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Gli effetti della crisi sulla fertilità

Gli effetti della crisi sulla fertilità

La crisi economica ha portato un crollo demografico con pochi precedenti nella storia d’Italia. Ma quali sono le vere cause della crisi della fertilità?

Qualche mese fa avevamo affrontato il delicato tema della natalità, provando a mostrare le varie ragioni culturali e demografiche per cui oggi in Italia nascono meno della metà dei bambini rispetto a cinquant’anni fa (clicca qui per la prima parte dell’analisi).

Se dal 1985 al 2000 avevamo vissuto un periodo di relativa stabilità, dal 2008 in poi la crisi demografica ha ripreso forza. Ecco un’infografica con i dati ISTAT in sintesi:

Oggi affrontiamo lo stesso tema da un punto di vista diverso: che ruolo ha avuto l’economia – e in particolare la crisi – sul calo delle nascite?

Il reddito

Oltre alle determinanti prevalentemente culturali o comunque legati a dinamiche di lungo periodo, infatti, entrano in gioco anche fattori prettamente economici. Negli ultimi anni l’impatto dell’economia sembra essere aumentato: se nel 1997 il PIL era correlato negativamente con la fertilità, oggi questa correlazione è fortemente positiva. Tradotto: dove l’economia è più solida nascono più bambini; viceversa, dove la crisi ha colpito più duramente ne nascono sempre meno.

La correlazione fra reddito e fertilità

Nel grafico sono rappresentati i circa 8 mila comuni italiani in base al reddito imponibile medio del 2016 e al numero medio di figli per donna. La correlazione è moderata (R = 0,31), nonostante un alto numero di outlier, e la retta di regressione è piuttosto inclinata. Questo significa che, in media, ogni 1.000 € di reddito in più i figli per ogni donna aumentano del 2,6%. Può sembrare poco, ma non lo è.

Prendiamo ad esempio due comuni, con un reddito medio rispettivamente di 10 mila e di 25 mila euro, quindi situati alle estremità della “nuvola” nel grafico. Secondo il modello, ogni 1000 donne, nel comune “ricco” nasceranno in media circa 400 bambini in più rispetto a quello “povero”. Quasi la stessa differenza che intercorre fra la Lettonia (settimo paese più fertile d’Europa per fertilità) e l’Italia (ultimo).

La povertà

L’impatto positivo del reddito sulle nascite significa, per contro, che la crisi economica ha contribuito in maniera decisiva al crollo della natalità. Tale impatto emerge in modo evidente osservando il grafico che mette in correlazione il tasso di fertilità totale con l’indice di povertà relativa nella fascia più fertile della popolazione (fra i 18 e i 34 anni) dell’anno precedente. La cosa più interessante da sottolineare è che il rapporto fra povertà e fertilità è profondamente cambiato dall’inizio della crisi. Fino al 2008 la natalità aumentava in modo regolare, mentre grazie alla relativa stabilità economica di quegli anni la povertà relativa si manteneva quasi costante fra il 10% e l’11%. Le due variabili, quindi, erano quasi completamente indipendenti, con una correlazione di -0,11.

Dallo scoppio della Grande Recessione in poi, invece, il trend si è definito in modo preciso, con la fertilità che diminuiva di pari passo con l’aumento della povertà. Dal 2008 al 2017 la correlazione (negativa) fra tasso di fertilità totale e indice di povertà relativa nelle regioni italiane è stata dunque molto forte (R = -0,55). Questo ci dà un’indicazione precisa rispetto alle responsabilità della crisi, con il clima di insicurezza economica che deprime la natalità di tutte le famiglie, non solo di quelle meno abbienti.

L’impatto forte della povertà (dopo il 2008)

Il mercato del lavoro

Con l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro, è diventato sempre più centrale nella scelta della maternità il trade-off con la carriera. Per trade-off intendiamo soprattutto riferirci alla variabile della sicurezza del posto di lavoro. Con il tempo, infatti, sono aumentate le tutele giuridiche che consentono alle donne di mantenere l’impiego in caso di assenza per maternità, ma vi sono comunque numerosi casi di lavori precari nei quali tali garanzie vengono meno. Non solo: la scelta di portare avanti una gravidanza rischia di risultare penalizzante anche per quanto riguarda la carriera (e quindi il livello di retribuzione) futura.

Provare a stimare quanto è importante il trade-off fra vita familiare e carriera non è facile. Gli studi più autorevoli in materia, infatti, si avvalgono di dati raccolti in decine di anni di ricerche sul tipo di istruzione scelto dalle donne e sulla loro carriera lavorativa. Tuttavia, possiamo partire da un’ipotesi: i lavori in cui vengono più penalizzate le assenze prolungate – come quelle per maternità – sono quelli di concetto, in cui tecniche e capacità devono essere costantemente aggiornate. Al contrario, i lavori con una tecnica più statica, siano essi manuali o meno, permettono più flessibilità in caso di interruzioni anche lunghe.

Possiamo approssimare questa differenza fra un lavoro e l’altro con la quantità di formazione necessaria per svolgerli, quantificabile in anni di istruzione. L’assunto è che i mestieri per i quali una (o più di una) pausa per maternità risulti più problematica sono quelli più qualificati, che richiedono cioè più anni di studio, e che – al contrario – per lavori meno qualificati l’impatto negativo un’assenza prolungata tenderà ad essere minore.

Per verificare se questo ipotesi sia attendibile, abbiamo messo a confronto gli anni medi d’istruzione nelle province italiane nel 1991, 2008 e 2017 e li abbiamo confrontati con il tasso di fertilità.

La fertilità e il titolo di studio

Nel 1991 la relazione negativa era chiara: dove l’istruzione era minore, nascevano più figli per ogni donna. Questo, però, era soprattutto dovuto a fattori geografici e, quindi, culturali: nel primo articolo abbiamo parlato della secolarizzazione e del suo impatto differenziato fra Nord e Sud. Non è quindi una sorpresa il fatto che nel Mezzogiorno fino a vent’anni fa la fertilità fosse molto più alta che nelle regioni settentrionali.

La situazione si ribalta completamente nel 2008. All’inizio della crisi le provincie più fertili sono quelle più istruite, segno che la crescita economica degli anni precedenti (più concentrata al Nord) aveva portato a una maggiore propensione a fare figli. Al contrario al Sud, nonostante una maggiore crescita dell’istruzione, l’attenuazione dei fattori culturali preesistenti aveva portato a un calo generalizzato della fertilità. Insomma, nel 2008 la relazione fra istruzione e figli per donna è leggermente positiva: per ogni anno di istruzione aggiuntivo nascono, in media, 74 figli in più ogni 1000 donne.

Negli anni della crisi, infine, il trend si è nuovamente invertito: nel 2017 la relazione (indicata dalla retta verde) è praticamente piatta: ciò significa che oggi i dati sulla fertilità sono completamente indipendenti rispetto all’istruzione. Si osserva così un secco annullamento dell’effetto positivo degli anni di studio sui figli per donna, effetto che si era costruito lentamente durante gli anni precedenti.

Tutto ciò non costituisce una prova decisiva dell’impatto della crisi. Tuttavia, ci induce a ritenere che negli ultimi anni la maggiore difficoltà a rinunciare a diversi mesi di lavoro per portare avanti una gravidanza abbia colpito di più le donne che svolgono lavori qualificati. Questa potrebbe essere la ragione per cui, dopo anni di declino, l’importanza del trade-off fra famiglia e carriera è di nuovo aumentata.

Il gender gap

Un altro elemento rilevante che influenza le nascite è il gender gap del mercato del lavoro, ovvero la differenza di occupazione fra uomini e donne. In pratica: un gender gap pari a 0% indica che lavorano lo stesso numero di uomini e donne, 50% significa che le donne che lavorano sono la metà degli uomini, mentre 100% vuol dire che nessuna donna lavora.

L’evoluzione del gender gap in Italia

Come si vede dalla mappa, nel 1997 il gender gap era superiore al 50% in quasi tutte le regioni del Sud, mentre al Centro-Nord era quasi ovunque inferiore al 40%. Nei 20 anni successivi la situazione è visibilmente migliorata in tutta Italia (salvo che in Abruzzo), con dati sotto il 25% in tutto il Centro-Nord e intorno al 40% al Sud.

Un’altra cosa che è cambiata, però, è come il gender gap influenza la fertilità. Negli anni ’90 il divario di genere era correlato positivamente con la fertilità: dove lavoravano meno donne nascevano più bambini. La causa era, di nuovo, la maggiore fertilità delle regioni del Sud. Oggi l’impatto del gender gap è opposto: la fertilità è più alta dove le donne lavorano di più, anche se la relazione non è così nitida.

Conclusioni

Dopo aver osservato l’effetto di tutte le variabili considerate in quest’articolo, sarebbe fondamentale andare oltre: la crisi ha cambiato significativamente l’approccio alla pianificazione familiare in Italia per un gran numero di cause a volte meno tangibili del semplice reddito. Non tutte, cioè, sono riconducibili all’economia o ad aspetti sociodemografici, anzi: sul tema intervengono fattori psicologici diffusi, il cui effetto è molto difficile da misurare. Tuttavia, anche – e soprattutto – questi fattori hanno bisogno di essere riconosciuti e affrontati.

La domanda da porsi è quali possano essere le misure specifiche da adottare per invertire la tendenza di crisi demografica. Oltre a quelle generali volte alla ripresa economica, infatti, sarebbero imprescindibili delle politiche adeguate di supporto alla genitorialità, finora mancate negli ultimi anni. Nel frattempo il calo della fertilità, che ricade all’interno di un più ampio quadro di giustizia generazionale mai affrontato seriamente negli ultimi anni, è in attesa di risposte.

Giovanni Forti

Romano, studia Economics all'Università di Pisa e alla Scuola Sant'Anna. Quando non è su una montagna, si diverte con sistemi elettorali, geografia politica e l'impatto delle disuguaglianze sul voto.

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