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La riforma del lavoro approda in Aula

Dopo più di 40 giorni di lavori e votazioni, il ddl di riforma del mercato del lavoro della Ministra Fornero esce emendato dalla Commissione Lavoro del Senato e approda in Aula. Si attende la scadenza di lunedì alle 17 per gli emendamenti e, in quella sede, anche a seconda della mole di proposte di modifica che saranno presentate, l’esecutivo capirà quale siano i complessi umori delle diverse parti politiche che compongono la maggioranza e deciderà di conseguenza se porre o meno la fiducia sul testo.

 

Tra le novità introdotte dalla Commissione Lavoro si segnala anzitutto il ripristino dell’esenzione dal ticket sanitario per i disoccupati a basso reddito, definito un “refuso” da parte della stessa Fornero, poco dopo la presentazione del ddl alla camera parlamentare.

Difficile mediazione politica poi sull’articolo 11 di modifica della disciplina del lavoro accessorio: se la versione originaria del testo era finalizzata a restringere il campo di operatività dell’istituto, escludendo le prestazioni nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti, ma ammettendole per le sole attività agricole di carattere stagionale, un emendamento dei relatori ha cambiato impostazione prevedendo che, fermo restando il limite complessivo di 5.000 euro nel corso di un anno solare, nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative possano essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro.

Ciò che ha determinato però un vero e proprio impasse nei lavori della Commissione, a causa del braccio di ferro tra imprese e sindacati, è stato l’emendamento dei relatori secondo cui, nel settore agricolo, il ricorso alle attività lavorative occasionali è ammesso esclusivamente nei confronti dei produttori agricoli che realizzato un fatturato annuo non superiore a 7.000 euro: al di sotto di questa cifra, il ricorso ai voucher da parte delle aziende sarà libero, mentre sopra sarà limitato a pensionati e under 25. Ancora, al fine di limitare il fenomeno della precarietà e l’uso distorto ed elusivo dei voucher, si stabilisce che questi debbano essere “orari, numerati progressivamente e datati” e con un valore orario determinato periodicamente da un futuro decreto, sentite le parti sociali. Infine, resta confermato che i compensi percepiti dal lavoratore extra-comunitario possono essere computati ai fini del raggiungimento della soglia minima di reddito per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.

La Commissione ha poi mantenuto la soppressione dell’obbligo di indicare la causale nel primo contratto a tempo determinato e ha previsto pure ulteriori eccezioni nei casi in cui l’assunzione a tempo determinato avvenga “nell’ambito di un processo organizzativo determinato: dall’avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo”. A riguardo, consentire il ricorso al contratto a tempo determinato non esclusivamente in ipotesi eccezionali o temporanee, legate a esigenze oggettive e riscontrabili, potrebbe contraddire quanto espressamente perseguito dalla direttiva comunitaria cui la disciplina dava originariamente applicazione.

Impegnativi i lavori anche sull’articolo 5 in materia di apprendistato, molto valorizzato dalla riforma, che lo definisce quale modo principale d’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani e stabilisce a tal fine un rapporto tra apprendisti e dipendenti pari ad un massimo di 3 a 2. La versione del testo giunta all’Aula prevede inoltre che l’azienda che fa uso di apprendisti deve rispettare il vincolo di stabilizzazione minima, pari al 30% nei primi 3 anni e al 50% a regime: se non rispetta tale vincolo, l’azienda dopo 36 mesi potrà assumere un solo altro apprendista.  

In materia di pari opportunità, si è fatto molto poco: se già il testo originario lasciava a desiderare quanto a contrasto del fenomeno delle dimissioni in bianco, tutela della genitorialità e voucher, poco è cambiato dopo la mediazione partitica in Commissione. Anziché essere una priorità come concreto investimento nella crescita del Paese, le misure a favore della parità di genere nel mercato del lavoro sono state relegate agli articoli 55 e 56 e le migliori proposte sono state recepite solo attraverso l’approvazione di alcuni ordini del giorno.

Sul tema genitorialità, il testo originario prevedeva l’obbligo, per il padre lavoratore dipendente, entro cinque mesi dalla nascita del figlio, di astenersi dal lavoro per un periodo di tre giorni, anche continuativi, dei quali due giorni in sostituzione della madre ed il restante giorno in aggiunta all’obbligo di astensione della madre: un emendamento del Governo ha poi previsto che l’obbligo di astenersi dal lavoro rimanga per un giorno, mentre per i restanti due giorni l’obbligo sia sostituito dalla possibilità di astenersi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. È qualcosa, ma certamente troppo poco se si pensa che il congedo di paternità è presente in quasi tutti gli Stati europei per periodi di diversa durata: le “quote azzurre”, sia nel congedo obbligatorio che in quello facoltativo, devono essere una misura che può contribuire a cambiare l’esperienza dei padri e favorire la condivisione della cura dei figli.

Con emendamento dei relatori è stato poi soppresso il rinvio a un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali al fine di individuare le modalità per effettuare la convalida alla quale è sospensivamente condizionata l’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore. A riguardo, sebbene sia stata recepita una proposta del PD finalizzata a consentire la facoltà di revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale, non è stata accolta nessuna delle tante proposte volte a prevedere robuste garanzie circa la possibilità di verificare attraverso precisi requisiti la veridicità della dichiarazione di dimissioni.

La Commissione ha anche approvato un emendamento della Lega: in caso di sentenza di condanna per i reati di associazione con finalità di terrorismo, attentato per finalità terroristiche o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso e strage, il giudice dispone la sanzione accessoria della revoca dell’indennità di disoccupazione, dell’assegno sociale, della pensione sociale e della pensione per gli invalidi civili e dei trattamenti previdenziali, qualora questi derivino “da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite” connesse ai suddetti reati. Le risorse derivanti dai provvedimenti di revoca sono assegnate al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso e agli interventi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

Per il resto, le votazioni della Commissione hanno confermato tutti gli emendamenti di Governo e relatori. Per quanto concerne il contratto di associazione in partecipazione, su proposta dei relatori, si è prevista, in aggiunta agli indicatori di subordinazione già previsti per questi lavoratori dal testo originario (la mancata consegna del rendiconto e l’assenza di effettiva partecipazione agli utili), l’applicazione agli associati in partecipazione dei medesimi indicatori di “falsa autonomia” introdotti per i titolari di partita IVA (vedi più avanti).

In materia di tirocini formativi e di orientamento, in linea con quanto stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2005  – che ha affermato la competenza legislativa delle regioni in materia di tirocini – una modifica introdotta dal Governo ha stabilito che in sede di Conferenza Stato-Regioni si concluda un accordo per la definizione di linee-guida condivise. Fra i criteri individuati ai fini dell’accordo, si segnala “il riconoscimento di una congrua indennità, anche in forma forfettaria, in relazione alla prestazione svolta”: prevedendo, in caso di mancata corresponsione dell’indennità, l’irrogazione di una sanzione amministrativa a carico del trasgressore il cui ammontare è proporzionato alla gravità dell’illecito commesso – in misura variabile da un minimo di 1.000 a un massimo di 6.000 euro – la norma introdotta si pone in termini risolutivi, seppur non definitivi, contro gli abusi dell’istituto oggi esistenti.

Quanto al lavoro a progetto, ha trovato recepimento, da parte dei relatori, la proposta del PD di introdurre una sorta di “compenso minimo” per i collaboratori: si prevede, infatti, che il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto non possa essere inferiore ai minimi stabiliti specificamente per essi dalla disciplina collettiva per ciascun settore di attività, assumendo a riferimento i minimi salariali applicati nello stesso settore per le mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati. In assenza di contrattazione collettiva specifica, sono assunte a riferimento le retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di settore per figure professionali di competenza ed esperienza analoghe a quelle del collaboratore.

Per quanto concerne le partite IVA, le modifiche introdotte dai relatori all’articolo 9 riguardano gli indicatori di “falsa autonomia”. La versione originale del testo prevedeva che le prestazioni lavorative rese da persona titolare di partita IVA si presumessero false alla ricorrenza di almeno due delle seguenti tre condizioni: quando la collaborazione con lo stesso committente (o più soggetti se riconducibili alla medesima attività imprenditoriale) duri più di sei mesi nell’arco di un anno; quando i ricavi del collaboratore con il medesimo committente ammontino a più del 75% del proprio fatturato; quando il collaboratore utilizzi una postazione di lavoro presso il committente. Con l’emendamento dei relatori la durata della collaborazione con lo stesso committente è elevata a otto mesi nell’arco di un anno; l’ammontare dei ricavi del collaboratore con il medesimo committente è elevato a più dell’80% del proprio fatturato; è poi specificato che la postazione che il collaboratore utilizza presso il committente deve essere fissa. Inoltre, la presunzione di abuso non sussiste – cioè tocca al lavoratore dimostrarne l’esistenza – quando la prestazione “sia connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività”. Dunque, se l’intenzione originaria era porre un freno al vergognoso fenomeno delle cc.dd. finte partite IVA e in generale alla diffusione del precariato, il senso di queste innovazioni al testo originario non appare molto chiaro.

Altro tema scottante: il sistema degli ammortizzatori sociali. Questo è il punto di maggiore distanza tra le regole e le pratiche italiane rispetto al modello europeo verso il quale la riforma tende. Tra le modifiche introdotte in materia, si segnala l’emendamento dei relatori che prevede che il lavoratore avente diritto alla corresponsione dell’ASpI possa richiedere la liquidazione degli importi del relativo trattamento pari al numero di mensilità non ancora percepite, al fine di intraprendere un’attività di lavoro autonomo, per avviare un’attività in forma di auto impresa o di micro impresa, o per associarsi in cooperativa. Inoltre, quanto alla “consistenza” del nuovo ammortizzatore sociale, sebbene si sia sostenuto che con la riforma degli ammortizzatori aumenterà la platea dei beneficiari, anche dopo gli interventi operati in Commissione, non è ancora chiaro come questo avvenga e soprattutto con quali risorse. In particolare, la cosiddetta “mini-ASpI” continua a essere l’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti oggi vigente: era stato annunciato che sarebbe stata estesa a tutti i lavoratori a progetto, ma a quest’ annuncio, per limiti di natura finanziaria, è stato dato un seguito solo parziale. Infatti, a fronte della richiesta del PD di estendere la platea di beneficiari e di limitare temporalmente l’operatività dell’indennità una tantum per i collaboratori a progetto – in vista della sua sostituzione con un vero e proprio trattamento di disoccupazione (la mini-ASpI) – i relatori hanno introdotto per il 2013-2015 un regime transitorio più favorevole. Nell’ambito di questo triennio, il numero minimo di mensilità accreditate utili per l’accesso all’indennità è ridotto da 4 a 3 mesi e l’indennità è determinata in una somma del 7% del minimale annuo (invece del 5% previsto). Si è poi previsto che al termine del periodo transitorio, in sede di monitoraggio sullo stato di attuazione della riforma, si verifichi la rispondenza dell’indennità una tantum alle sue finalità di tutela, anche al fine di valutare la sua eventuale sostituzione con il trattamento breve di disoccupazione (mini-ASpI).

Tema nuovo, introdotto su proposta dei relatori durante i lavori in Commissione, concerne l’inserimento nel provvedimento di una delega al Governo in materia d’informazione e consultazione dei lavoratori e di definizione di misure per la democrazia economica. Tra i principi e criteri direttivi si segnalano: l’individuazione degli obblighi d’informazione; il controllo sull’andamento e la gestione aziendale; la previsione della partecipazione dei dipendenti agli utili o al capitale dell’impresa; la previsione che i lavoratori siano rappresentati nel Consiglio di sorveglianza, nelle imprese che adottano il modello duale di governance e che occupano più di 300 dipendenti; l’accesso privilegiato dei lavoratori al possesso di azioni.

Ulteriore e importante novità, proposta dal PD, riguarda l’introduzione ex novo di un articolo che modifica la disciplina del Fondo di solidarietà a garanzia dei mutui per l’acquisto della prima casa, introdotto dalla Finanziaria 2008 (legge n. 244 del 2007). Ad oggi, l’operatività del Fondo di solidarietà risulta piuttosto limitata: nel corso dell’ultimo anno circa il 50% delle richieste di accesso sono state respinte per vizi formali. La nuova disciplina si pone dunque l’obiettivo di incrementare l’efficienza del Fondo e al contempo rafforzare il sostegno ai mutuatari in difficoltà attraverso una più dettagliata definizione degli eventi che possono determinare la richiesta di sospensione, che tenga anche conto dell’attuale situazione di crisi del mercato del lavoro.  In particolare, si estende l’ambito d’intervento del Fondo, prevedendo l’obbligo per le banche di sospendere l’ammortamento dei mutui nei casi in cui il mutuatario debba far fronte alla perdita o cessazione del posto di lavoro qualunque sia la tipologia di contratto utilizzata, secondo una formulazione che estende la tutela a tutti i lavoratori atipici e precari, nonché ai lavoratori cessati per effetto di accordi per l’accompagnamento alla pensione stipulati tra datori di lavoro e rappresentanze sindacali (i cosiddetti esodati); ovvero in caso di morte o insorgenza di gravi infortuni.

Questa appare l’unica disposizione assunta nell’ambito della riforma con riguardo alla questione degli esodati. In generale, infatti, sebbene sia in dirittura d’arrivo il decreto interministeriale (alla firma di Monti) – che coprirà solo 65 mila lavoratori, per una spesa di 5 miliardi e 70 milioni dal 2013 al 2019, ovvero le risorse già previste dal decreto Salva Italia – nella riforma del lavoro c’è un buco sul punto. Il confine tracciato tra chi si salva e chi no rimane quello dalla ghigliottina del 4 dicembre scorso: in sostanza, son salvi i lavoratori che a quella data sono entrati in mobilità, a seguito di un accordo per ‘uscita anticipata dal lavoro; per tutti gli altri, al momento, non c’è soluzione.

Infine, alla presentazione in aula del ddl di riforma del lavoro e alla vigilia della presentazione del ddl di riforma del pubblico impiego, ecco che si riapre una partita mai chiusa: i licenziamenti nel pubblico impiego. Si registrano frizioni tra i ministri Fornero e Patroni Griffi. La polemica si concentra sull’applicazione ai lavoratori pubblici del nuovo articolo 18, difeso in Aula dai relatori come buon compromesso sulla flessibilità in uscita nel senso indicato dall’Europa. I licenziamenti discriminatori non creano problemi in quanto la disciplina è analoga a quella del settore privato. I licenziamenti per motivi economici rispondono alle regole già in vigore sulla mobilità obbligatoria per 2 anni del dipendente statale in caso di esuberi, all’80% dello stipendio, con l’eventuale perdita del posto se non si trova una ricollocazione. Il problema rimane aperto quanto ai licenziamenti disciplinari in quanto sul punto, la delega al Governo appare piuttosto vaga, trattando di “riordino della disciplina con la tipizzazione delle ipotesi legali e delle relative tutele”. Questa formulazione potrebbe nascondere un affievolimento del protocollo firmato da tutti i sindacati, gli enti locali e il governo, laddove si prevede di “rafforzare i doveri disciplinari dei dipendenti” a fronte di “garanzie di stabilità”. In tal senso, se il licenziamento disciplinare è illegittimo, il dipendente pubblico deve essere reintegrato e mai indennizzato, a differenza del privato. Si noti poi che il ddl di fatto modifica la riforma Brunetta, tornando a un sistema di valutazione affidato al dirigente che sceglie chi premiare, anche in base alla performance del suo ufficio e non solo del singolo.

 

 

Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.

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