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Se il Pd vince (quasi) tutte le primarie

La vittoria a Genova di Marco Doria di Sel ai danni delle candidate targate Pd Marta Vincenzi e Roberta Pinotti ha riportato in primo piano nei mass media il tema delle primarie, ma soprattutto ha ricatapultato nell’occhio del ciclone il Partito Democratico, mettendone in discussione la capacità di proporre candidature credibili agli occhi dell’elettorato.

Le primarie sono state da sempre croce e delizia dell’organizzazione guidata da Pierluigi Bersani. Indette per la prima volta in Puglia il 16 gennaio 2005, sancirono la vittoria di Nichi Vendola (allora esponente del Partito della Rifondazione Comunista) ai danni del malcapitato Francesco Boccia. Riproposte su scala nazionale il 16 ottobre del 2005  con lo scopo di eleggere il candidato Premier per la coalizione dell’Ulivo (vinte da Romano Prodi con una maggioranza “bulgara” del 74%), le primarie furono uno dei principali cavalli di battaglia del primo segretario del Partito Democratico Walter Veltroni che, ispirandosi al modello statunitense, decise di inserirle nello statuto del partito per la scelta dei candidati da proporre alle elezioni e per i vari organi dirigenziali del partito.

Da quel momento l’opzione di elezioni primarie per la scelta di candidati è diventata di uso comune nel centrosinistra e, sebbene non siano mai stati ben delineati i criteri e le condizioni per il ricorso alle stesse, sono entrate nel modus operandi della politica italiana. Oltre a garantire dei metodi partecipativi di selezione della classe dirigente, (almeno quanto basta per legittimare il nome Partito Democratico) lo strumento delle primarie ha garantito visibilità e copertura mediatica al Pd, anche nei momenti più cupi per il partito come i primi anni di Governo Berlusconi. Ma le primarie non hanno sempre significato rose e fiori per il Pd.

In numerose occasioni, infatti, i democratici hanno dato vita a rovinosi scontri fratricidi che ne hanno minato l’unità in momenti cruciali come quelli che precedono le elezioni vere e proprie, ma soprattutto hanno dovuto fare i conti con i partiti minori del centrosinistra, che hanno visto nelle primarie un’occasione per limitare il monopolio democratico nella fase di selezione dei candidati.

Ecco quindi che episodi come le primarie di Milano che hanno incoronato Giuliano Pisapia, il giovane Zedda nell’esperienza cagliaritana fino al fenomeno Vendola in Puglia hanno portato il Partito Democratico ad interrogarsi sull’utilità di questo strumento, talvolta considerato come un vero e proprio “cavallo di Troia” con cui gli alleati prendono il sopravvento.

Dati alla mano però, le statistiche sono tutte a favore del Partito Democratico. Considerando le primarie svolte per l’elezione dei candidati a Presidente di Regione, Presidente di Provincia, e di Sindaco di Comune capoluogo di Provincia che si sono svolte dal 2010 ad oggi, si evince infatti che gli elettori di centrosinistra sono stati chiamati alle urne per le primarie in 30 occasioni, e per ben 24 volte il candidato vincente risulta essere uno di quelli sostenuti dal Partito Democratico (circa l’ 80% degli eletti alle primarie):

I sei episodi in cui il Partito Democratico è stato battuto sono stati: Milano con Giuliano Pisapia, Cagliari con Massimo Zedda e Iglesias con Marta Testa in occasione delle comunali del 2011; in Puglia con il bis di Nichi Vendola per le regionali 2010; e i recenti casi di Genova e Rieti con le vittorie, rispettivamente, di Marco Doria e Simone Pietrangeli in occasione delle primarie svolte nel 2012 per le elezioni comunali che si svolgeranno la primavera prossima.

A questo punto quindi il Partito Democratico dovrebbe porsi qualche interrogativo. Non tanto in merito all’utilità delle primarie, quanto piuttosto all’approccio adottato nelle occasioni in cui intende farvi ricorso. Tanto per fare un esempio, le primarie sono uno strumento del Pd e quindi aperto solo ai candidati democratici (come è avvenuto in occasione della scelta del governatore dell’Umbria tra i democratici Catiuscia Marini e Giampiero Bocci), oppure vanno allargate ai partiti della coalizione? E in questi casi, vanno sostenuti più candidati da contrapporre alla candidatura quasi sempre unitaria degli altri partiti, oppure occorrono delle “pre-primarie” tutte interne al Pd per non disperdere voti ed energie? L’attuale Sindaco di Novara Andrea Ballarè, ad esempio, prima di sfidare il candidato di Sel Nicola Di Fonzo e Nathalie Pisano dei Radicali è uscito vittorioso dalle primarie interne al Partito Democratico. A Genova invece i democratici liguri sostengono che tra le cause principali della sconfitta vi sia proprio la divisione interna che vedeva candidati due personaggi di primo piano nel panorama politico locale, come il Sindaco uscente Marta Vincenzi e la Senatrice Roberta Pinotti.

Un altro aspetto da non sottovalutare è la scarsa capacità del Partito Democratico di “rivendersi” a livello mediatico le vittorie ottenute. È un dato di fatto che i riflettori dei mass media si accendano sulle consultazioni primarie soprattutto quando il candidato del Pd esce sconfitto. Questo in parte può essere considerato fisiologico, perché essendo il partito più grande in termini elettorali il Pd è dato sempre per favorito, ed un’eventuale sconfitta del favorito fa sempre notizia.  Ma vittorie come quelle di Merola a Bologna, se comunicate correttamente, possono rappresentare un’ottima pubblicità per la forza e la capacità di coinvolgimento del Partito Democratico.

Va considerato anche che le città in cui Sel è riuscito a sconfiggere il Pd sono quasi tutte ad elevato impatto mediatico. Si può benissimo ipotizzare infatti che Vendola e soci abbiano pianificato una vera e propria strategia volta a concentrare tutte le energie a disposizione in pochi obiettivi ad elevata risonanza nazionale, come le città di Milano o di Genova. Ma anche il Pd è riuscito ad aggiudicarsi città di primo piano: le vittorie di Fassino a Torino o di Orsoni a Venezia avrebbero potuto benissimo meritare qualche titolo di giornale in più rispetto allo scivolone di Cagliari.

Un ultimo dato da prendere in considerazione è la percentuale di vittorie del centrosinistra quando il candiato è emerso attraverso consultazioni primarie. Nei casi suddetti infatti i vincitori delle primarie sono riusciti a vincere le elezioni in 15 occasioni su 22, il che significa che il 68% delle volte che il centrosinistra fa la primarie poi vince anche le elezioni. La percentuale assoluta di vittoria del centrosinistra alle elezioni di Regioni, Province e Comuni capoluogo di Provincia risulta invece più bassa, intorno al 61%. Questo dato ovviamente non significa che le primarie siano determinanti per la vittoria finale, perché al momento delle elezioni intervengono molte altre variabili, anche molto più influenti. Ma sicuramente, se fatte in maniera sana e cristallina (non come quelle napoletane, poi annullate dopo una fuguraccia di livello nazionale) possono fungere da volano per lanciare e pubblicizzare un candidato apprezzato anche dalla base e non solo dalle segreterie di partito.

 

Roberto Mincigrucci

Nasce il 22/09/1988 ad Assisi, vive a Torgiano (PG). Consegue nel 2010 la laurea triennale in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Perugia. Attualmente frequenta un corso di laurea magistrale in Scienze della Politica e del Governo all'Università degli Studi di Perugia. Collabora con il Corriere dell'Umbria e con Youtrend.

4 commenti

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  • L’articolo è stato modificato per correggere alcune inesattezze riscontrate nei dati.
    Roberto Mincigrucci

  • Buona analisi, le tendenze di fondo erano già conosciute, ma solo dagli “addetti ai lavori” e senza che i dati fossero resi pubblici con questa precisione.
    Stupisce che questi dati vengano da studiosi “esterni” e non dal PD.
    E’ imporatnte, comunque, ricordare che politicamente il PD vince anche quando perde le primarie, perchè è solo con vere primarie di coalizione che il PD ha le migliori posssibilità di vincere le elezioni.
    I casi di Milano (primarie perse, elezioni vinte) e di Napoli (primarie annullate, disfatta totale del PD) ne sono la riprova.

  • Come si è già detto in precedenza, per chi segue più da vicino e con obiettività il fenomeno, o ormai quasi diventato prassi, delle primarie, sa benissimo che i democratici le hanno quasi sempre vinte (nell’articolo di parla dell’80%), ma la sfortuna per il Pd sta nell’aver perso primarie in grandi città, parliamo di Milano e Genova che sicuramente hanno un impatto maggiore sui media rispetto ad una vittoria democratica a Lecce o Asti, da qui l’equazione (errata) Primarie = sconfitta Pd, da molti giornali e partiti cavalcata per propri scopi. Allo stesso tempo, i democratici dovrebbero smetterla di fare di ogni sconfitta alle primarie uno psico-dramma, va bene il confronto interno ma, non possono, puntualmente dopo ogni sconfitta, andare in perenne crisi d’identità e darsi addosso da soli, perché ciò annulla non solo il ritorno mediatico positivo che il Pd ha da ogni tipo di primarie, ma anche la natura stessa delle primarie, che hanno il compito di selezionare il candidato di area migliore, con una legittimazione dal basso e possibilmente dall’alto. Questo in teoria. Nella pratica, invece, le primarie sono viste come un regolamento di conti interni o come strumento di competizione (nociva) fra i partiti di una coalizione. La volontà di far funzionare le primarie dipende dall’impianto che si vuole dare al partito (che sia il Pd o anche il Pdl). Nella patria delle primarie, i partiti non hanno tessere, non hanno assemblee comunali, provinciali, regionali, nazionali o almeno non come nel modello di partito europeo; è la famosa struttura liquida, il partito composto da volontari (si potrebbero associare ai nostri tesserati) e dagli elettori, il cui contributo va dal finanziamento al semplice voto nelle primarie e nelle secondarie e così via. Ma Per un partito come il Pd, organizzato sul partito vecchio stampo con vari livelli organizzativi, perdere le primarie è tradotto in disfatta per l’intera classe dirigente, ed è forse giusto che sia così. Concludo, in questa spassionata analisi profana, che le primarie, ben regolamentate dalla legge, possono essere lo strumento per rifondare a destra e sinistra due grandi poli o partiti (non mi entusiasma la politica delle sigle né quella delle etichette): un polo conservatore ed uno progressista, con un identità ed un riferimento sociale chiaro, ma soprattutto due poli politicamente omogenei; vivo in Puglia, e nel momento in cui sono andato a votare nelle primarie del 2010 vi era un unico popolo di centrosinistra, senza alcuna etichetta di partito in fronte, perché allora questo popolo non può vivere in un unico grande soggetto, facendo sentire la sua voce in occasioni come le primarie?