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The Upper House: Kentucky, il feudo di McConnell

The Upper House: Kentucky, il feudo di McConnell

Settimo appuntamento con la rubrica curata da Luciana Grosso e dedicata alle sfide più delicate e avvincenti delle elezioni senatoriali di novembre

Il prossimo 3 novembre, negli Stati Uniti, non si vota solo per la Presidenza. Si vota anche per 35 seggi al Senato e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti. La cosa non è secondaria, anzi: senza un Parlamento dalla sua parte, il Presidente può incontrare grandi difficoltà nel suo mandato.

La gara più serrata è al Senato perché lì i numeri sono molto ristretti: ogni Stato dispone di due senatori indipendentemente dalla popolazione, per un totale di 100 Senatori. Attenzione però: il Senato si rinnova solo per un terzo, perché si vota ogni due anni e ogni Senatore rimane in carica sei anni.

In queste settimane Luciana Grosso ci racconta allora le sfide più delicate, avvincenti e cruciali per diventare o restare Senatore degli Stati Uniti e, di fatto, avere nelle mani il destino di milioni di persone.

Oggi ci spostiamo in Kentucky, settima tappa del nostro viaggio oltreoceano.

Conoscete la canzone Tanti auguri a te? Quella che tutti amano cantare agli altri e nessuno vuole sentirsi cantare?
Ecco, quella.
Quella canzone lì arriva dal Kentucky.
E’ stata composta da due sorelle, Mildred Jane e Patty Smith Hill, nel 1883. Erano due maestre d’asilo e avevano inventato quella semplice e allegra melodia per creare una specie di sigla di benvenuto ai bambini della loro scuola a Louisville. Il testo originario era Good morning to all (“Buongiorno a tutti”) e poi, con il tempo, è stato riveduto e corretto fino alla versione che tutti conosciamo (e detestiamo, quando tocca a noi).

Ma non è l’unica cosa che noi occidentali dobbiamo al Kentucky: ci sono gli occhi tenebrosi di George Clooney, per esempio; c’è il pollo fritto più famoso del mondo (la storia del colonnello Sanders, un disoccupato disperato che prese in gestione il chiosco di una stazione di servizio e si mise a friggere pollo, per esempio, meriterebbe un episodio a parte); ci sono i post-it, quei foglietti gialli a cui affidiamo le cose da ricordare e che poi regolarmente dimentichiamo lo stesso; la prima lampadina mai accesa al mondo; la leggendaria ricchezza di Fort Knox in cui sono immagazzinati più di sei miliardi di oro.
Tutto questo arriva dal Kentucky.
Tutto questo insieme al profilo bonario di Mitch McConnel, uno degli uomini più potenti d’America e del mondo. L’uomo che ha detto che la missione della sua vita è “fermare il socialismo in America”. L’uomo che ad oggi incarna il braccio operativo più forte e concreto, nei risultati e nella gestione delle istituzioni, del trumpismo. L’uomo dal cui tavolo di leader della maggioranza repubblicana al Senato passano, per forza di cose, tutte le leggi proposte dalla Casa Bianca e tutte quelle desiderate dai democratici. Sta a lui, a Mitch McConnell, organizzare il calendario e la maggioranza in modo che le prime passino, e le seconde cadano nel vuoto. Senza Mitch McConnell, la sua esperienza e la sua abilità, oggi l’America di Trump non sarebbe quella che conosciamo. Questo perché spetta a Mitch McConnell trasformare in precisi disegni ordinati, compatibili con la Costituzione e con la politica, gli schizzi un po’ confusi che produce Donald Trump dallo Studio Ovale o dal suo profilo Twitter.
Il ruolo di Mitch McConnell è stato fondamentale, in questi ultimi anni, e senza di lui (oltre che senza la maggioranza del Senato) Donald Trump sarebbe stato molto probabilmente rimosso con l’impeachment. Ma tra il Presidente e le accuse nei suoi confronti c’era Mitch McConnell, e quindi Donald Trump è ancora alla Casa Bianca.

 

I have a dream

La storia politica di Mitch McConnell comincia nel posto dove meno ci aspetteremmo possa iniziare la storia di un repubblicano che appoggia Trump. A Washington, alla marcia per il lavoro e la libertà, quella nella quale Martin Luther King pronunciò il famoso discorso I have a dream. A quell’epoca McConnell era poco più che uno studente conservatore che si interessava di politica, niente di più. E il fatto che McConnell fosse lì, che marciasse al fianco di Martin Luther King per far finire la segregazione razziale negli Stati Uniti, ci dice molto di chi sia davvero: un repubblicano vecchio stampo.
Anche se abbiamo spesso l’impressione – mutuata dalla Presidenza Trump – che i repubblicani siano retrivi razzisti armati fino ai denti, occorre dire che non è del tutto vero. Sì, certo, ci sono i superbigotti fissati con le armi, ma si tratta di una minoranza, sia degli americani che dei repubblicani. Il partito repubblicano è un partito enorme e antico, che ha al suo interno un’infinità di sensibilità, correnti, punti di vista: è la casa elettorale di metà degli americani, ed è riduttivo pensare che corrispondano tutti, per sentire e volere, al loro leader più importante. Anzi, in linea di massima è Trump, con il suo fare muscolare e informale, con la sua opaca condotta privata e con il suo razzismo a c’entrare poco con il conservatorismo moralista e cristiano dei repubblicani. Certo, purtroppo negli ultimi anni il partito ha ospitato tra le sua fila personaggi di bieco e rivoltante razzismo e non ha avuto il coraggio e il rispetto di sé per cacciarli. Ma il Grand Old party, almeno in teoria, non ha il razzismo tra i suoi valori.
E nemmeno Mitch McConnell lo ha. Solo che, a differenza di tanti altri come lui (come Mitt Romney o come John McCain), ha trovato dentro di sé la forza o la pavidità o il tornaconto personale (lasciamo ai posteri l’ardua sentenza) per piegare il suo repubblicanesimo centrista ai dettami del trumpismo più radicale. Ha anteposto il ruolo di ‘soldato’ del suo partito a quello di ideologo. Ha agito, dal 2016 a oggi,  perchè l’azione del governo repubblicano fosse la più forte e indelebile possibile, invece che la più giusta e moderata possibile.

Così, dopo aver accolto con estrema freddezza la notizia della vittoria della nomination di Trump alle primarie del 2016 (“Mi sono impegnato a sostenere il candidato scelto dagli elettori repubblicani e Donald Trump, il presunto candidato, è ora sul punto di ottenere quella nomina”), McConnell si è gradualmente, ma costantemente, spostato dalle posizioni moderate a quelle del nuovo Presidente. Per giunta, sua moglie Elaine Chao è stata scelta da Trump come membro del Gabinetto, col ruolo chiave di Segretario dei trasporti.

 

Da moderato a falco

McConnell ha vinto il suo seggio al senato nel 1984. Fino ad allora si era sempre occupato di politica, ma più con ruoli di organizzazione e di secondo piano. Ai tempi della candidatura a senatore, la più importante esperienza politica di McConnell era stata quella di giudice nella contea di Jefferson: niente di che. La sua fama, a quei tempi, era di grande centrista. Era uno che spesso trovava accordi con i democratici, e questo gli permise, per la prima volta dal 1968, di vincere le elezioni contro un senatore uscente democratico.
Le posizioni moderate di McConnell sono rimaste tali per gran parte della sua carriera politica. Almeno fino al 2008: in quell’anno non solo Barack Obama vinse le elezioni, ma i repubblicani persero anche il controllo della Camera e del Senato. Una debacle assoluta, alla quale McConnell, il moderato, ritenne fosse sua responsabilità porsi come argine. Per questo, negli anni di Obama, McConnell alzò un muro contro tutto quello che arrivava dalla Casa Bianca: serrò i ranghi dei repubblicani, si occupò di riorganizzare il partito, comprese che da un certo punto in poi era necessario uno spostamento verso destra, aprendo le porte al Tea Party e alla parte più conservatrice dell’elettorato. Con il tempo, e con la presidenza Trump, l’esodo di McConnell verso destra è proseguito e lui stesso si è fatto un vanto del suo soprannome, Grim Reaper, che potremmo definire ‘guastafeste’ per la precisione con cui rompeva, in fase di voto, le uova nel paniere ai democratici.

 

Officer Amy McGrath

Contro Mitch McConnell, che è una specie di moloch dei repubblicani e del trumpismo, i democratici hanno scelto (con le primarie) di candidare AmyMcGrath, ex ufficiale dei Marines che ha combattutto in Afghanistan e in Iraq. Quando aveva 14 anni (è nata nel 1975) McGrath aveva scritto al senatore del suo Stato, Mitch McConnell, per chiedere perché alle donne non fosse consentito fare quello che lei considerava il lavoro dei suoi sogni, cioè il pilota da combattimento. McConnell non rispose mai.

Nonostante la nequizia di McConnell che non le rispose mai, la cocciutaggine dei McGrath le diede ragione. Con il tempo, l’esercito aprì alle donne in ruoli di comando e di attacco. Lei stessa, poco più di dieci anni dopo, in Afghanistan guidò la sua prima missione da comandante, a cui, poi, ne seguirono altre 88.

Ora, dice, la sua missione è dimostrare che una donna può vincere in Kentucky anche contro un candidato potentissimo come McConnell. Certo, è difficile che ciò accada, ma non impossibile. E la ragione per cui McGrath pensa di potersela giocare si chiama Donald Trump.

Il fatto che Trump abbia spostato il partito (e di conseguenza Mitch McConnell) su posizioni molto più destrorse del solito ha lasciato un grande vuoto al centro. E McGrath punta a riempire quel vuoto.
Da sempre su posizioni molto moderate (per esempio si oppone a Medicare for All e non sembra entusiasta dell’Obamacare, difende il diritto a portare armi e dice di non avere nessun pregiudizio contro Donald Trump), piace ai repubblicani di centro e per nulla ai dem della sinistra del partito (quelli che appoggiano Bernie Sanders, per intenderci). Questi ultimi la considerano più simile a una repubblicana che a una democratica, infatti alle ultime primarie per il Senato avevano sostenuto un pasdaran di sinistra, Charles Booker, che aveva raccolto molti voti tra i più giovani e tra gli attivisti di Black Lives Matter.

 

Corsa al centro

Lo scenario elettorale che si presenta in Kentucky, stato tradizionalmente e profondamente repubblicano (qui nel 2016 Trump ha vinto con un margine di 30 punti, classificandosi primo in tutte le contee tranne due) appare particolarmente complesso. Questo non tanto perché non si sa chi vincerà (le vittorie di Trump e di McConnell appaiono piuttosto probabili in questo Stato), quanto perché gli elettorati cui si rivolgeranno i candidati saranno autenticamente diversi e divisi.
Ci sarà un candidato – repubblicano, famoso e importante – che corteggerà il voto estremista, contando sul fatto che poi gli elettori di centro seguiranno da soli (ma non è detto: per esempio, i repubblicani del Lincoln Project gli si oppongono fermamente).

Dall’altra parte c’è una candidata – democratica, preparata, ma non famosa – che punta tutto sul centro, contando sul fatto che poi gli elettori più radicali seguiranno da soli.
In ogni caso si tratta di candidature che non puntano a unire i loro partiti, quanto a spostarli. E sta succedendo in tutto il Paese, non solo in Kentucky. Lo spostamento a destra dei repubblicani all’epoca di Donald Trump (e prima ancora del Tea Party di Sarah Palin) ha avuto come indiretta conseguenza lo spostamento al centro (e dunque a destra, partendo da sinistra) anche del partito democratico, interessato a conquistare gli elettori repubblicani moderati che si sentono lasciati orfani dal loro partito storico. Questo spostamento si vede già ora, con l’espressione di una candidatura rassicurante come quella di Joe Biden alla presidenza, ma potrebbe avere effetti a lungo termine, portando forse un giorno, chissà, a nuove e laceranti spaccature all’interno del partito democratico. Ora a tenere insieme tutto il partito dietro il nome di Biden c’è il formidabile collante di Trump, ma, comunque vada, questo spauracchio non ci sarà per sempre. Cosa succederà quando non varrà più la paura di Trump? Cosa terrà ancora insieme nello stesso partito una ex militare che si oppone a Medicare for All come Amy McGrath e Alexandria Ocasio Cortez? Chi riempirà il vuoto che i dem stanno lasciando a sinistra per scalare verso il centro e prendere i voti abbandonati dai repubblicani in fuga verso destra? E soprattutto: siamo sicuri che sia una buona idea?

Luciana Grosso

Giornalista di esteri, ha passato le notti dell’adolescenza a inseguire ‘The West Wing’ tra i canali in chiaro degli anni ‘90. Scrive (soprattutto di USA e di UE) per Il Foglio, Linkiesta, Business Insider, Il Venerdì di Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione Europea.

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