Cesare Beccaria non avrebbe mai immaginato che solo oggi, due secoli e mezzo dopo il suo “Dei delitti e delle pene”, il Parlamento italiano non sarebbe stato ancora in grado di raggiungere un accordo e colmare la lacuna normativa dell’ordinamento penale in cui non è punito il reato di tortura.
Nonostante l’Italia sia firmataria della Convenzione contro trattamenti e pene crudeli, inumani o degradanti, adottata dalle Nazioni Unite nel 1984 e che prevede che gli Stati aderenti inseriscano nei loro ordinamenti il reato di tortura, l’Italia è a tutt’oggi inadempiente. E ciò nonostante siano passati quasi trent’anni dalla firma della Convenzione, nonostante la presentazione nei due rami del Parlamento di numerosi progetti di legge, nelle diverse legislature, e nonostante il pubblico dibattito dimostri un ampio consenso all’integrazione di tale reato del nostro ordinamento.
Era il 1987, quando l’Europa invitò gli Stati membri a ratificare la Convenzione contro la tortura e già il 7 marzo 1988 l’Ansa segnalava che il governo maltese aveva provveduto a ratificare la Convenzione europea e spiegava che “il governo italiano l’ha firmata ma non ha ancora proceduto alla sua ratifica”. Quattro anni dopo, la stessa agenzia titolava “Onu: Italia assolta con riserva” e raccontava lo stupore del giurista svizzero Jospeh Voyame, presidente del comitato internazionale: “Siamo stati molto sorpresi nell’apprendere che lo Stato italiano non è responsabile degli atti illegali eventualmente compiuti dai suoi agenti”. Altri sette anni e nel 1999 ecco un altro flash: “Diritti umani: Italia sotto esame al comitato contro la tortura”. La cronaca: “I giuristi del Comitato da anni premono perché nei codici penali italiani sia inserito il reato di tortura”. Ancora, il 6 febbraio 2009 il Consiglio italiano per i rifugiati registrava amaro: “Il Senato, durante le votazioni riguardanti il cd “Pacchetto sicurezza 2” ha respinto per appena 6 voti l’emendamento per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale…”. E tutto ciò nonostante l’Italia sia un Paese che si è speso per l’istituzione della Corte penale internazionale e non a caso ha espresso anche il suo primo presidente, Antonio Cassese. Per questo, lo scorso mercoledì, si sarebbe dovuto completare l’adeguamento del nostro ordinamento e delle nostre leggi a fattispecie di reati che purtroppo aumentano continuamente.
Il reato di tortura, la cui mancanza costituisce un vero e proprio spread di civiltà (giuridica) che ci zavorra dall’entrata in vigore della Convenzione Onu, è stato a un soffio dall’approvazione già nel 2007, quando fu travolto dalla crisi del governo Prodi. E nel frattempo, l’Onu – nell’ultimo rapporto sullo stato di attuazione delle raccomandazioni per i diritti umani (elaborato da 86 Ong e associazioni della società civile italiana) – ci ha bacchettato ben bene accusandoci di essere l’unico paese senza il reato di tortura. Inoltre, per quel che riguarda i diritti umani, l’Italia, secondo l’Unione Europea è in quella situazione che si riassume con la definizione di “maglia nera”. Secondo il rapporto sull’Esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2011 l’Italia è al 7° posto nella graduatoria dei Paesi dell’UE per violazione dei diritti umani. Prima di noi Turchia, Russia, Polonia, Romania, Ucraina e Bulgaria; e insomma non è cosa di cui menar vanto.
Ora siamo nuovamente a quel punto, ma la scorsa settimana è andata perduta, forse irreparabilmente, quella buona chance in più che alcuni contavano di avere. Tutto da rifare: il passo in avanti mosso dalla Commissione Giustizia del Senato per permettere finalmente all’Italia di rispettare le convenzioni internazionali sulla tortura, si è improvvisamente arenato nella seduta pomeridiana dello scorso mercoledì. A un passo dall’approvazione del testo votato due settimane fa dalla Commissione Giustizia all’unanimità, l‘Aula di Palazzo Madama, dopo quasi due giorni di discussione, ha deciso su proposta di PdL, Lega e Udc di rinviare in Commissione per «ulteriori approfondimenti» il testo di legge che introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento penale. In serata, l’assemblea ha votato il rinvio.
La querelle tra i partiti si è concentrata essenzialmente sulla definizione del reato stesso di tortura e sul concetto di sofferenza violenza psichica per tortura. Lega, Pdl e Udc, infatti, si sono detti timorosi che l’introduzione del reato, così come previsto e formulato nella Convenzione Onu ratificata dall’Italia nel 1988, possa limitare l’azione delle forze dell’ordine. Particolare preoccupazione ha destato l’articolo 1 che parla di “reiterate lesioni o sofferenze fisiche o psichiche ad una persona”, queste ultime, secondo il centrodestra, da eliminare. Il PdL sostiene che la volontà politica è chiara da parte di tutti e non va fatta dietrologia, e così ha sollevato le sue perplessità insieme alla Lega.
Contrari al rinvio in Commissione l’IdV e il PD. Il Sen. Casson (PD), relatore insieme al Sen. Balboni (PdL), ha dichiarato: “È un vergognoso gioco a rimpiattino. In Commissione il testo è stato approvato all’unanimità, abbiamo proposto almeno dieci soluzioni possibili ma evidentemente qualsiasi soluzione al centrodestra non va bene. C’è chi vuole che la tortura in Italia non sia un reato”. Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato, ha poi aggiunto “La scelta, votata a maggioranza dall’aula del Senato, è grave e sbagliata e per questo il gruppo del Partito Democratico ha votato no. Sono 24 anni che il Parlamento tenta di introdurre nel codice penale il reato di tortura. […] Coloro i quali dissentono da quel testo hanno avuto modo di presentare emendamenti e di confrontarsi in aula, nell’intera seduta di oggi (mercoledì 26 settembre, ndr). […] Un rinvio in Commissione non serve assolutamente a niente”. “La verità – ha aggiunto la Finocchiaro – è che il centrodestra vuole impantanare questa legge, che ci viene sollecitata da tempo dalle Convenzioni e dagli organismi sovranazionali”.
È quindi saltato l’accordo tra le forze politiche: in particolare, in Aula si è dissolto il consenso unanime nella definizione della nuova fattispecie che – si era stabilito in Commissione – non poteva prescindere dallo stato di soggezione della vittima rispetto all’agente, ritenendo però che ciò non dovesse realizzarsi necessariamente attraverso la costruzione della tortura come reato proprio del pubblico ufficiale. Nonostante vi fosse la consapevolezza che a livello internazionale questa soluzione è di gran lunga prevalente, la scelta politica aveva definito il reato di tortura come reato comune, anziché come “reato specifico”, commesso cioè unicamente da un pubblico ufficiale. Il più importante punto di equilibrio politico, raggiunto e approvato all’unanimità in Commissione, si è poi sgretolato nei fatti dell’Aula. In particolare, il testo elaborato in Commissione aveva previsto che il reato di tortura fosse punito con la reclusione da tre a dieci anni nel caso in cui “chiunque indebitamente e intenzionalmente causi acute sofferenze fisiche o psichiche”; Se chi tortura è un pubblico ufficiale, la pena detentiva sarebbe salita, da quattro a dodici anni.
La brutta storia della legge sulla tortura in Italia quindi continua. Una storia che ha gettato sale sulle ferite di uomini come Luciano Rapotez, nel lontano 1955, o come i ragazzi vittime delle violenze nella caserma di Bolzaneto e nell’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, ragazzi che secondo i giudici furono trattati in modo «inumano e degradante ma, non esistendo una norma penale, l’accusa è stata costretta a contestare agli imputati l’abuso d’ufficio». Per non dire di altri casi come quello di Federico Aldrovandi alla cui madre nei giorni scorsi il capo della polizia Antonio Manganelli ha inviato quella lettera così importante: “È giunto il momento di farvi avere le nostre scuse”. I giudizi appena citati hanno evidenziato la propria impotenza a condannare i responsabili a una pena adeguata; spesso hanno dovuto dichiarare che tutto era stato cancellato dal tempo ormai scaduto: reato prescritto. È facile quindi intuire la portata della modifica dell’ordinamento penale non approvata lo scorso mercoledì 26 settembre, giorno in cui coincidenza vuole sia ricorso il settimo anniversario della morte di Federico Aldrovandi: il reato di tortura, se introdotto, avrebbe probabilmente cambiato volto a processi come quelli per le violenze nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz, ma anche per la morte di Aldrovandi o Stefano Cucchi.
La violenza di un pubblico ufficiale nei confronti di un cittadino non è una violenza privata: riguarda tutti noi, poiché è messa in atto da colui che dovrebbe invece tutelarci, da liberi e da detenuti. Per questo, ancora e soprattutto a seguito di sentenze – a Genova e ad Asti per citare le recenti – che hanno certificato l’impossibilità di perseguire adeguatamente comportamenti d’intenzionale e grave maltrattamento di persone private della libertà da parte di chi le aveva in custodia, era necessario impegnarsi affinché fossero approvate precise norme di disciplina del modus agendi delle forze dell’ordine – e non solo – e affinché fosse sancita una responsabilità diretta nell’eventualità di violazione delle stesse. Come ha scritto su La Stampa Vladimiro Zagrebelsky, a lungo giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo “se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo”. C’è invece chi dirà che “in fondo cosa sarà mai, tanto non c’è più la ferocia di una volta”. Quella che ne Le rane Aristofane elenca con amaro sarcasmo: «Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l’aceto nel naso…». Quella esercitata contro i due poveretti giustiziati come «untori» durante la peste del 1630 la cui sorte è ricordata in Storia della colonna infame da Alessandro Manzoni. È vero, fino a quegli abissi di malvagità non si spinge più nessuno, ma vivere in un Paese in cui non è previsto il reato di tortura è diventato, 234 anni dopo la pubblicazione delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, insopportabile.
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