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Midterm, e se Trump conservasse la maggioranza?

Midterm, e se Trump conservasse la maggioranza?

I pronostici sulle elezioni di midterm di oggi, con cui si vota per rinnovare l’intera Camera dei Rappresentanti (House of Representatives), 35 senatori su 100 e 36 Governatori, vedono i Democratici con buone probabilità di ottenere un miglioramento rispetto alla situazione attuale.

Alle midterm, di norma, si registra una perdita “fisiologica” di seggi del partito del Presidente: dal 1862, la media è stata di circa 32 seggi alla Camera e 2 al Senato. Trump e i Repubblicani partono da una condizione attuale di 235 seggi contro 193 dei Democratici alla Camera, e di 51 seggi contro i 49 democratici al Senato (47 + 2 indipendenti). Dal 2016 vi è stata, però, una piccola variazione: nel giorno dalle Presidenziali infatti furono rispettivamente 241 e 52, contro i 194 e i 48 ottenuti dai Democratici (46+2). Se rispetto ai numeri di partenza del 2016 Trump dovesse rispettare l’arretramento medio “storico”, perderebbe la maggioranza in entrambi i rami del Congresso.

Le previsioni realizzate finora, in verità, mostrano un quadro asimmetrico: i Repubblicani perderanno molto probabilmente la maggioranza alla Camera, ma altrettanto probabilmente la manterranno – addirittura incrementando il loro margine -, al Senato. Dal momento che per “azzoppare” un Presidente è sufficiente fargli perdere l’appoggio di uno dei due rami del Congresso, Trump sembra quindi destinato alla sconfitta. Ma, come dimostrano le stesse elezioni con cui fu eletto Presidente, anche una probabilità molto elevata non equivale a una certezza. Vediamo quali sono le 5 ragioni per cui potrebbe verificarsi nuovamente un imprevisto – e cioè che i Repubblicani conservino la maggioranza anche alla Camera.

 

1. L’effetto Kavanaugh

Come è già stato osservato, l’investitura di Brett Kavanaugh a giudice della Corte Suprema potrebbe avere rafforzato i candidati repubblicani, aumentando le possibilità di Trump di mantenere la maggioranza quantomeno al Senato, ma anche in alcuni distretti toss up (ovvero in bilico secondo i sondaggi) della Camera. In particolare, nei giorni successivi alla nomina, i sondaggi hanno rilevato una spinta per i candidati del GOP nelle sfide per il Senato in Tennessee, Missouri, Florida, Arizona, Texas e North Dakota. Parallelamente, per la Camera si sono registrati trend favorevoli ai candidati repubblicani in Kansas (KS03), New Jersey (NJ03), Minnesota (MN08), Florida (FL26), New York (NY22) e West Virginia (WV03). Ovviamente, non tutti i distretti hanno fatto registrare questa tendenza: anzi, in alcuni si è verificato il trend inverso, ma i candidati democratici hanno continuato a restare dietro in Arizona (AZ02) e Florida (FL27), due distretti dove gli uscenti (incumbent) erano Democratici. Tutto ciò dimostra quantomeno come non vi sia stata una blue wave: al contrario, la vicenda Kavanaugh potrebbe aver causato una piccola red wave, perlomeno in alcuni degli Stati più incerti.

 

2. Il dato degli Early voters

In questi giorni si è assistito ad un record di elettori in almeno 27 Stati, che sono andati a votare prima dell’Election Day: si tratta dei cosiddetti “early voters”.

La motivazione dietro questa massiccia mobilitazione anticipata sarà molto probabilmente decisiva per l’esito finale: se essa è spinta dal desiderio di opposizione a Trump, avremo una vera e propria blue wave; se invece è il risultato di un moto di appartenenza causato da quanto accaduto nell’ambito della nomina di Kavanaugh, ci possiamo aspettare una tenuta migliore del previsto del GOP in stati quali Indiana, Missouri, Montana, North Dakota, Tennessee e West Virginia. Qui un’alta affluenza potrebbe favorire il partito del Presidente, dato che si tratta di stati nei quali gli elettori repubblicani sono la maggioranza. Ma l’effetto si potrebbe sentire anche in Nevada, Arizona e Florida. Negli ultimi due casi, i dati che arrivano dagli early voters ci dicono che gli elettori repubblicani hanno superato quelli democratici: un evento quantomeno insolito, poiché di norma sono gli elettori democratici a prevalere tra coloro che votano nei giorni precedenti l’Election Day.

Per quanto riguarda il Nevada, secondo la stima pubblicata da NBC è l’unico Stato cruciale per il Senato nel quale gli early voters democratici superano quelli repubblicani: ma nel voto anticipato questi ultimi guadagnano, rispetto alle elezioni precedenti, il 3%, più del margine (2,4%) con il quale i Democratici vinsero nel 2016. Se la partecipazione all’Election Day sarà dunque simile a quella delle Presidenziali, i Repubblicani potrebbero vincere anche in questo Stato.

Il fatto che in questa occasione i Repubblicani siano davanti negli early voters fa quantomeno allontanare le voci di una blue wave. I dati relativi a Indiana, Montana, Tennessee e Texas. sembrerebbero confermare questa ipotesi. Certo, potrebbero essere “semplicemente” voti anticipati, senza un nesso diretto con quello che sarà il risultato finale. Ma il dato lascia intendere un entusiasmo tra l’elettorato GOP che potrebbe garantire a Trump la vittoria negli Stati dove i repubblicani sono più numerosi, per una semplice ragione matematica. In caso di vittoria, i Democratici avranno quindi compiuto un difficile – e, in molti casi, inedito – recupero.

 

3. Il Senato spinge la Camera?

Nel caso in cui i Repubblicani al Senato dovessero riuscire a vincere in Texas, Tennessee, Nevada, North Dakota, Missouri, Arizona, Florida e Indiana, (vincendo per 55 a 45 nel computo dei seggi) è possibile che si verifichi un effetto di “spinta” anche solo parziale a favore dei candidati GOP nei distretti della Camera di quegli stessi Stati. In particolar modo tale dinamica si potrebbe registrare nei distretti toss up (TX07, TX23, TX31, TX32, NV03, NV04, MO02, AZ02, FL15, Fl16, FL18, FL27 e FL26 – quest’ultimo particolarmente fondamentale poiché è uscente GOP ma ora sembra essere destinato passare ai democratici). Tuttavia, una forte affluenza alle urne degli elettori repubblicani potrebbe spostare l’ago della bilancia a favore del GOP in questi distretti e regalare a Trump un importantissimo “pacchetto” di seggi alla Camera.

La mappa del best case scenario per i Repubblicani al Senato

In effetti, le proiezioni mostrano una situazione comunque incerta per quanto riguarda la Camera: una maggioranza Democratica è probabile, ma tutt’altro che scontata. Anzi, attenendoci agli ultimi sondaggi ed assegnando i distretti più incerti sulla base della direzione del trend, ovvero dell’andamento dei candidati nei sondaggi, emerge che chiunque otterrà la maggioranza alla Camera lo farà per pochi seggi.

4. Le midterm passate

C’è un dato storico molto interessante: dal 1934, il partito del Presidente in carica che ha guadagnato almeno 2 seggi al Senato alle elezioni di midterm, non ne ha persi mai più di 12 alla Camera (tanti ne perse Nixon nel 1970). George W. Bush nel 2002 guadagnò 2 seggi al Senato ma anche 8 alla Camera e John F. Kennedy nel 1962 ne guadagnò 3 al Senato perdendone solo 4 alla Camera. Proprio nel 1934, Franklin D. Roosevelt aumentò i seggi sia alla Camera sia al Senato di 9 unità. Oggi, Trump potrebbe guadagnare 2 (o addirittura 3) seggi al Senato, ma la storia delle midterm gli lascia comunque qualche speranza per la Camera: Ronald Reagan nel 1982 guadagnò un solo senatore e perse 26 rappresentanti alla Camera (con gli stessi numeri, Trump perderebbe la maggioranza alla Camera per soli 3 seggi); nel 1998 invece Bill Clinton mantenne inalterato il numero dei senatori vedendo crescere di 5 unità il numero dei membri democratici della Camera.

Insomma, ad un buon risultato al Senato sembra corrispondere una certa tenuta alla Camera, e per Trump – che in quest’ultimo ramo può contare su un margine di 23 deputati di maggioranza – è un buon indicatore. Sempre dal 1934, solo in 5 midterms il Presidente in carica ha perso la maggioranza: Truman, Eisenhower e Clinton la persero in entrambe le camere durante il loro primo mandato, a Bush jr successe lo stesso ma durante il secondo mandato e infine Obama la perse soltanto alla Camera durante il primo mandato. Negli altri casi, il partito del Presidente o ha mantenuto la maggioranza i entrambi i rami o partiva già con un Congresso a lui contrario. Quello che potrebbe succedere a Trump in effetti è la stessa cosa capitata a Obama nel 2010, ma con i partiti all’inverso (stavolta sarebbero i Repubblicani a mantenere il Senato ma perdendo la Camera).

5. Shy Tory Factor

Un ultimo elemento che potrebbe essere stato finora sottovalutato è il cosiddetto Shy Tory Factor: ossia quel fenomeno per cui gli elettori che scelgono alla fine i candidati più di destra tendono a “nascondersi” quando vengono interpellati dai sondaggisti. Anche tenendo conto dell’elevato numero di elettori repubblicani negli early vote e di quanti sono i distretti della Camera considerati incerti per 1-2 punti percentuali, è possibile che questo fattore (la cui incidenza nelle elezioni 2016 è in realtà controversa) contribuisca al mantenimento di entrambe le camere del Congresso da parte di Donald Trump, un Presidente estremamente polarizzante e che di conseguenza potrebbe rendere più “timidi” i suoi elettori nel manifestare il proprio orientamento di voto – ma non nell’esercitarlo.

Alessio Ercoli

Laureato in Scienze politiche e delle relazioni internazionali all'Università della Valle d'Aosta, studente Erasmus+ presso l'Universitat de Barcelona (2015). Specializzato in analisi politica e geopolitica, appassionato di sistemi di partito e campagne elettorali. Ma anche attivista politico e campaign strategist.

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