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Cooperazione e Sviluppo – L’Italia deve decidere

Cooperazione e Sviluppo – L’Italia deve decidere

 

Secondo Action-Aid, tra il 2008 e il 2011, l’attività di cooperazione e sviluppo italiana è stata tagliata del 78%. Parte di questa diminuzione si spiega con la fine delle operazioni in Iraq, per diversi anni il primo destinatario di aiuti italiani. Un’altra parte è dovuta al periodo di crisi che fa sì che gli aiuti per i paesi in via di sviluppo perdano priorità nell’agenda politica. Col consolidamento fiscale, la cooperazione e lo sviluppo sono tra le prime spese correnti a diminuire.

Ma l’Italia è da sempre considerata la pecora nera tra i paesi donatori. Diamo dunque un’occhiata a come si è evoluta la cooperazione italiana negli ultimi dieci anni e come potrebbe evolversi in futuro.

L’Italia è da oltre venti anni tra i primi 10 donatori internazionali in termini di volumi, ma tra i meno caritatevoli in termini di percentuale di PIL devoluta sia nei confronti dei singoli paesi sia nei confronti delle agenzie. Eppure, non siamo certo l’unico paese sviluppato a cadere sotto lo 0,7% del PIL in aiuti, la soglia minima chiesta dall’ONU. Ma come mostra il grafico, siamo ben al di sotto alla media, un divario che si accentua col tempo e con la crescente generosità di altri paesi ricchi. Vedremo inoltre come insieme ad un problema di quantità, manchiamo anche di qualità.

Dove vanno i nostri aiuti bilaterali? Guardiamo i dati del 2009, gli unici disponibili dal disimpegno Iracheno:

Il 45% degli aiuti allo sviluppo dell’Italia vanno all’Africa Sub-Sahariana. In particolare, nel 2010 la Repubblica del Congo, paese devastato da guerre civili e un culto dittatoriale trentennale, riceveva 56 milioni di Euro in aiuti. La Liberia, anch’essa da poco uscita da un conflitto intestino, riceveva 30 milioni. Siamo inoltre attivissimi in Afghanistan (45 milioni di Euro) e in Albania (40 milioni di Euro), importanti per l’impegno militare il primo e per la vicinanza e determinante per l’immigrazione il secondo. Siamo poco attivi nell’Asia meridionale, in particolare in India, dove si trova oltre la metà della popolazione mondiale che vive sotto al dollaro al giorno.

Uno sguardo alla distribuzione settoriale mostra che non siamo particolarmente specializzati. Privilegiamo gli aiuti alla produzione perché ne traiamo un ritorno economico: infatti spesso, come fanno tanti altri paesi donatori, imponiamo che vengano usati prodotti e risorse italiane; ne approfittiamo quindi per creare legami commerciali. Similmente, l’aiuto alla sanità e infrastrutture è un’occasione per assegnare appalti ad aziende italiane. La cancellazione del debito, considerata invece di più alto ritorno sociale per i paesi in via di sviluppo è anch’essa una parte importante della nostra spesa, ma è quella che viene sempre più tagliata. Soprattutto, è molto minore rispetto a quanto venga usata da donatori più generosi di noi.

Riassumendo, devolviamo pochi e sempre meno aiuti bilaterali allo sviluppo. Quando lo facciamo, sembra che ci sia spesso una motivazione strategica. Siamo anche malvisti nel campo multilaterale. Rispetto al nostro PIL contribuiamo molto poco ai budget delle grosse agenzie ONU e di conseguenza abbiamo scarsa influenza al loro interno.

Di fronte alla necessità di bilanciare i conti dello Stato, è importante valutare quanto valga la pena insistere con l’attività di cooperazione e sviluppo. Sono tre i criteri valutativi a nostro parere: ritorno socio-economico nei paesi destinatari, ritorno strategico-economico per l’Italia, volontà dell’elettorato italiano.

Purtroppo vi è una sorprendente mancanza di informazioni riguardo questi tre elementi. La Direzione Generale Cooperazione e Sviluppo (DGcs), organizzazione all’interno della Farnesina, non valuta l’impatto socio-economico dei suoi progetti con le metodologie rigorose sempre più usate dalle agenzie di sviluppo USA, del Regno Unito, Tedesca e dei Paesi Scandinavi, leader nel campo. Per esempio Dfid, l’agenzia inglese, gode di un budget crescente e di uno status di agenzia indipendente che le risparmia almeno in parte la sudditanza agli esteri che c’è in Italia e altri paesi. Da un anno a questa parte per regolamento non finanziano progetti senza che vengano precedentemente stabiliti metodi valutativi rigorosi.

Anche riguardo la questione del ritorno strategico-economico per l’Italia abbiamo poche informazioni. Causa di questo è la mancanza di un ecosistema di Onlus e centri studio sofisticati. Possiamo stimare un po’ cinicamente che quando gli aiuti allo sviluppo coinvolgono aziende italiane ci sia un ritorno economico ma molti studi dimostrano che questo tipo di aiuto può essere controproducente per i paesi coinvolti. Piuttosto, aumentare i fondi devoluti alle agenzie multilaterali potrebbe portare un guadagno strategico in termine di influenza geopolitica.

Infine, la minuzia del “settore” Onlus rispetto ad altri paesi europei indica che forse non c’è molto appetito da parte dell’opinione pubblica per le questioni inerenti lo sviluppo. Questo tema non compare quasi mai nella stampa italiana, a differenza che nel Regno Unito dove, ad esempio, occupa una sezione a sé del quotidiano The Guardian. Purtroppo, a differenza di altri paesi ricchi, in Italia non sono mai stati fatti sondaggi a riguardo. Uno studio dell’ Institute for Development Studies evidenzia come nel Regno Unito ci sia ampio supporto per maggiori aiuti allo sviluppo, con un calo dovuto alla crisi e il conseguente austerity (dal 50% del Settembre 2007 al 35% del Febbraio 2010). Probabile che ci sia stato un calo di sostegno di simili proporzioni anche in Italia.

Il fatto stesso che ci siano così pochi dati su questi tre elementi evidenzia lo scarso interesse dell’opinione pubblica e le mancanze della DGcs. L’ultimo rapporto OCSE (2009) evidenzia una cultura dello spreco e come manchi una politica di sviluppo coerente. In assenza di altri studi a riguardo possiamo limitarci a riportare le voci di corridoio della Farnesina che dipingono la DGcs come un dipartimento ostaggio degli Esteri, sotto-finanziato, logoro, con carenze di staff specializzato.

Il rapporto OCSE riporta anche come il budget di sviluppo italiano soffra di troppa dispersione. Le forze armate, altre Direzioni del Ministero degli Esteri controllano (spesso malamente) parti consistenti dei nostri aiuti. Mentre il 59% dei nostri aiuti va direttamente ad adempire le quote minime per le agenzie ONU e della UE.

La scelta politica a riguardo del futuro della Cooperazione e Sviluppo in Italia ci sembra dualistica. Un’opzione è accettare la futilità dei nostri sforzi e continuare a disimpegnarci dalle attività bilaterali, sperando di guadagnarci qualcosa in termini di bilancio. L’altra opzione è di rinnovare la DGcs o addirittura centralizzare il budget di sviluppo sotto una nuova unità. È un dibattito che però non si può tenere finché mancheranno dati sull’opinione pubblica e sull’efficacia del nostro lavoro.

 

Lorenzo Newman

Patito di policy. Consultente gestionale. Nasce a Roma nel 1988. Laurea in Economia e Scienze Politiche al Trinity College di Dublino e Master in Economia dello Sviluppo alla London School of Economics. Ama follemente la Roma.

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