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Speciale Liberalizzazioni: l’impatto economico

Le immagini dei taxi che bloccano le piazze di Roma potrebbero dare l’idea di un paese che non ha appetito per mercati più aperti. Eppure, le liberalizzazioni sono piuttosto popolari in Italia. Secondo un recente sondaggio IPSO, le ritengono una cosa positiva 6 italiani su 10. Le liberalizzazioni godevano dell’appoggio dell’elettorato anche cinque anni fa, quando la riforma Bersani incontrava notevoli difficoltà in Parlamento. Ed anche oggi il maxi-decreto emanato dal Governo Monti si è visto piovere inizialmente addosso ben 2400 emendamenti.

Questo speciale di Youtrend cerca di rispondere a due domande: Quale potrebbe essere l’impatto economico a breve e lungo termine delle liberalizzazioni? E quale impatto avrà sulla loro realizzazione l’iter parlamentare? Analizziamo in particolare le riforme dei taxi, delle farmacie e del notariato.

Liberalizzazioni – Impatto Economico

Partiamo dalla domanda di fondo: perché le liberalizzazioni rappresentano una parte cosi importante del programma del Governo Monti? Il mandato dell’esecutivo tecnico, dopotutto, consiste solamente nel traghettarci fuori dalla crisi del debito. Ebbene, le liberalizzazioni sono rilevantissime se non fondamentali a questo fine per due motivi.

In primo luogo perché ce lo chiede la famosa lettera di agosto della BCE. Da allora la leadership è cambiata sia a Francoforte che a Roma. Non dimentichiamoci però che se lo spread si attesta ora a livelli sostenibili (sotto i 400 punti) è grazie agli acquisti di BTP italiani da parte della BCE. E la BCE sarà disposta a finanziare il nostro debito solamente fin quando ci mostriamo capaci di eseguire le riforme richieste.

Il secondo motivo è più strettamente macroeconomico: il debito ha come denominatore il PIL. Secondo un recente studio di Bankitalia, un programma universale di liberalizzazioni darebbe una sterzata al PIL di 1.4% annui per un arco di 20 anni. L’opinione consensuale degli economisti è che l’Italia non corra un rischio di insolvenza dovuto al debito stesso (abbiamo un avanzo primario e tempi di maturazione del debito lunghi), ma piuttosto causato dalla sfiducia nei mercati. Una sfiducia generata da un problema di crescita a lungo termine dovuto, tra le altre cose, all’incapacità cronica della classe politica italiana di affrontare riforme come questa.

Guardando individualmente le diverse categorie oggetto del maxi-decreto capiremo perché sono cosi restie al cambiamento e quali sarebbero gli effetti in termini di crescita economica di una maggiore concorrenza.

Taxi

Si tratta della categoria che più pubblicamente si è opposta a una maggiore concorrenza di mercato. I tassisti temono (e il governo spera) che un’eventuale abolizione delle tariffe minime e un incremento del numero delle licenze possa portare a una maggiore competizione e dunque a un abbattimento dei prezzi. Ai tempi della riforma Bersani l’opposizione fu cosi efficace nel far sentire le proprie ragioni in Parlamento che fu solamente tolta la possibilità di ereditare una licenza e ne venne aumentato il numero. Ma la gestione delle licenze rimase a discrezione dei singoli Comuni i quali, come accadde subito dopo a Roma, fecero spesso corrispondere a un aumento delle licenze un aumento della tariffa minima. Per questo motivo, oggi le lobby dei tassisti insistono che possano decidere i Comuni. Vedremo la settimana prossima come poi nella pratica sarà la neo-costituenda Autorità per i Trasporti a determinare la messa in atto.

Ma sono pochi i parlamentari con la voglia di aiutare la categoria. E l’opinione pubblica ha poca simpatia per i tassisti. Il governo ha dunque un’opportunità per mostrarsi dura con una “casta” e guadagnare consensi. È altrettanto importante il guadagno economico? Secondo un paper di Bankitalia del 2007, diminuirebbe la congestione urbana, verrebbe saziata una domanda insoddisfatta tra il 20 e 30%, calerebbero i prezzi e si abbatterebbero le rendite del settore. Ma per avere un effetto macroeconomico visibile la liberalizzazione dovrebbe permettere che migliori la produttività dell’economia nel suo insieme. Ci sembra difficile sostenere che liberalizzare i taxi, per quanto importanti dal punto di vista simbolico, possa rendere significativamente più produttivo il tessuto economico e influire sul PIL.

Farmacie

Sono storicamente una delle categorie più ostiche. Un aneddoto personale: mio bisnonno, presidente dell’ordine a Roma durante il Ventennio, si fece una brutta fama perché non lasciava che si costruissero farmacie nel raggio di due chilometri della sua. Ancora adesso, nell’Appio Latino, molti si lamentano che le farmacie sono poche. Un corporativismo del genere non ha praticamente eguali in Europa. Eppure, sarebbero tanti i modi per attenuarla e dunque stimolare la concorrenza: rendere più accessibili i concorsi; permettere a parafarmacie o supermercati (come nel Regno Unito), di vendere farmaci “di fascia C” come l’aspirina, dare più licenze o addirittura sciogliere l’ordine stesso.

“Ragioni di carattere tecnico ci hanno sconsigliato di seguire questa strada”: con questo eufemismo si è espresso una settimana fa Renato Balduzzi, Ministro della Salute, riguardo la possibilità di poter vendere i farmaci di categoria C nelle parafarmacie. Tuttavia il maxi-decreto prevede a breve un concorso per ben 5000 farmacie nuove. L’aumento della concorrenza e il conseguente abbattimento dei prezzi non saranno dunque incisivi come si sperava. Eppure, sempre secondo Via Nazionale, i vantaggi economici dovrebbero essere significativi. Il motivo è semplice: servizi come i taxi non sono consumati regolarmente dalla maggior parte degli Italiani. I farmaci invece sì. Secondo il Codacons, il risparmio netto annuo per ogni cittadino sarà di circa 20 Euro (sarebbero stati 50 con i farmaci “C” nelle parafarmacie). Dunque, il risparmio per i cittadini, soprattutto gli anziani che soffriranno il peggio della riforma pensionistica, potrebbe esserci. Ma non si tratta di una riforma sistemica. Ovvero, non vediamo motivi per cui dovrebbe alterare significativamente la produttività.

Notai

Quasi nulla si è sentito in queste settimane a proposito dei notai. Di certo non hanno invaso le piazze. Non hanno fatto lobbying vistosamente in Parlamento come le farmacie. Eppure da sempre, il notariato è una delle categorie più chiuse e anti-concorrenziali che ci siano. Per quale motivo il Parlamento non ha mai affrontato la questione? Innanzitutto perché ci sono diversi notai tra gli scranni di Montecitorio (e ben 87 avvocati, categoria amica e non a caso anche essa poco toccata dal maxi-decreto). Vi è un secondo motivo più discutibile: il notariato ha accesso ad ogni atto pubblico italiano. È dunque verosimile che molti nostri deputati temano che intaccare gli interessi della categoria possa far si che escano fuori dei segreti poco graditi.

Infatti, il maxi-decreto tocca pochissimo la categoria. Viene aumentata la pianta organica di 500, essenzialmente nulla in termini di competizione e di abbattimento dei prezzi. Anche perché nessun notaio può proporre prezzi sotto le tariffe minime di sua sponte, perché rischierebbe l’espulsione dall’ordine. L’unica preoccupazione per la categoria è l’introduzione della SSRL: la società a responsabilità limitata per gli under-35 che non richiede firma notarile. Difficile prevedere però quanto questo possa influire sulle gigantesche rendite prodotte dal notariato. La difficoltà nel toccare questa categoria è resa ancor più tragica da quanto ci sarebbe potenzialmente da guadagnare. Le procedure notarili rappresentano un enorme costo in termini di tempo e denaro per i cittadini e soprattutto per le aziende. Non ci sono stime in proposito, ma è evidente che scogliere del tutto l’ordine rappresenterebbe non soltanto un risparmio per il consumatore ma una rivoluzione economica.

Conclusione e lezioni

1) Da notare la forte discrepanza tra le liberalizzazioni oggetto di attenzione mediatica e quelle in grado di realmente dare una scossa alla produttività. Non solo il notariato, ma anche Avvocati e Assicurazioni, se liberalizzate a dovere darebbero un aiuto ben maggiore al consumatore e una spinta alla produttività.

2) La discrepanza si spiega col fatto che le categorie più visibili sono quelle con minor peso economico e rappresentanza in Parlamento. Ciò che frena liberalizzazioni più aggressive è il conflitto d’interessi all’interno dei supremi emicicli. Ne è la conferma la marea di emendamenti.

3) Una nota di metodo: è naturale che ci sia un’opposizione a una maggiore concorrenza. Abbattere le rendite significa pure sempre colpire lo stile di vita di chi di esse vive. L’esecutivo tende a ignorare questa problematica per poi finire impantanata in negoziazioni e compromessi parlamentari. Per evitare ciò può essere istruttiva l’esperienza di altri paesi, come l’Irlanda, che hanno affrontato liberalizzazioni ben più grosse con successo grazie al principio della compensazione: il risarcimento una tantum almeno in parte a chi perde di un tratto una parte significativa del proprio reddito.

4) Servono con urgenza studi che calcolino i potenziali benefici dell’apertura al mercato di ogni singola categoria. Una maggiore informazione può far si che ci sia una opposizione più efficace alle lobby.

 

Lorenzo Newman

Patito di policy. Consultente gestionale. Nasce a Roma nel 1988. Laurea in Economia e Scienze Politiche al Trinity College di Dublino e Master in Economia dello Sviluppo alla London School of Economics. Ama follemente la Roma.

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