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Il decennio d’oro della Turchia

Ormai è un classico di ogni estate: milioni di turisti che vanno in Turchia a passare le vacanze e tornando raccontano agli amici di quanto li abbia stupiti trovare un Paese così moderno, vivo, anche efficiente, come non ci si aspettava.

La Turchia sembra fatta per distruggere i pregiudizi occidentali dei turisti meno informati: è un Paese con una popolazione profondamente musulmana ma non araba, il turista si troverà a viaggiare su autostrade moderne senza vedere carretti legati ad asinelli, Istanbul ha una varietà di facce da fare invidia a qualunque grande città europea, dalle zone storico-turistiche a quelle tradizionaliste a zone dello shopping, a quelle bohemien con gallerie d’arte e locali gay. 

Probabilmente il turista medio si disorienterebbe maggiormente scoprendo alcune caratteristiche socio-economiche della Turchia.

Si tratta di un Paese che pur nelle vicissitudini passate (tra cui alcuni colpi di stato) ha mantenuto una identità repubblicana ben precisa dal 1923, laica e moderna, che ora viene adattata al reale orientamento della massa della popolazione senza venire snaturata.

Come si sa fu Mustafa Kemal, chiamato poi Ataturk a fondare lo Stato su questa base, introducendo al tempo anche una occidentalizzazione forzata, come una rigida laicità anche discriminante verso i musulmani osservanti e le minoranze religiose, usando strumenti non democratici ma che in qualche modo ricordavano i regimi fascisti o comunque nazionalisti del tempo.

Dopo la sua morte (per cirrosi epatica, non proprio la malattia che insorgerebbe in un buon musulmano!) nel tentativo di sostituire l’identità comune islamica lo Stato tentò di fondarne una nuova basata sul culto dello Stato stesso e del suo fondatore (Ataturk appunto), il cui volto campeggia in ogni ufficio, sulle banconote, sui muri delle città, in molti negozi, in maniera che può anche apparire opprimente. Il nazionalismo ha potentemente plasmato la nazione, e si è posto in diretta contrapposizione alla religione, al contrario che in Europa e in modo analogo ad altri esempi del mondo musulmano, ad esempio l’Iran o lunghe fasi della storia egiziana.

Tuttavia, dopo decenni di alti e bassi in economia e nella salute della democrazia turca, con frequenti scontri tra laicismo e islamismo e colpi di stato, è dal 2001 che la Turchia si pone agli occhi del mondo, e ci rimane, per due caratteristiche peculiari molto significative:

1) La grande crescita economica, anche a ritmi cinesi del 10%, che continua tutt’oggi;

2) L’affermazione del governo moderato islamico di Erdogan, che ha sconfitto il laicismo turco e vinto 3 elezioni con percentuali crescenti e dato una stabilità inedita in Turchia.

Abbiamo quindi tutta una serie di novità per l’area mediorientale e il mondo intero: per la prima volta un Paese musulmano di 70 milioni di abitanti che cresce economicamente in modo impetuoso senza petrolio,  proprio quando si dà un governo islamista che arriva al potere democraticamente e mantiene e rafforza la democrazia stessa.

Nel 2002 quindi il partito Ak Parti di Erdogan vince le elezioni, e grazie a un sistema elettorale con uno sbarramento addirittura del 10%, con il 34% guadagna la maggioranza assoluta. In realtà come si vedrà negli anni successivi il bacino di rappresentazione del partito è più ampio, ovvero finalmente quella maggioranza silenziosa di religiosi conservatori ma moderati soprattutto radicati in Anatolia trova una rappresentazione, schiacciata com’era stata fino a quel momento dall’elite nazionalista-laicista erede di Ataturk, appoggiata attivamente dal potente esercito, e forte soprattutto nei quartieri alti di Istanbul e Ankara e nelle zone costiere.

All’AKP pian piano si sono unite le classi dirigenti delle forze moderate di centro alternative al kemalismo e la classe imprenditoriale, stanca del dirigismo di quella strana sinistra nazionalista, legando così sia il consenso popolare a una parte dei “salotti buoni”. E del resto sono proprio gli imprenditori delle “tigri anatoliche” (le città emergenti del cuore del Paese, Kayseri, Konya, Denizli, ecc) a costituire una colonna portante dell’appoggio a Erdogan, che ha saputo intercettare e favorire l’emergere di questa imprenditoria nuova.

L’economia, appunto: il fenomeno più importante degli anni 2000, accanto al mutamento politico-sociologico, è proprio la grande crescita del PIL a partire dal 2002. Questa fu il risultato della decisione di Erdogan di confermare e di implementare in modo strutturale le misure già iniziate a fine 2001, che includevano una politica fiscale rigorosa, per combattere il deficit superiore al 10% e il debito quasi all’80% (tra l’altro peggiorato da alti tassi d’interesse dovuti alla svalutazione e alla sfiducia nella moneta), e l’inflazione stessa che negli anni precedenti era stata in media del 70%. Questo era un obiettivo primario, che fu conseguito: l’abbattimento dell’inflazione al 10%, il rafforzamento della moneta, con una politica monetaria della Banca Centrale che fu più prudente e rigorosa che in passato, cosa che permetterà un crollo del debito/PIL dall’80% al 40% nel decennio; ma nonostante questi fossero già primi passi per incoraggiare gli investimenti, determinanti furono le liberalizzazioni, privatizzazione di molte delle imprese pubbliche e ristrutturazione di altre con i fondi stessi delle privatizzazioni, e resi disponibile anche da una minore spesa nel servizio del debito. Del resto le privatizzazioni stesse contribuirono con la propria rendita a ripagare il debito pubblico.

Il sistema bancario è stato rafforzato e ha potuto attingere meglio al risparmio privato assolvendo alla propria funzione di mediatore con l’impresa.

Fondamentale, favorito dal raggiungimento di un importante surplus primario, dalla bassa inflazione e dal corso della moneta, svalutata tempo prima, fu l’afflusso di FDI (Foreign Direct Investments, investimenti diretti stranieri) aumentati nei primi anni in doppia cifra.

Molto importante è notare come negli anni c’è stato un calo dell’export (in relazione al PIL) del tessile e invece un aumento nei settori automobilistico, meccanico e manifatturiero in generale, a testimonianza che dopo il primo rimbalzo dalla crisi vi è stato un effettivo aumento della produttività.

È interessante notare come con queste riforme il governo islamico moderato abbia rivoltato il modello di consenso e la direzione dell’azione governativa, fino ad allora sempre mirata a compiacere il settore pubblico concentrato nelle grandi città, l’esercito, parte rilevantissima di quest’ultimo, tenendosi buona con le clientele la popolazione della provincia. Dopo il 2002 la Tuchia ha puntato sul settore produttivo privato, su piccoli e grandi imprenditori sparsi per il Paese e non solo a Istanbul, sui lavoratori-consumatori, e usando come collante sociale una piattaforma ideologicamente religiosa moderata, un modello che avvicina la Turchia a quello della politica liberal-conservatrice europea e americana (basti pensare al partito repubblicano americano) molto più che a quella mediorientale.

La stabilità e la crescita economica, unita alla fine della Guerra Fredda ha aperto ampi spazi alla Turchia anche in politica estera, e al contrario che in economia qui il Paese ha come scoperto di essere posto a cavallo tra Occidente e Medio Oriente, scrollandosi di dosso l’artificioso strabismo che il kemalismo aveva imposto per cui guardava solo all’Europa. Ma forte com’è, soprattutto rispetto a vicini deboli e instabili, la Turchia ora può permettersi una politica di influenza e salvaguardia dei propri interessi sui lidi più diversi, con una politica denominata semplicisticamente “neo-ottomana” ma che in realtà è anche legata all’espansione economica e quindi non è in contraddizione con una occidentalizzazione del modello economico: in questa ottica si deve vedere l’influenza nell’Asia centrale turcofona, ma in parte anche l’assistenza e la cooperazione alle regioni africane e asiatiche musulmane più povere. Il nuovo prestigio permette anche di criticare e porsi come ostacolo alle azioni di Israele, vecchio alleato, con cui però non si rompe veramente – ma qui naturalmente giocano un ruolo elementi di politica interna (soddisfare i sentimenti islamici del proprio elettorato).

All’Europa la Turchia guarda per ovvi motivi economici (è il principale sbocco delle esportazioni) ma ora più che essere la Turchia ad avere bisogno della UE è forse l’opposto ed è diventato abbastanza datato il tormentone Turchia sì- Turchia no in Europa.

Riassumendo, tra il 2002 e il 2010:

  • il PIL è cresciuto del 218 %, raggiungendo 736 miliardi di dollari
  • il tasso di crescita media annua del PIL reale è stato pari al 4,8 %
  • il tasso di inflazione è sceso dal 30 % al 6,4 %
  • il debito pubblico è sceso dal 74 % al 42 % del PIL
  • il deficit di bilancio è sceso dal 10 % al 3 % del PIL

Certo ora ci sono segnali chiari di un rallentamento nel prossimo futuro, l’economia turca si è troppo surriscaldata, con un deficit delle partite correnti in aumento costante (nonostante un primo calo vi sia stato a fine 2011) che sfiora il 10% e un debito con l’estero a breve termine che costa il 9,8% del PIL. Le famiglie si sono indebitate maggiormente anche per la politica restrittiva della Banca Centrale, del resto nell’ultimo anno i settori cresciuti di più (oltre il 10%) sono stati le costruzioni e il comparto finanziario, tipici sintomi di bolle destinate a sgonfiarsi, così è previsto un rallentamento verso il 3% di crescita nel 2012 e del 4% nel 2013 con un possibile recessione tecnica tra fine 2011 e inizio 2012 (prevista da GoldmanSachs), anche e soprattutto per la recessione dell’Eurozona. Ma potremmo dire che si tratta di aggiustamenti che dopo 10 anni di boom la Turchia può permettersi e potrebbero anche essere visti come una salutare ristrutturazione del proprio modello di crescita: infatti anche da questi problemi (eccesso di debito privato, bolle finanziarie) si osserva come la Turchia abbia effettuato il passaggio da economia in via di sviluppo ad economia occidentale, con i relativi vantaggi e svantaggi, e non è escluso possa rivelarsi esemplare nel superare i nuovi ostacoli, come lo è stata da Paese emergente dimostrando che un modello liberale, guidato, applicato a un Paese a reddito medio-basso, è quello che funziona meglio.

Gianni Balduzzi

Classe 1979, pavese, consulente e laureato in economia, cattolico-liberale, appassionato di politica ed elezioni, affascinato dalla geografia, dai viaggi per il mondo, da sempre alla ricerca di mappe elettorali e analisi statistiche, ha curato la grande mappa elettorale dell'italia di YouTrend, e scrive di elezioni, statistiche elettorali, economia.

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