadini alle urne: nonostante la sua costituzione (la Legge Fondamentale) preveda che un mandato pieno duri quattro anni, nel Paese si è votato nel 2013, nel 2015 e poi due volte nel 2019.

Le elezioni di settembre

L’ultima tornata elettorale si è da poco conclusa: lo spoglio, iniziato nella notte di martedì 17 settembre, è proseguito a rilento e i risultati definitivi sono arrivati solo nella mattinata di sabato 21. A tre settimane dal voto è utile dunque tornare su quelle che sono state le conseguenze più interessanti di questo passaggio elettorale:

  • Non ha vinto nessuno – ancora una volta.
  • Benjamin “Bibi” Netanyahu, il principale protagonista della scena politica israeliana negli ultimi vent’anni, ha perso – seppur di poco – le elezioni (e forse questo non è neppure il peggiore dei suoi problemi).

Partiamo dal primo punto: non è esattamente vero che nessuno abbia vinto le elezioni. Certo, nessuna coalizione – men che meno nessun partito – ha raggiunto il “numero magico” di 61 seggi (ossia la maggioranza dei 120 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano); ma, a ben guardare, un “vincitore morale” c’è ed è Avigdor Lieberman che grazie agli otto seggi ottenuti dal suo partito – Israel Beitenu – potrebbe essere l’ago della bilancia nella formazione del prossimo governo israeliano.

Un “vincitore morale”: Avigdor Lieberman

Lieberman, a differenza di Netanyahu, non è un Sabra (il termine con cui si indicano gli israeliani nati sul territorio israeliano) bensì un immigrato di origini moldave arrivato in Isreale nel 1978; condizione questa che non gli ha impedito tuttavia di fare carriera all’interno del Likud e diventare ben presto uno dei fedelissimi di “Bibi”. Considerato da molti un falco per le sue posizioni oltranziste e politicamente scorrette, nel 1999 lascia il Likud dell’amico Netanyahu per fondare un suo partito: Israel Beitenu (letteralmente “Israele, casa nostra”), una formazione politica di destra nazionalista, sionista e profondamente laica.

Alla guida del nuovo partito riveste importanti incarichi nei vari governi Netanyahu che si succedono: Ministro degli Esteri e vicepremier nel 2009, di nuovo a capo del medesimo ministero nel 2013 e, infine, Ministro della Difesa; poltrona particolarmente delicata in un Paese che non ha mai pienamente risolto la questione palestinese. Lieberman però, nel novembre del 2018, si dimette dall’incarico in aperta polemica con il Premier in merito ad alcune posizioni assunte dagli altri alleati della compagine di governo – Shas e Giudaismo Unito nella Torah – considerati eccessivamente proni all’ortodossia religiosa. E saranno proprio le dimissioni del Ministro una delle ragioni che indurranno Netanyahu a ricorrere alle elezioni anticipate nell’aprile 2019. Elezioni concluse con un nulla di fatto e la presa d’atto dell’impossibilità di costituire una maggioranza di governo. E così, dopo soli cinque mesi e un altro passaggio nelle cabine elettorali, ecco che arriviamo ai risultati di oggi.

Uno stallo (l’ennesimo) figlio del proporzionale

Ma come è possibile che un partito che ha preso il 7% dei voti possa risultare tanto decisivo? Semplice: perché la frammentazione politica ha impedito ai partiti più forti di raggiungere una maggioranza dopo il voto. Ancora di più, si è verificato un sostanziale pareggio: il Likud ha conquistato 32 seggi (25,1%) mentre quello del suo avversario Benny Gantz – leader del partito di centro Blue & White – ne ha conquistato appena uno in più (33, con il 26% dei voti).

In pratica, la coalizione guidata da Netanyahu composta da partiti di destra e partiti religiosi – senza Lieberman – si ferma a 55 seggi. Quella di Gantz – centrosinistra più Lega Araba – arriva a 57 seggi, 4 in meno della maggioranza assoluta. Per gli amanti del genere è importante segnalare come si sia arrivati a questo risultato in virtù di un sistema proporzionale puro , avente come unico correttivo una soglia di sbarramento – piuttosto eterodossa – fissata al 3,25%.

Israele: risultati delle elezioni legislative del 17 settembre

Ora la patata bollente è passata nelle mani del Presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, che ha già dato il via al consueto giro di consultazioni. Le leggi dello Stato di Israele – che, sul modello dell’ex potenza coloniale inglese, non possiede una vera e propria Costituzione scritta – prevedono una deadline precisa in materia: entro 7 giorni dal voto il Presidente incarica uno dei candidati, solitamente quello del partito che ha ottenuto la maggioranza dei voti. A sua volta l’incaricato ha disposizione un tempo massimo di 28 giorni per dar vita al nuovo esecutivo, prorogabili eventualmente di altri 14.

Nel caso in cui questo tentativo non dovesse andare a buon fine, il Presidente ha la facoltà di disporre di un secondo round di consultazioni, ed eventualmente anche un terzo. Infine, nel caso in cui tutte e tre le tornate si dovessero concludere con un nulla di fatto, si dovranno indire nuove elezioni entro 90 giorni.

Secondo la prassi quindi il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto indicare Benny Gantz di Blu e Bianco, il partito che ha preso più voti, come candidato premier. Obiettivo quello di trovare una maggioranza più trasversale possibile, magari – negli intenti dichiarati dello stesso Rivlin – un Governo di unità Nazionale in cui possano confluire sia Blu e Bianco, sia Likud insieme ad altri partiti. Ipotesi apparsa ancora più plausibile nei giorni scorsi quando la lista degli arabi uniti, nel corso del primo giro di consultazioni, avrebbe dato la propria disponibilità ad appoggiare la candidatura di Gantz; evento che non accadeva dal 1992. Invece l’accordo tra i due principali partiti israeliani è saltato e insieme a lui – ad oggi – l’opzione Governo di Unità Nazionale.

Netanyahu rientra in gioco?

Ed eccoci al secondo dei nostri punti: il ritorno sulla scena dell’imprescindibile Netanyahu che, seppur sconfitto, ha ricevuto per l’ennesima volta l’incarico di provare a costituire un governo per il Paese. Del resto quello di Primo Ministro è un ruolo che Bibi conosce perfettamente interpretandolo ininterrottamente dal 2009 e, prima ancora, già nel triennio 1996-1999: il più longevo premier nella storia di Israele, anche più del padre storico della patria Ben Gurion.

Questa volta però il compito sembra un po’ più complesso e serviranno tutte le abilità diplomatiche e la disciplina militare di cui dispone l’ex Capitano delle forze d’élite israeliane: da un lato occorrerà provare a ricucire con Lieberman e convincere il figliol prodigo a tornare nella vecchia casa del centro destra e, in secondo luogo, mostrarsi un candidato autorevole nonostante le accuse giudiziarie che gravano sulla sua carriera. Netanyahu infatti è accusato di corruzione in tre diversi casi di cui il più grave riguarda Bezeq, la più grande società di telecomunicazioni di Israele. Secondo l’accusa, il Primo Ministro avrebbe elargito favori all’azionista di maggioranza della società al fine di ottenere una copertura mediatica favorevole su Walla news, un popolare sito di news israeliano legato a Bezeq.

Nei giorni scorsi, a proposito, Netanyahu è stato convocato dall’Avvocato generale dello Stato Avichay Mandelblit per un’audizione di garanzia relativa ai sospetti di corruzione, frode ed abuso di ufficio: il Primo Ministro incaricato aveva richiesto l’autorizzazione a trasmettere in diretta l’udienza in modo da mostrare la propria linea difensiva di fronte a tutti i cittadini israeliani, autorizzazione che invece gli è stata negata.

Israele: composizione della nuova Knesset

Intanto il Paese tutto – non solo quello politico-istituzionale – si è letteralmente fermato nei 10 giorni che separano il Rosh haShana, il Capodanno ebraico le cui celebrazioni sono iniziate il 29 settembre, dallo Yom Kippur, la festa religiosa più importante del Paese.

Vedremo se il nuovo anno ebraico riuscirà a portare anche un nuovo governo in Israele e, soprattutto, se si tratterà di un Governo di Unità Nazionale (Netanyahu ha già fatto sapere di voler comunque incontrare nuovamente Gantz) oppure se sarà il frutto del ritrovato accordo fra Bibi e l’ex alleato Lieberman. Anche se prima delle elezioni alcuni media internazionali ritenevano invece che lo spregiudicato leader di Israel Beitenu – al di là delle dichiarazioni di rito – voglia porre fine all’era politica di Netanyahu. Immaginando se stesso nel ruolo di Bruto e il capo del Likud in quello di Cesare.

Fabrizio Bonifacio

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