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USA: la convention di Romney

USA: la convention di Romney

Nella campagna per le presidenziali USA, a portare in giro per il paese Mitt Romney, a occuparsi dei giornalisti, a parlare volentieri con tutti, a farsi intervistare è lei: Ann Romeny. Distribuisce dolcetti e biscotti, sempre sorridente, disponibile, luminosa nei suoi 63 anni portati magnificamente, nonostante cinque figli e la sclerosi multipla che l’ha colpita 14 anni fa.

È Ann il lato umano di Mitt Romeny, l’asso nella manica del marito deciso a giocare nella convention di Tampa la mossa finale nella corsa alla Casa Bianca. “Questa sera voglio parlare di amore”, esordisce la signora Romney, “l’amore profondo per un uomo che conobbi al ballo del liceo e l’amore che entrambi proviamo per questo paese”. I repubblicani vogliono il voto delle donne e per questo hanno tirato fuori Ann, per dire “Guarda: Mitt è uno di noi, ci capisce, sa cosa vuol dire crescere una famiglia, dei figli e per questo sarà un grande Presidente”. Le americane continuano a preferire Obama a Romney ed i sondaggi dicono che chi conquista il voto femminile, vince le elezioni. E allora Ann parla alle donne: la moglie, la madre (ormai nonna) parla alle donne per convincerle a scegliere quell’uomo che lei stessa ha scelto 43 anni fa e che, giura, “non fallirà”. Ann Romney è riuscita a fare quello che doveva fare, pensano alcuni: un discorso appassionato e ben costruito, come serviva alla campagna repubblicana. In platea, commosse, le grandi donne del partito, come Condoleezza Rice, ma la più potente, la più popolare, Sarah Palin, non c’era.

Poi il discorso convincente del vice di Mitt Romeny, Paul Ryan, che ha dichiarato “Romeny è l’unico che può farcela, che ha un piano economico: non si può andare avanti così con i costi sociali”. Ryan è una faccia nuova, il futuro del partito repubblicano: piace alla platea conservatrice che gli ha dedicato applausi e standing ovation. “Accetto l’appello della mia generazione, per consegnare ai figli quanto abbiamo ricevuto dai padri!”. Giovane, intelligente, ambiziosissimo, Ryan ha attaccato Obama frontalmente e come Romeny mai fino a quel momento aveva avuto il coraggio di fare. “Cosa hanno ottenuto i contribuenti?” grida alla folla, già furiosa di suo, contro il Presidente democratico: “niente, solo altri debiti”. Bisogna però anche tranquillizzare gli indipendenti, convincere gli indecisi e così Ryan dichiara: “abbiamo un piano per la classe media, per creare 12 milioni di posti di lavoro nei prossimi quattro anni”. Una promessa difficile da mantenere in tempi di crisi economica, ma Ryan sa come arrivarci: limitando il governo, tagliando risorse destinate a disoccupati, anziani, famiglie in difficoltà, ovvero quel 40% di americani che vive di reddito bassissimo. È la grande battaglia dei c.d. tea party contro l’Obama socialista e si tratta delle parole d’ordine che conservatori e radicali non avevano ancora sentito da Romeny.

Infine, il discorso di Mitt Romney che, per la prima volta, parla agli americani incollati davanti al televisore come un possibile nuovo Presidente: è stato il figlio del governatore, il missionario mormone, il repubblicano moderato, l’imprenditore miliardario, ma alla convention di Tampa, davanti alla platea conservatrice, Romeny sceglie quella che vorrebbe essere la sua identità finale. Vuol essere un uomo capace di creare 12 milioni di posti di lavoro in quattro anni e di far uscire il paese dalla peggior crisi economica dopo la grande depressione del 1929. Un uomo in grado di realizzare i sogni che Obama ha promesso, ma non ha mantenuto. “Il Presidente non vi ha deluso perché lo voleva”, dice nel suo affondo, brutale ma signorile, dell’avversario, e “non ha nemmeno guidato l’America nella direzione sbagliata. La verità è che non è minimamente preparato per il suo lavoro, non ha nessuna esperienza, né preparazione: per lui, il lavoro, è il governo”. Con la benedizione del cattolico arcivescovo Dolan, il mormone chiude la convention che lo incorona, in mezzo agli applausi e ai palloncini che danno la sensazione che questa volta la vittoria è a portata di mano. In realtà, alla fine della serata, l’unico vincitore sembra essere il vecchio Clint Eastwood, che ha fatto letteralmente impazzire la sala e lo staff con il suo dialogo impossibile con una sedia vuota, dove immagina di vedere Barack Obama. Così finisce, con la frase più famosa di “Dirty Harry”: “Go ahaed Mitt!”.

Francesca Petrini

Dottoranda in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate, si è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha conseguito il titolo di Master di II livello in Istituzioni parlamentari per consulenti d´Assemblea.

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