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USA 2016: ma allora sta vincendo Trump?

USA 2016: ma allora sta vincendo Trump?

L’inerzia di queste presidenziali, dopo la Convention democratica di fine luglio, sembrava portare nettamente nella direzione di una larga vittoria di Hillary Clinton. A metà agosto era arrivata a oltre 8 punti di vantaggio su Trump, margine che le avrebbe consentito una landslide nel conteggio dei Grandi elettori (forse anche più dei 332 conquistati da Obama nel 2012) e che avrebbe minato le certezze dei Repubblicani in stati fino a poco tempo fa impensabili, come Georgia e South Carolina nel profondo Sud, Arizona nel Sud-Ovest, forse addirittura l’Utah, patria dei Mormoni.

Poi sono arrivati alcuni sondaggi, nelle ultime settimane, che un po’ hanno intaccato questa percezione.

Un primo segnale d’allarme: il 31 agosto una rilevazione della Marquette University, istituto molto affidabile, assegnava a Hillary Clinton appena 3 punti di vantaggio in Wisconsin. Perché un segnale d’allarme? Perché un mese prima lo stesso istituto dava Hillary a +15. E perché il Wisconsin è uno stato vicino ai Grandi Laghi, conteso nel 2000 e nel 2004 ma vinto agilmente da Obama due volte: con 14 punti di distacco nel 2008 e con 7 punti nel 2012, quando pure il candidato vicepresidente di Romney, Paul Ryan, veniva proprio da quello stato.

Il giorno dopo, il sondaggio del Franklin & Marshall College sulla Pennsylvania, ormai considerata saldamente nelle mani di Hillary, dava Trump in ritardo solo di 5 punti. E quello dopo ancora l’Emerson College non solo assegnava un vantaggio di 5 punti per Trump in Iowa, ma registrava una sostanziale parità (Clinton 44 Trump 43) in Virginia: e la Virginia è lo stato del candidato democratico alla vicepresidenza Tim Kaine, uno stato vinto tutte e due le volte da Obama, e da molti osservatori ritenuto non più in gioco.

Per contro, bisogna dire che in queste stesse ultime due settimane altre ricerche sembravano confermare la posizione di forza di Clinton in molti degli swing states: l’istituto di sondaggi PPP, ad esempio, la dava in testa in New Hampshire, North Carolina e Ohio – e se Hillary vince in questi tre stati la Casa Bianca è sua.

Sul piano nazionale, che non è quello che conta perché come abbiamo spiegato qui il Presidente degli Stati Uniti è eletto stato per stato, ma dà un’indicazione sul quadro generale della corsa, il trend è questo che vedete qui, anche alla luce dei recenti sondaggi di network importanti come FOX e CNN, che segnalano una sostanziale parità statistica (per completezza: altri registrano un vantaggio piuttosto netto di Clinton).

In sostanza, aggregando i diversi sondaggi Hillary è ancora davanti a Trump. Ma se dopo le Convention l’ex First Lady era arrivata a godere di un vantaggio vicino ai 10 punti, ora quel divario si è ridotto: dimezzato per alcuni, addirittura ribaltato per altri, per altri ancora solo parzialmente eroso. Ma si è ridotto. Con una annotazione importante (e attenti ai titoloni italiani): se un candidato è davanti di 3 o 4 punti, ci saranno alcuni sondaggi in cui sarà dietro di poco, altri in cui sarà in vantaggio di 6 o 7. È normale, è quello che si chiama rumore statistico.

Comunque, qualcosa si è mosso, e, anche considerando i margini d’errore e l’incognita dell’affluenza al voto, la partita è aperta. 4 o 5 punti in due mesi non sono un vantaggio di sicurezza. Nel 2008, per esempio – c’entrava anche il calendario della Convention repubblicana – sessanta giorni prima delle presidenziali Obama aveva, secondo i sondaggi, circa 2 punti di vantaggio su McCain. Il giorno delle elezioni, ha vinto di 7 punti, 53 a 46.

Lo avevamo detto: due mesi sono lunghi, e in questa campagna, con un outsider come Trump e in generale i due candidati meno popolari da qualche decennio a questa parte, due mesi possono voler dire ancora più cose del solito.

D’altra parte, gli osservatori più attenti indicano tre elementi che dovrebbero indurre a una certa cautela sempre, quando si leggono i sondaggi, e forse quest’anno più di altre volte.

Per prima cosa: sembra che ci sia una differenza marcata fra i sondaggi live caller, cioè quelli fatti al telefono con intervistatori in carne e ossa, gli automated polls (cioè quelli fatti sempre al telefono ma con una voce registrata) e quelli online. Ne parla qui diffusamente Harry Enten di FiveThirtyEight.

A questa differenza si fondo si aggiungono altre due variabili: se i sondaggi sono telefonici, includono o no anche un campione di telefoni cellulari? E nella domanda formulata agli intervistati, si presentano solo Hillary Clinton e Donald Trump (two-way) o si includono anche gli altri due candidati ‘minori’, Gary Johnson e Jill Stein (four-way)?

Un altro aspetto da cui mettere in guardia è quello dei cosiddetti outlier, cioè sondaggi che registrano dati sensibilmente diversi dagli altri. Come sottolinea Nate Silver, non necessariamente un outlier è sbagliato, ma alla fine il metodo per ottenere indicazioni più affidabili sta nell’aggregare tanti sondaggi diversi e ricavarne una media.

Un caso di sondaggio outlier piuttosto dibattuto è quello di USC per il Los Angeles Times, che ha sempre premiato Trump, anche quando gli altri istituti lo davano 10 punti sotto. Secondo Nate Cohn di The Upshot, ad esempio, il metodo di pesatura di USC non è affidabile, perché gli elettori intervistati vengono pesati in base a come riferiscono di aver votato quattro anni prima: e non è affatto detto che il ricordo sia fedele, così come potrebbe esserci un effetto traino a favore di chi quattro anni fa era uscito vincente. Di qui la possibilità che si generino distorsioni nel sondaggio.

Parlavamo dell’online: e online è stato, e per la prima volta nella storia del giornale (qui Scott Clement spiega perché hanno optato per l’online), il mega-sondaggio su tutti e 50 gli stati degli Usa commissionato dal Washington Post a SurveyMonkey e uscito questa mattina. Con circa 74.000 interviste distribuite su quasi un mese – elemento che ha fatto storcere il naso a chi si occupa di metodologia – la rilevazione consente di ricavare informazioni anche su quegli stati che di solito non vengono inclusi nelle ricerche, perché troppo piccoli o perché non si tratta di battleground states.

Ci sono sorprese curiose, nel sondaggio Washington Post/SurveyMonkey – Hillary in vantaggio di 1 punto in Texas e dietro di appena 2 nel Mississippi che sta nel profondo Sud repubblicano, ma anche Trump in svantaggio solo di un soffio in Wisconsin e Michigan, che votano per i Democratici dal 1992.

Ma c’è soprattutto la conferma di una dinamica demografica che quest’anno sarà particolarmente marcata: i democratici possono riporre speranze là dove ci sono ampie comunità ispaniche o afro-americane e/o gli elettori bianchi sono tendenzialmente istruiti (Arizona, Georgia,  forse appunto persino Texas e Mississippi), il GOP ha più chance che in passato nel Midwest industriale, dove ci sono molti elettori bianchi e poco istruiti (Wisconsin, Michigan, Iowa, Ohio, porzioni della stessa Pennsylvania).

L’ultimo fattore da tenere a mente quando si legge un sondaggio americano ha a che fare con il tipo di campione indagato dai sondaggi: si tratta di Registered Voters (RV) o di Likely Voters (LV)? Con Registered Voters si intende che la ricerca riguarda l’insieme degli americani iscritti alle liste elettorali (negli Stati Uniti l’iscrizione non è automatica come da noi). Se si parla di Likely Voters, invece, significa che gli istituti di ricerca utilizzano dei modelli per individuare quegli elettori – fra quelli registrati – che probabilmente andranno a votare.

Spesso i risultati cambiano, fra un metodo e l’altro: una tendenza che sembra anticipare un tema centrale in queste presidenziali, quello della mobilitazione e dell’entusiasmo. Chi riuscirà – con tecniche elaborate o con la potenza del messaggio – a mobilitare maggiormente i propri sostenitori potrebbe ritrovarsi con un vantaggio competitivo decisivo.

Lorenzo Pregliasco

Nato nel 1987 a Torino. Si è laureato con una tesi su Obama, è stato tra i fondatori di Termometro Politico, collabora con «l'Espresso» e ha scritto su «Politico», «Aspenia», «La Stampa».
È regolarmente ospite di Sky TG24, Rai News, La7 e interviene frequentemente su media internazionali come Reuters, BBC, Financial Times, Wall Street Journal, Euronews, Bloomberg.
Insegna all'Università di Bologna, alla 24Ore Business School e alla Scuola Holden.
Ha scritto Il crollo. Dizionario semiserio delle 101 parole che hanno fatto e disfatto la Seconda Repubblica (Editori Riuniti, 2013), Una nuova Italia. Dalla comunicazione ai risultati, un'analisi delle elezioni del 4 marzo (Castelvecchi, 2018) e Fenomeno Salvini. Chi è, come comunica, perché lo votano (Castelvecchi, 2019).
È direttore di YouTrend.

3 commenti

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  • Dunque… Il luogo comune sinistrino dove chi vota a destra non è istruito mentre chi lo fa a sinistra si.
    Sapendo che il PD in italia cerca i voti dagli sbarcati a Lampedusa verrebbe da chiedere quanta “istruzione” abbuano questi qua. ( i paesi africani sono quelli che hanno la media del QI più bassa al Mondo. Ma chi filosofeggia non bada ai numeri )

    Lo stesso articolista dice che la Clinton riceverà i voti dagli ispanocamericani di cui, molti di loro e non per loro colpa, sono fuggiti da paesi in guerra o disastrati. CHE TIPO DI ISTRUZIONE AVRANNO? Ecco quindi che i Democrats riceveranno i voti SOPRATTUTTO dai non istruiti… pare molto chiaro.

    Quindi smettiamola con i luoghi comuni a con l’arte della chiacchera. I dati e numeri contro gli slogan di qualche prof. di filosofia sfigato. Magari anche ex 68ttino…

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