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Le candidature dei partiti: quote rosa, pluricandidature e età media

Le candidature femminili sono sensibilmente meno di quelle maschili e le pluricandidature possono ridurre ulteriormente il numero di elette

Il 25 settembre si voterà per eleggere la Camera e il Senato e per la seconda volta si userà il Rosatellum.

La legge elettorale prevede una serie di misure volte a garantire la rappresentanza di genere. In particolare, sono previste le seguenti tre condizioni:

  1. Ogni partito o coalizione non può avere più del 60% di candidati dello stesso genere nei collegi uninominali: questo vale a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato;
  2. Ogni partito non può avere più del 60% di capilista dello stesso genere nella parte proporzionale: anche qui il criterio è nazionale alla Camera, regionale al Senato;
  3. I candidati nelle liste plurinominali devono essere alternati per genere.

 

Le quote di genere negli uninominali

I partiti, per la parte uninominale, non si sono spinti particolarmente sopra il minimo richiesto dalla legge. Nei collegi uninominali di Camera e Senato le donne sono infatti il 44,2 per cento dei candidati e gli uomini il 55,8 per cento. 

Escludendo i partiti non presenti su tutto il territorio nazionale, quello che ha candidato più donne è Unione Popolare, il partito guidato dall’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, con il 45,1 per cento. Con il 44,6 per cento c’è poi il terzo polo di Azione e Italia Viva e con il 43,7 per cento la coalizione di centrosinistra formata da Partito Democratico, Alleanza Verdi Sinistra, +Europa e Impegno Civico. Allo stesso identico valore del centrosinistra c’è anche il Movimento 5 Stelle. Hanno candidato esattamente il 40,8 per cento di donne negli uninominali le quattro liste di centrodestra, cioè Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e Noi Moderati. 

I dati divisi tra Camera e Senato mostrano che sono state candidate più donne al Senato, dove le candidature femminili arrivano al 45,6 per cento, mentre alla Camera si fermano al 42,6 per cento. 

Va comunque considerato che, dei 221 collegi uninominali tra Camera e Senato, con gli attuali sondaggi solo la coalizione di centrodestra è certa di eleggere un importante numero di deputati e senatori e ha collegi definibili come blindati. Per l’altra coalizione e le altre liste è molto più importante la parte proporzionale. 

 

 

Le quote di genere nei plurinominali

Il sistema elettorale prevede una parte uninominale (dove c’è un solo candidato per coalizione) ma anche una proporzionale (dove c’è un listino di massimo quattro candidati per partito). La legge elettorale consente di presentarsi contemporaneamente in un collegio uninominale e in cinque collegi plurinominali, aumentando la sua probabilità di elezione. Il meccanismo è particolarmente importante per i partiti più piccoli che non sono sicuri sul dove riusciranno a far scattare il seggio e non hanno molte speranze negli uninominali.

Complessivamente, alla Camera il 43 per cento dei capilista sono donne e il 57 per cento uomini. Unione Popolare è il partito più vicino alla parità con il 49 per cento di donne, mentre tutti gli altri si posizionano tra il 40,8 e il 42,9 per cento. 

 

 

Al Senato, essendo il criterio delle quote regionale, la quota di candidature femminili scende al 36 per cento. In questo caso Alleanza Verdi Sinistra è il partito con il maggior bilanciamento con le donne candidate nel 46 per cento dei posti da capolista, mentre tra il 42 e il 43 per cento ci sono Movimento 5 Stelle e Impegno Civico. Tra il 35 e il 40 per cento si trovano Forza Italia, Unione Popolare e Più Europa, mentre tra il 30 e il 35 per cento Azione/Italia Viva, Partito Democratico e Fratelli d’Italia. Noi Moderati e Lega si fermano al 27 per cento. 

Come fa la Lega a essere al 27 per cento, se in ogni regione ogni genere deve avere almeno il 40% di capolista? Il motivo risiede nel fatto che in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Toscana e Umbria c’è solo un collegio plurinominale per regione e in tutti questi il partito di Matteo Salvini ha messo un uomo come capolista. Nell’unica regione con tre plurinominali, la Lombardia, la Lega ha messo due uomini come capolista. 

Va anche considerato che le multicandidature possono diventare uno strumento per limitare ulteriormente la rappresentanza di genere: se infatti un partito candida una donna capolista in cinque collegi e tutti questi sono posti dove scatta il seggio è chiaro che sarà eletta una donna e gli altri saranno uomini in quanto. per l’alternanza di genere nelle liste, la seconda posizione deve essere occupata da un uomo.

Nel 2018 complessivamente le donne erano solo il 35 per cento dei parlamentari – con un massimo del 42 per cento nel M5S e un minimo del 26 per cento in Fratelli d’Italia – proprio per via delle pluricandidature. 

 

 

Le pluricandidature

Tutti i partiti hanno fatto ricorso alle pluricandidature, ma alcuni in misura sensibilmente maggiore di altri. Ricordiamo che una persona può essere candidata in cinque collegi plurinominali e un collegio uninominale. 

Le pluricandidature riguardano il 34,3 per cento dei candidati del M5S, il 30,2 per cento di quelli di Italexit, il 22,3 per cento di quelli di Impegno Civico, il 17,7 per cento di quelli di Azione/Italia Viva. Ci sono poi con il 15,4 per cento +Europa, con il 14 per cento Fratelli d’Italia e con il 12,4 per cento Unione Popolare. Infine, con il 9,2 per cento c’è la Lega, con l’8,8 per cento il Partito Democratico, con il 7,9 per cento Forza Italia, con il 5,6 per cento Alleanza Verdi Sinistra e con il 4,1 per cento Noi Moderati. Complessivamente circa il 20 per cento dei candidati è candidato in più di un posto.

Chi sono però questi pluricandidati? Limitandosi a chi è candidato in cinque o sei collegi, vediamo che Emma Bonino, Benedetto della Vedova e Riccardo Magi (+Europa) sono candidati in sei posti, Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro (Alleanza Verdi Sinistra) in cinque, Carlo Calenda e Mariastella Gelmini (Azione/Italia Viva) in cinque, Silvio Berlusconi (Forza Italia) in cinque. Giorgia Meloni ha sei candidature in Fratelli d’Italia, Bruno Tabacci e Luigi Di Maio sei ciascuno in Impegno Civico, mentre Chiara Appendino e Giuseppe Conte hanno cinque candidature ciascuno nel Movimento 5 Stelle. La Lega ha fatto ricorso alle pluricandidature in cinque o sei posti per quattro candidati, ma non per Matteo Salvini che è in quattro collegi, mentre il Partito Democratico ha limitato le pluricandidature a due collegi, con l’unica eccezione della senatrice Valeria Valente che è candidata in tre collegi. 

 

 

L’età media dei candidati

In media i candidati hanno 51,5 anni, ma alla Camera l’età media è di 49,4 anni mentre al Senato di 55,8 anni. Il partito con l’età media più bassa è il Movimento 5 Stelle con 49,5 anni, mentre quello con quella più alta è Noi Moderati con 52,7 anni. 

Alla Camera il partito con l’età media più bassa è il Movimento 5 Stelle con 47,3 anni in media, seguito da Unione Popolare con 48,8 anni e Alleanza Verdi Sinistra con 48,9 anni. I tre con l’età media più alta sono invece Azione/Italia Viva, Noi Moderati e Forza Italia, rispettivamente con 50,4, 50,7 e 51,2 anni di media. 

Al Senato i partiti con l’età media più bassa sono Italexit (53,8 anni), Movimento 5 Stelle (54,2) e Lega (54,6), mentre quelli con l’età media più alta sono Alleanza Verdi Sinistra (56,5), Noi Moderati (56,8) e Unione Popolare (58,2). Il Partito Democratico ha un’età media di 49 anni alla Camera e 55,5 al Senato, mentre Fratelli d’Italia è rispettivamente a 49,6 anni e 55,1 anni. 

 

 

Lorenzo Ruffino

1 commento

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