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Tra riforma elettorale e istituzionale

Tra riforma elettorale e istituzionale

Quando si parla di “forma di governo” s’intende generalmente un concetto giuridico (frutto dell’elaborazione dottrinale) che indica i rapporti intercorrenti tra gli organi principali di uno Stato: rapporti che possono assumere “forme” diverse, a seconda della diversa distribuzione e organizzazione dei poteri tra i vari organi e della loro capacità di incidere sulla determinazione dell’indirizzo politico, rispecchiando conseguentemente il modo di intendere i rapporti tra governanti e governati. In questo senso, oltre alla disciplina dei rapporti tra organi, è importante il modo di formazione degli organi stessi, elettivo o non elettivo, e quindi anche la legislazione elettorale.

Anche da questi brevissimi cenni di diritto costituzionale si comprende come, al fine di un nuovo disegno della forma di governo coerente e funzionale ai problemi dell’attuale democrazia parlamentare italiana, qualsivoglia prospettiva di riforma istituzionale debba procedere di pari passo con la riforma elettorale e la riforma dei meccanismi di democrazia interna ai partiti. Dalla crisi di regime (nota come la transizione dalla Prima alla Seconda repubblica) sono ormai passati vent’anni, eppure si discute sempre degli stessi problemi: il sistema maggioritario Mattarella per l’elezione di Camera e Senato non produsse i risultati sperati e la spinta verso il passaggio ad una democrazia decidente è stato frenato dalle diverse posizioni dell’una o l’altra forza politica. E quindi non si è mai chiuso il dibattito aperto già nel 1946 dalla relazione di Costantino Mortati sul modello di democrazia: si tratta di due modelli assolutamente nobili, legittimi e diversi, sui quali s’instaura un’opzione di tipo politico e non teologico. Un modello è quello della democrazia fortemente intermediata dal ceto politico, siano essi i partiti o i movimenti; l’altro modello è quello nel quale il momento elettorale diventa decisivo e lo rimane per tutta la legislatura, nel senso che le forze politiche sentono la responsabilità della coerenza politica rispetto al mandato che hanno ricevuto.

Ora, pare esserci una volontà politica favorevole a questo secondo modello e, tra i meccanismi giuridici che possono “aiutarlo”, ci sono tutti quei meccanismi che in qualche modo rendono alternative le scelte (compreso quindi il sistema elettorale di tipo maggioritario). Il sistema elettorale da solo, però, non basta, proprio perché, come testimoniano gli anni del Mattarellum, il problema del bipolarismo italiano non riuscito sta nel mancato seguito istituzionale del sistema maggioritario, per cui tutto fuorché il sistema elettorale ha continuato a funzionare secondo uno schema di tipo consociativo proporzionalistico. Forse queste considerazioni (oltre a quelle provenienti dall’opinione pubblica che, sentendo forte la necessità di abbattimento dei costi della politica, innzanzitutto vorrebbe vedere ridotto il numero dei parlamentari) hanno spinto nel senso di una modifica della forma di governo che possa far sì che un sistema elettorale di tipo competitivo non duri l’espace d’un matin, cioè il singolo momento elettorale.

Dunque è giunto il momento della verità per le riforme: è stato fissato per lunedì 11 giugno alle ore 20 il termine per la presentazione degli emendamenti al ddl di riforme costituzionali che giovedì 7 giugno sarà incardinato per l’esame dell’Aula del Senato. Il ddl contiene scelte istituzionali su cui si era raggiunta l’unità bipartisan tra PD, PDL e Terzo Polo: riduzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, più poteri per il premier, possibilità della sfiducia costruttiva nei confronti del Governo. Nonostante ciò, i riflettori sono oggi puntati sulla proposta di semipresidenzialismo sul modello della Quinta repubblica francese avanzata da Berlusconi e Alfano, ed esaminata nella riunione plenaria dei gruppi PDL di Camera e Senato venerdì scorso. Nell’imminenza della fine dei lavori presso la I Commissione Affari costituzionali del Senato, l’ex Presidente del Consiglio ha così rotto quella “serenità” acquisita in Commissione e, anziché presentare la proposta ai membri di quella sede, che da tempo erano a lavoro sul ddl di riforma, ha annunciato di presentare un emendamento direttamente in Aula.

Qualora il PDL ufficializzi la sua proposta in un emendamento, oltre a precisare i poteri che dovrà avere un Presidente della Repubblica eletto non più dal Parlamento bensì direttamente dai cittadini, dovrà avanzare pure una proposta di riforma della legge elettorale che preveda un doppio turno di collegio, ipotesi che tradizionalmente non dispiace al PD. Così Franceschini, capogruppo democratico alla Camera, cercando una prima mediazione, ha proposto nei giorni scorsi che s’inizi a discutere della legge elettorale a doppio turno per poi giungere al modello semipresidenziale, ma il PDL ha risposto negativamente riproponendo l’insieme della propria ipotesi di riforma costituzionale. Si pone quindi il problema dell’incardinamento reciproco tra riforma elettorale e costituzionale, già dominus dei lavori parlamentari in questi ultimi tempi: cosa si deve riformare prima e cosa dopo? Tra scelte di opportunità politica e ragioni di carattere tecnico-costituzionale, certo è che modificare giorno per giorno l’ordine dei lavori sembra rispondere alle contingenze della politica – vedi le elezioni amministrative – piuttosto che a una specifica visione complessiva e d’insieme delle riforme, la qual cosa sarebbe auspicabile nel momento in cui ci si accinge a riforme istituzionali dibattute e attese da vent’anni, ma mai concretizzate.

Carlo Vizzini (PDL), presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, ha più volte dichiarato di non essere disponibile a fare il relatore di una proposta di riforma costituzionale che non abbia il sostegno delle forze di maggioranza e potrebbe perciò proporre, in qualità di relatore, che il confronto in Aula inizi sui punti sui quali l’attuale maggioranza mantiene una identità di vedute, per poi arrivare a quelli su cui le posizioni sono distanti. Ma la preoccupazione per cui il disaccordo sul semipresidenzialismo potrebbe far saltare tutto il pacchetto di riforme è forte. In particolare, il timore è che a saltare per prima sia la riforma elettorale, forse l’unica vera e improrogabile esigenza per un’opinione pubblica stanca di essere governata da un gruppo di nominati e impaziente di tornare a scegliere i propri rappresentanti. Sembra improbabile l’ipotesi di uno scambio tra legge elettorale ed elezione diretta del Presidente della Repubblica – ciò costituirebbe un deprecabile gioco di una politica solo attenta all’estemporaneità delle vicende partitiche e incapace di una visione di lungo periodo per la democrazia italiana – ma nel caso in cui la proposta semipresidenzialista di Berlusconi desse luogo ad un impasse nei lavori del Senato, il dialogo sulle riforme costituzionali potrebbe arrestarsi: il rischio è quello di elezioni politiche nella primavera del 2013 ancora con il Porcellum. Cosa che, a dispetto di qualsivoglia dichiarazione di partito, forse non dispiacerebbe né al PDL né al PD.

 

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