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La Lega Nord nella XVI Legislatura: partito di governo o di protesta?

Oscillando su posizioni e strategie differenti e spesso contrastanti la Lega ha vissuto cinque anni complicati. Ad un’iniziale successo, con la conquista di Ministeri e Regioni, è seguito il declino, sia nei voti che nella leadership.

Questi ultimi cinque anni in Parlamento sono stati particolarmente turbolenti per la Lega Nord. Il Carroccio uscì dalle politiche del 2008 con l’8,3% a livello nazionale, che considerando i valori delle sole regioni del Nord vuol dire una Lega attorno al 20%. Forte di questo successo elettorale, e grazie all’alleanza di centro-destra stretta con il PdL, il partito di Umberto Bossi poté tornare al governo dopo le esperienze del 2001 e del 1994. Ottenne quattro Ministri: lo stesso Bossi, Calderoli, Maroni, Zaia; e altrettanti Sottosegretari, nonché Rosy Mauro alla vicepresidenza del Senato.

Messi da parte i toni da campagna elettorale, il folklore e la rabbia contro “Roma Ladrona”, il partito della Padania riprese la strada istituzionale, giustificando il compromesso con la necessità di dover riformare l’Italia per proteggere il Nord. Il progetto era già stato più volte dichiarato: più autonomia per il territorio, nei tempi e più rapidi possibili. Dopo averci provato con la devolution, bocciata dal referendum del 2006, ritornarono alla carica con il federalismo fiscale, approvato nel 2009 ed entrato in vigore gradualmente dal 2010. Un progetto ambizioso, che sulla carta avrebbe dovuto garantire la ristrutturazione del sistema fiscale italiano e la standardizzazione la gestione del denaro all’interno dell’amministrazione pubblica. L’altro fronte aperto, sempre in difesa della gestione autonoma del territorio, era quello delle amministrazioni locali, delle province e delle regioni: gli sforzi alle elezioni regionali e amministrative furono ripagati, infatti, nei primi anni della legislatura.

La Lega però, in tutta la sua lunga storia (con la nascita negli anni ’90 è il partito più vecchio presente in Parlamento), ha sempre dimostrato di essere un soggetto politico imprevedibile. Proprio come un pendolo, ha sempre oscillato tra politica di palazzo ed espressione della rabbia del territorio. Una spinta ambivalente confermata anche in questi ultimi cinque anni. Berlusconi sì o Berlusconi no? Con lui quando tutto va bene ed è il momento di accreditarsi nelle stanze dei bottoni; contro di lui quando i leghisti sul territorio ricordano la purezza del pensiero padano.

Federalismo codificato in legge o secessione gridata dalla piazza? Lo stesso federalismo fiscale, spinto con convinzione prima e dopo le elezioni del 2008, è diventata un’opera incompiuta abbandonata persino dai leghisti più convinti, che in alternativa hanno rispolverato il mito della Padania con tanto di Parlamento ad hoc.

Obbedienza al leader carismatico o decisioni prese dalla base? Tradizione e folklore o pragmatico pudore? Compromesso con Roma o chiusura e radicamento sul territorio? Solidarietà cattolica o xenofobia? Amministrazione di un Ministero o governo di una Regione? Ogni qualvolta la Lega è stata chiamata a rispondere a queste domande, le risposte sono sempre state diverse. Lo stesso ruolo di Bossi è di difficile interpretazione: ha dettato la linea o ha fatto da portavoce alla così detta base leghista?

Su una cosa però non ci sono dubbi: dal 2011 i delusi della Lega sono aumentati sempre più. I motivi sono molteplici: l’impopolarità di Berlusconi, l’inadeguatezza al Governo, l’insuccesso delle amministrazioni locali, la perdita della immagine di una Lega dura e pura dopo gli scandali legati ai finanziamenti (da Belsito alla regione Lombardia), le frizioni tra cerchio magico e le altre correnti interne e la conseguente amara ma obbligata destituzione del leader storico, Umberto Bossi.

La nomina a segretario di Roberto Maroni, che è riuscita a ricompattare la maggior parte del partito, è stato il primo passo della complicata rinascita. La decisione di Maroni di candidarsi alla regione Lombardia viene vista come il legittimo ritorno sul territorio. Aggiungendo la Lombardia al Piemonte di Cota e il Veneto di Zaia, la Lega governerebbe le tre regioni più grandi e produttive d’Italia, mettendo in cassaforte il tanto amato Nord.

Il prezzo da pagare è il compromesso con Roma e soprattutto con Berlusconi, che più che mai ha bisogno del Carroccio per questa tornata elettorale. La Lega ha accettato l’offerta ma gli elettori la stanno ancora valutando, tra polemiche e giustificazioni. Il pendolo si fermerà dalla parte del risentimento o dell’opportunità? Il voto darà la risposta.

 

Nicolas Lozito

22 anni. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Blogger o quasi giornalista a seconda delle giornate. Co-fondatore di iMerica. Mi trovate anche su Twitter.

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