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Voter suppression e gerrymandering: i difetti della democrazia americana

Voter suppression e gerrymandering: i difetti della democrazia americana

Ecco due modi con cui le autorità possono incidere sull’esito delle elezioni negli USA

Due dei problemi della democrazia americana di cui si parla sempre di più con l’avvicinarsi al giorno del voto sono voter suppression e gerrymandering, che rischiano di influenzare l’esito delle elezioni presidenziali, congressuali e statali.

Con il termine voter suppression si indicano tutti quei metodi legali finalizzati ad escludere dal voto alcune fasce delle popolazione, come la cancellazione dalle liste elettorali, le limitazioni al voto anticipato e la chiusura di seggi. Il tema è reso ancora più attuale dalla pandemia, che rende più complicato per gli elettori esercitare il diritto di voto.

Il gerrymandering consiste invece nel ridisegnare i collegi elettorali in modo da ottimizzare il risultato a proprio favore, sfruttando il meccanismo maggioritario caratteristico delle elezioni statunitensi. Questa pratica può dunque mostrare i suoi effetti più evidenti sugli organi eletti attraverso collegi uninominali, ossia la Camera dei Rappresentanti e i Parlamenti dei 50 Stati, ma potrebbe indirettamente pesare anche sull’elezione presidenziale:

  • Se nessun candidato dovesse ottenere almeno 270 grandi elettori, in base all’art. 2 della Costituzione l’elezione del presidente spetterebbe proprio alla Camera dei Rappresentanti (ne abbiamo parlato qui);
  • Se in alcuni Stati un candidato dovesse vincere con un margine ristretto nel voto popolare, se ci fossero richieste di riconteggio oppure grandi elettori “infedeli” (faithless electors), allora i Parlamenti statali potrebbero intervenire sui grandi elettori dei rispettivi Stati: sempre l’art. 2 della Costituzione prevede infatti che i grandi elettori siano scelti “nel modo prescritto dai Parlamenti statali”.

 

I metodi per bloccare il diritto di voto

Ogni Stato organizza il voto secondo le proprie regole, e le autorità statali le possono di volta in volta sfruttare per trarre dei vantaggi.

Uno dei metodi consiste nell’intervenire sulle liste elettorali che includono le persone registrate per votare. Negli Stati Uniti la registrazione al voto non è infatti automatica come in Italia, e per ridurre gli elettori con diritto di voto si possono inserire norme che cancellano automaticamente chi non è andato recentemente a votare (il principio “use it or lose it”), oppure limitare la possibilità di registrarsi, riducendo gli uffici dove è possibile farlo o impedendo di registrarsi il giorno del voto.

Un altro metodo è la richiesta di determinati documenti di identità con foto per il riconoscimento al seggio, documenti di cui spesso sono sprovviste le persone dei quartieri più poveri o appartenenti a minoranze etniche. Anche qui c’è da marcare una differenza con l’Italia: negli USA non esiste infatti l’obbligo di possedere alcun documento.

Oltre a incidere sugli elettori, le leggi possono regolare anche i seggi e i meccanismi del voto. Si può facilitare o rendere più complicato il voto anticipato (riducendo le finestre temporali) o il voto per posta (limitandolo esclusivamente a certe circostanze), oppure si può rendere più complesso il recarsi alle urne riducendo, soprattutto in certe aree dello Stato, i seggi elettorali o le voting machines, in modo da rallentare le procedure, creare lunghe file e scoraggiare gli elettori.

Un altro fattore importante è la pandemia, che non solo spingerà più elettori a votare in anticipo o per posta, ma potrebbe creare anche problemi ai seggi, vista l’impressionante carenza di funzionari – i cosiddetti poll workers – che gestiscono le operazioni elettorali e che stavolta decideranno di restare a casa. C’è l’ipotesi – sostengono diversi media americani – che il candidato che risulterà in vantaggio la notte delle elezioni non aspetti i risultati definitivi per annunciare la vittoria: uno scenario da incubo che rischia di far piombare nel caos e nell’incertezza un Paese già in piena recessione economica a causa della pandemia e da poco uscito da una lunga ondata di proteste contro il razzismo.

 

Voter suppression e discriminazioni razziali nella storia

Negli Stati Uniti la determinazione dei requisiti per rientrare nell’elettorato attivo, cioè per aver diritto a votare, è delegata ai singoli Stati: in passato sono stati appunto gli Stati a impedire a determinate fasce di popolazione, in particolare agli afroamericani, di poter votare.

Soltanto nel 1870 ai maschi afroamericani venne concesso il diritto di voto, diritto che però era spesso limitato dalle cosiddette leggi Jim Crow, che continuarono a lungo ad escluderli per via del censo e del grado d’istruzione. Nel contesto della segregazione vennero infatti introdotti numerosi provvedimenti che ufficialmente non discriminavano su base razziale, ma erano volti ad annullare l’incidenza politica dei nuovi freedmen in America.

Un esempio è la poll tax, una tassa imposta come somma fissa ad ogni individuo che intendeva registrarsi per votare. Un’altra misura che colpiva segnatamente gli afroamericani – ma estrometteva dal processo elettorale anche i bianchi appartenenti alle classi meno abbienti – era il test del livello di alfabetizzazione della popolazione, eliminato definitivamente dal Voting Rights Act del 1965. Queste strategie adottate unicamente per isolare le minoranze vengono solitamente associate al profondo Sud, anche se in realtà molte di esse rimasero in vigore fino alla seconda metà del Novecento anche in vari Stati del New England, come Connecticut, Maine, Massachusetts e Vermont.

 

I casi recenti in Georgia

Negli anni recenti uno dei casi più noti di voter suppression è sicuramente quello della Georgia, dove un recente studio del Palast Investigative Fund pubblicato lo scorso 1° settembre ha individuato centinaia di migliaia di nomi cancellati per errore dai registri elettorali.

L’inchiesta, condotta dal giornalista investigativo della BBC Greg Palast e basata su un’attenta lettura dei documenti pubblicati nel 2019 dalla Segreteria di Stato della Georgia, ha trovato i nomi di 313.243 elettori rimossi dalle liste elettorali nel periodo 2013-2020 in quanto ufficialmente “residenti in un altro Stato”. Di essi, però, 198.351 non avevano cambiato nessun indirizzo di residenza e la loro eliminazione sarebbe dunque dovuta a uno sbaglio, sommato all’utilizzo del principio “use it or lose it”: chi non aveva votato nelle ultime due elezioni federali e non aveva confermato il proprio indirizzo era considerato trasferito in un altro Stato. Si legge nel report: “La discriminazione razziale, il reddito, l’età e il luogo di residenza sono endemici del fenomeno. Non siamo però in grado di dire se sia stato condotto deliberatamente o involontariamente”.

Ma negli ultimi sette anni in Georgia ci sono state svariate elezioni dove la voter suppression è risultata probabilmente determinante, anche nell’elezione del governatore del 2018, che ha visto prevalere il repubblicano Brian Kemp sull’attivista democratica afroamericana Stacey Abrams per poco più di 50.000 voti.

La vittoria di Kemp è arrivata dopo settimane di notizie, denunce e accuse che hanno fatto suonare qualche campanello d’allarme sulla regolarità delle elezioni. In un audio ottenuto dalla stampa a pochi giorni dall’election day, Kemp si è rivolto ai suoi donatori preoccupato per l’incremento dell’affluenza che un’afroamericana come Stacey Abrams avrebbe potuto causare.

In effetti, nel giorno delle elezioni si sono registrate lunghe file di afroamericani ai seggi. La campagna di Abrams ha criticato l’obsolescenza e la mancanza di voting machines adeguate, fatto che avrebbe sensibilmente rallentato le operazioni di voto. Alla fine non è stato riscontrato nessun illecito commesso dai vertici del Peach State per impedire ai democratici di vincere, ma, come ha dimostrato il report del Palast Investigative Fund, il malfunzionamento della macchina elettorale statale ha influito soprattutto sul voto per corrispondenza, la modalità preferita dagli elettori democratici.

 

Gerrymandering: come sottorappresentare gli elettori

 

Il gerrymandering è una pratica che prende il nome dal governatore democratico-repubblicano del Massachusetts Elbridge Gerry, il quale nel 1812, per assicurarsi la maggioranza nel Parlamento dello Stato, fece ridisegnare i distretti elettorali in maniera particolare e curiosa. La mappa dei nuovi distretti elettorali del Massachusetts venne aspramente criticata dalla stampa dell’epoca: in un articolo pubblicato sulla Boston Gazette comparve una vignetta che raffigurava un distretto elettorale a nord di Boston come una mitologica salamandra, perché quella era la sua nuova forma.

Ogni dieci anni negli Stati Uniti le mappe dei collegi per la Camera e per i Parlamenti statali vengono aggiornate per far fronte ai cambiamenti demografici, e in queste occasioni i partiti ne approfittano per ridisegnare i collegi a proprio vantaggio sfruttando il meccanismo maggioritario della legge elettorale. Lo scopo è quello di vincere nel maggior numero di collegi partendo dalla medesima distribuzione (ipotizzata) di voti. Il gerrymandering è abbastanza comune nella politica americana e ne beneficiano in egual modo i partiti, perfino gli scissionisti del Sud che nel secondo dopoguerra lasciarono il Partito Democratico.

Attraverso questa pratica si possono disegnare dei distretti elettorali che omettono sistematicamente gli elettori orientati a votare un partito piuttosto che un altro. La maggior parte delle volte questo fenomeno ha riguardato gli afroamericani, che oggi votano in massa per i democratici, ma in alcuni Stati le vittime del gerrymandering sono stati anche gli elettori repubblicani.

 

Ma come funziona il gerrymandering, che annulla tutti gli effetti proporzionali nella ripartizione dei seggi? Per applicarlo, è necessario suddividere il maggior numero di voti che riceve un partito nel minor numero di distretti possibili, in modo da creare una distorsione che avvantaggi la lista numericamente inferiore. Vediamo ora alcuni esempi di distretti “gerrymandered”.

 

Il dodicesimo distretto della North Carolina è, secondo il Washington Post, il distretto più “gerrymandered” d’America. Oggi la maggioranza relativa degli elettori è bianca (41%), e i democratici sono stati in grado di vincere qualsiasi tornata elettorale dal dopoguerra a oggi, grazie anche alla presenza di alcune zone liberal di Charlotte. Nel 2016 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ordinato allo Stato di ridisegnarne i confini poiché quelli precedenti erano incostituzionali.

 

Il Maryland è uno degli Stati con il maggior numero di distretti “gerrymandered”. Il terzo distretto, costruito ad arte dai democratici, è stato descritto da un giudice federale come uno “pterodattilo con un’ala rotta inginocchiato intorno allo stato”. Parte della città di Baltimora, roccaforte dem, è inclusa in questa bizzarra circoscrizione.

 

Collocato nei sobborghi di Houston, il settimo distretto congressuale del Texas racchiude più di mezzo milione di elettori e somiglia a una locomotiva a vapore. Dal 1967 al 2019 i repubblicani qui hanno eletto ininterrottamente un loro deputato al Congresso.

 

Un futuro incerto

A novembre sarà interessante vedere se voter suppression e gerrymandering avranno un ruolo nelle elezioni del Congresso e del presidente, oltre che nel rinnovo della gran parte delle assemblee legislative degli Stati. Una volta raccolti i dati complessivi del censimento di quest’anno, inoltre, si dovranno ridisegnare i confini dei distretti della Camera e delle assemblee statali: sarà interessante vedere cosa succederà ad esempio in Stati come la North Carolina, dove le recenti sentenze della Corte Suprema hanno imposto al legislatore di ripensare completamente i distretti.

 

Gianluca Lo Nostro

Autore e conduttore del podcast Elezioni USA 2020. Si occupa di Esteri per diverse testate giornalistiche. Cura la newsletter Jefferson - Lettere sull'America insieme a Matteo Muzio. Per YouTrend scrive di Stati Uniti e Canada.

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