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USA 2016: le regole del gioco

USA 2016: le regole del gioco

Comincia oggi su YouTrend una rubrica settimanale che cercherà di fare il punto sui sondaggi delle presidenziali americane del prossimo 8 novembre. A noi di YouTrend le elezioni americane appassionano da sempre – per farvi capire come siamo messi, Giovanni Diamanti ha fatto il volontario per Obama in Pennsylvania nel 2008, e chi scrive ha una piccola collezione di libri sul tema fra cui le prime edizioni con dedica autografa di entrambi i libri di Barack Obama e di My Life, l’autobiografia di Bill Clinton.

Da febbraio abbiamo girato l’Italia insieme all’amico Francesco Costa del Post con il tour “USA 2016: le elezioni americane spiegate bene”, per raccontare le mille storie, i protagonisti e le strategie del voto di quest’anno. A proposito, se vi interessano le elezioni americane fatevi un favore e iscrivetevi alla newsletter di Francesco. È gratis e diventerà il vostro appuntamento fisso, ogni sabato mattina.

Veniamo alle elezioni, però. In questo primo pezzo cercheremo di dare qualche dritta sul sistema di voto americano – che è meno semplice di quanto si pensi –, e dedicheremo le prossime puntate a capire chi fa i sondaggi e come negli Stati Uniti, come imparare a leggerli, e su cosa ci diranno, di qui a novembre, sulla corsa alla Casa Bianca.

Per prima cosa: a differenza di gran parte dei Paesi del mondo, in America non vince chi prende più voti a livello nazionale. Il Presidente, infatti, viene formalmente designato da 538 “Grandi elettori”, che compongono il cosiddetto Electoral College. Perché proprio 538? Perché è la somma del numero di deputati (435) e senatori (100), più 3 elettori per Washington D.C., la capitale, che per ragioni storiche non è rappresentata al Congresso.

Diventa Presidente chi ottiene la maggioranza di questi 538 “Grandi elettori”, cioè almeno 270. Succede che ogni stato assegna un numero variabile di “voti elettorali”, in base alla popolazione: dai 3 degli stati più rurali e meno abitati, come il Montana e il North Dakota, ai 55 dello stato più grande degli Stati Uniti, la California. Gli altri stati con più voti elettorali sono Texas (38), Florida (29) e New York (29).

In termini generali, il candidato Presidente che vince, anche solo per un voto, uno stato si porta a casa tutti i Grandi elettori di quello stato. Qualcuno di voi ricorderà che nel 2000 George W. Bush vinse di 537 voti in Florida (su più di 5 milioni di voti) e ottenne la Casa Bianca a discapito di Al Gore, perché gli furono assegnati tutti i grandi elettori della Florida, che all’epoca erano 25.

Ci sono due eccezioni interessanti, cioè due stati che non adottano il winner take all, ma che assegnano i propri grandi elettori in modo proporzionale: sono uno stato generalmente “rosso”, il Nebraska, e uno stato generalmente “blu”, il Maine (sui colori: ci arriviamo).

Il Nebraska assegna 2 dei suoi 5 grandi elettori a chi vince a livello statale, e i restanti 3 a chi vince nei singoli congressional districts (cioè i collegi per la Camera dei Rappresentanti). Il Maine ne assegna 2 al vincitore statewide e 2 a chi vince nei collegi. Succede raramente, ma per esempio nel 2008, al tempo della prima vittoria di Barack Obama, l’attuale Presidente riuscì a strappare un grande elettore del Nebraska, vincendo nel collegio NE-2 (che coincide con Omaha e dintorni: la capitale dello stato è invece Lincoln).

Parlavamo di colori, prima: sì, perché in America è consuetudine chiamare red states, “stati rossi”, quelli che votano per i Repubblicani e blue states, “stati blu”, quelli che votano per i Democratici. È curioso perché in Europa lo schema cromatico è invertito, e si usa il rosso per la sinistra e il blu per la destra. Ma negli Stati Uniti è così dal 2000, l’elezione di cui parlavamo prima per il risultato incertissimo in Florida. I network televisivi, e in particolare il compianto Tim Russert della NBC, decisero che almeno sui colori c’era da mettersi d’accordo. E così fecero: rosso per i Repubblicani, blu per i Democratici.

Non è finita qua, però: da qualche tempo si usa anche l’espressione “purple states”, “stati viola”, per indicare gli stati in bilico, che nel giro delle ultime presidenziali hanno votato qualche volta da una parte e qualche volta dall’altra. Sono i cosiddetti swing states (“stati ballerini”) o battleground states (“stati contesi”), cioè quelli che di solito decidono il risultato delle presidenziali.

Il perché è presto detto: alcuni stati votano marcatamente da una parte – per esempio il Massachusetts o la California, che votano per il candidato democratico dal 1992 – e altri dall’altra – come Wyoming e North Dakota, che premiano i Repubblicani addirittura dal 1968. Se ci pensate, è un po’ come l’Emilia-Romagna e la Toscana, che tradizionalmente favoriscono il centrosinistra, e il Veneto, che di solito sceglie il centrodestra.

Quindi, per arrivare ai fatidici 270 grandi elettori, tocca vincere negli swing states, quelli in cui uno spostamento di poche migliaia di voti può far pendere l’ago della bilancia a favore di un candidato o dell’altro. Negli ultimi decenni, il ruolo di territori-chiave è stato giocato da grandi stati come Florida e Ohio, ma anche da stati più piccoli, come Iowa o New Mexico: in un’elezione combattuta, anche pochi grandi elettori possono fare la differenza. È per questo che gran parte della campagna elettorale, degli spot televisivi e dei comizi dei candidati alla presidenza e alla vicepresidenza si tengono in una manciata di stati: non nelle città più popolose, come New York o Los Angeles, perché abbiamo detto che a New York e in California i democratici hanno un largo vantaggio; ma appunto in quei pochi stati-chiave che segnano il crinale fra la vittoria e la sconfitta. E sono questi gli stati in cui si concentrano anche i sondaggi.

Ci torneremo meglio nelle prossime puntate, ma quest’anno gli stati che la maggior parte degli osservatori e degli analisti considera in gioco sono (in ordine decrescente di popolazione) Florida, Pennsylvania, Ohio, North Carolina, Virginia, Nevada, Iowa e New Hampshire. In realtà certi sondaggi recenti, in cui Hillary Clinton è molto forte, sembrano aver aperto spiragli anche in zone tradizionalmente off limits per i Democratici, come Georgia, Arizona e persino Utah – lo stato mormone per eccellenza, in cui Mitt Romney (mormone) nel 2012 strapazzò Obama 73% a 25%.

Anche senza questi tre stati, comunque, il totale dei grandi elettori in gioco è 111, e l’impressione condivisa è che la partita per la Casa Bianca fra Hillary Clinton e Donald Trump si giocherà qui.

Bonus

Se volete giocare con la mappa elettorale e vedere come può cambiare il risultato a seconda di chi vince in uno o nell’altro stato, andate su www.270towin.com: ci sono mappe fatte apposta per voi.

Lorenzo Pregliasco

Nato nel 1987 a Torino. Si è laureato con una tesi su Obama, è stato tra i fondatori di Termometro Politico, collabora con «l'Espresso» e ha scritto su «Politico», «Aspenia», «La Stampa».
È regolarmente ospite di Sky TG24, Rai News, La7 e interviene frequentemente su media internazionali come Reuters, BBC, Financial Times, Wall Street Journal, Euronews, Bloomberg.
Insegna all'Università di Bologna, alla 24Ore Business School e alla Scuola Holden.
Ha scritto Il crollo. Dizionario semiserio delle 101 parole che hanno fatto e disfatto la Seconda Repubblica (Editori Riuniti, 2013), Una nuova Italia. Dalla comunicazione ai risultati, un'analisi delle elezioni del 4 marzo (Castelvecchi, 2018) e Fenomeno Salvini. Chi è, come comunica, perché lo votano (Castelvecchi, 2019).
È direttore di YouTrend.

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