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PD: 11 anni di alti e bassi

PD: 11 anni di alti e bassi

È il 14 ottobre 2007, esattamente undici anni fa, quando dalla fusione tra i Democratici di Sinistra e la Margherita nasce il Partito Democratico. A distanza di poco più di un decennio il soggetto politico che doveva fungere da punto di riferimento e da catalizzatore dei voti di tutto il centrosinistra italiano sta vivendo una profonda crisi: non la prima, ma probabilmente la più significativa e traumatica della sua storia. Una storia che, politicamente parlando, sembra risalire ad ere geologiche fa. Anche se sono passati solo 11 anni.

Veltroni e la vocazione maggioritaria

L’epoca originaria del PD è quella del bipolarismo puro: al governo c’è l’Unione di Romano Prodi, che può contare su una risicatissima maggioranza, ottenuta dopo un’altrettanto risicata vittoria nel 2006 contro il centrodestra di Silvio Berlusconi. A vincere le primarie fondative per l’elezione del segretario (che per lo statuto del neonato partito è automaticamente il candidato premier alle elezioni) è Walter Veltroni, che sconfigge nettamente Rosy Bindi ed Enrico Letta con oltre 2 milioni e 690 mila voti su circa 3 milioni 550 mila elettori. Si tratta di una grande festa di partecipazione, e di un risultato che il PD non riuscirà mai più a raggiungere in futuro.

L’idea di Veltroni è quella di un partito a “vocazione maggioritaria” che competa alle elezioni da solo, senza alleati. L’opposto in pratica di quando aveva fatto Prodi, il cui governo era sostenuto da una miriade di piccoli partiti. Poco sorprendentemente, pochi mesi dopo (il 24 gennaio 2008) il governo Prodi cade quando uno di questi, l’Udeur di Clemente Mastella, gli toglie la fiducia. Il PD affronta le prime elezioni politiche della sua storia con Veltroni come candidato premier e la sola Italia dei Valori di Antonio Di Pietro come alleato in coalizione.

La sconfitta contro il neonato PDL berlusconiano e la Lega Nord è netta: il Partito Democratico ottiene il 33,2% contro il 37,9% del PDL. La coalizione di centrodestra arriva fino al 46,8% contro il 37,5% del centrosinistra. Paradossalmente però gli oltre 12 milioni di voti raccolti da Veltroni  rimarranno un risultato, in termini assoluti, mai più eguagliato dal partito.

Il PD inizia una legislatura di opposizione, ma sin da subito emergono difficoltà e dissidi interni, che saranno una costante del decennio a venire. Nel febbraio 2009 Renato Soru, governatore uscente della Regione Sardegna e esponente di punta, viene sconfitto alle elezioni regionali dal candidato del PDL Ugo Cappellacci: Soru ottiene il 42,9% dei voti contro il 51,8% del suo avversario. La sconfitta in Sardegna è l’ultima di una serie (provinciali siciliane, regionali in Abruzzo) e Veltroni decide così di dimettersi, dopo le tante critiche interne ricevute nei mesi precedenti per l’idea della vocazione maggioritaria e per aver rotto i ponti con la sinistra più radicale. A succedergli è Dario Franceschini, suo vice, che viene eletto segretario tramite il voto dell’assemblea nazionale del partito. Alle Europee di giugno il risultato è però già scritto: il PDL si riconferma primo partito  mentre il Pd scende sotto gli 8 milioni di voti, fermandosi al 26,1% – quasi 10 punti in meno rispetto a Berlusconi.

Il Pd di Bersani: giaguari, ‘non vittorie’ e franchi tiratori

La leadership del partito passa nuovamente di mano il 25 ottobre di quello stesso anno, quando alle primarie Pierluigi Bersani ottiene il 53,4% dei voti, superando lo stesso Franceschini ed Ignazio Marino. La partecipazione popolare non manca, con oltre 3 milioni di elettori del partito che vanno ad esprimersi ai ‘gazebo’. Sotto la guida di Bersani il PD lentamente risale nei consensi e torna a riavvicinarsi agli ‘alleati storici’: l’IDV e la sinistra di SEL, guidata dall’ex PRC (e governatore della Puglia) Nichi Vendola.

Le elezioni amministrative del 2011 segnano un trionfo per il centrosinistra, che si aggiudica tutti i comuni più importanti e sette delle undici province in cui si vota. Nelle vittorie clamorose di Milano e Cagliari i democratici si ritrovano a sostenere candidati di SEL (Pisapia e Zedda), usciti vincitori dalle primarie di coalizione. Ma è soprattutto il successo dei referendum abrogativi (su acqua, nucleare e legittimo impedimento) per la prima volta dopo tanti anni a segnalare la crescente voglia di cambiamento degli italiani.

Il Paese però inizia a subire pesantemente i danni della crisi economica e finanziaria: con uno spread che tocca quota 550 punti ed il concreto rischio di default, a metà novembre il Governo Berlusconi è di fatto costretto a dimettersi. Nasce così il Governo di Mario Monti, un esecutivo di soli tecnici, sostenuto dalla quasi totalità del Parlamento, PD compreso. Restano all’opposizione solo la Lega Nord e l’IDV.

In vista delle elezioni politiche del 2013 la leadership di Bersani, che in quanto segretario dovrebbe essere automaticamente il candidato del PD alle primarie di coalizione, viene contestata: emerge per la prima volta a livello nazionale la figura di Matteo Renzi, all’epoca sindaco PD di Firenze. Quella del 2012 è la più equilibrata delle sfide interne disputate da PD e centrosinistra ed è il primo segnale di una nuova spaccatura all’interno del partito, destinata a diventare sempre più profonda negli anni successivi. Al primo turno partecipano, ancora una volta, oltre 3 milioni di persone: Bersani e Renzi vanno al ballottaggio, nel quale il segretario sconfigge il giovane sfidante con il 60,1% dei voti.

Il 2013 sembra l’anno giusto perché il PD possa finalmente ‘smacchiare il giaguaro’, ma inaspettatamente le elezioni terminano con una sostanziale ‘non vittoria’. I democratici conquistano 8 milioni e 600 mila voti, perdendone circa 3 milioni e mezzo rispetto al 2008. Il PD viene addirittura superato di misura dal Movimento 5 Stelle, che ottiene un inaspettato exploit alla sua prima prova elettorale nazionale.

Anche a livello di coalizione il centrosinistra non brilla: alla Camera ottiene la maggioranza assoluta dei seggi grazie al premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale (che sarà dichiarato incostituzionale solo a dicembre di quello stesso anno), nonostante abbia appena lo 0,4% dei voti in più del centrodestra. Al Senato invece il centrosinistra rimane ben lontano dalla maggioranza, persino allargandosi ai centristi di Scelta Civica (il partito di Monti nato a poche settimane dalle elezioni).

Incapace di trovare un accordo con il M5S, Bersani finisce sotto accusa, e la crisi interna al partito esplode fragorosamente in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica che dovrà succedere a Giorgio Napolitano: i candidati ufficiali del PD, prima Franco Marini e poi Romano Prodi, vengono affondati da ‘franchi tiratori’ interni. Con la situazione ormai fuori controllo Bersani appoggia la rielezione di Napolitano, che avviene, e poi si dimette da segretario.

L’era del renzismo: dal trionfo alla rovina

La crisi si conclude con la nascita del governo di Enrico Letta, sostenuto da una maggioranza di larghe intese composta da PD, PDL e Scelta Civica. All’interno del partito però la rivoluzione è appena iniziata: dopo una breve reggenza affidata a Guglielmo Epifani, l’8 dicembre 2013 Matteo Renzi conquista la segreteria del PD. La partecipazione è pressoché identica a quella che aveva incoronato Bersani al ballottaggio di un anno prima: votano 2 milioni e 810 mila persone e Renzi vince su Gianni Cuperlo e Pippo Civati con il 67,5% dei voti. Sin dal primo giorno però è chiaro che la direzione impressa dall’ex sindaco di Firenze al partito è conflittuale con quella di Enrico Letta.

Dopo settimane passate a pungolare il premier, la direzione del PD a guida renziana “sfiducia” Letta, che si dimette il 14 febbraio 2014. Incaricato da Napolitano, Renzi forma il nuovo governo, non più “a termine” (Letta si era posto un orizzonte di 18 mesi) bensì “di legislatura”: il nuovo premier punta ad attuare un ampio programma di riforme, in primis quelle istituzionali: la nuova legge elettorale e la riforma costituzionale sono il frutto di un accordo con Silvio Berlusconi, il cosiddetto Patto del Nazareno, che tuttavia avrà vita breve.

A gennaio 2015, con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Berlusconi e Forza Italia interrompono la collaborazione sulle riforme. Lo stile di leadership mostrato da Renzi, sia pure criticato all’interno del partito, inizialmente piace molto agli elettori: alle Europee del 25 maggio 2014 il PD ottiene un successo travolgente, conquistando oltre 11 milioni e 200 mila voti, miglior risultato di sempre per il partito dai tempi di Veltroni. Il 40,8% ottenuto fa del PD non solo il partito più votato d’Italia (staccando di quasi 20 punti il M5S) ma anche d’Europa. Da questo momento, però, inizia la parabola discendente del renzismo, ostacolato soprattutto dagli scontri continui con la minoranza interna che generano diverse scissioni e finiscono per logorare pesantemente esponenti ed elettori del partito.

Il colpo di grazia al Governo Renzi arriva con il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La campagna referendaria si era trasforma in un dibattito sul governo e sulla persona di Matteo Renzi e il premier ne esce completamente sconfitto: la riforma viene bocciata con il 59,1% dei voti e il segretario rassegna le dimissioni da Palazzo Chigi. L’ennesima crisi del PD, già evidenziata qualche mese prima con alcune pesanti sconfitte nelle elezioni amministrative (su tutte Roma e Torino, entrambe conquistate dal Movimento 5 Stelle), diventa così conclamata. Alla guida del governo succede a Renzi il suo Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Il 30 aprile 2017 Renzi si riconferma segretario rivincendo le primarie, ma al voto si recano solo 1 milione 838 mila persone.

Nell’anno che segue continua il logoramento del PD, indebolito dalla scissione di MDP (in cui confluisce tra gli altri l’ex segretario Bersani) e sotto il fuoco incrociato delle opposizioni, su tutti del M5S e della Lega di Salvini. Le previsioni per le elezioni del 4 marzo 2018 non sono positive, ma la realtà si rivela peggiore di qualsiasi sondaggio: il PD scende sotto il 19% e raccoglie poco più di 6 milioni di voti, 4 milioni e mezzo in meno del Movimento 5 Stelle e 5 milioni in meno rispetto alle Europee 2014. Questa volta Renzi si dimette anche dalla segreteria, che passa (anche qui, come per Franceschini nel 2009, con una votazione dell’Assemblea Nazionale del partito) a Maurizio Martina, che poi si dimetterà a novembre, aprendo la strada ad un Congresso che sarà fondamentale per il partito.

Arriviamo così alla situazione attuale, nella quale la stessa esistenza del partito diventa oggetto di dibattito; che nelle intenzioni di voto si attesta poco oltre il 17%; e che, nel 2019, dovrà affrontare nuove primarie per scegliere il proprio segretario e soprattutto le elezioni regionali ed europee. Una nuova occasione per provare a ripartire da zero. Forse l’ultima.

Matteo Senatore

Sono un ragazzo torinese laureato in Comunicazione Pubblica e Politica. Gran chiacchierone, da sempre amante dello sport, delle campagne elettorali e del cinema. Mi illudo ancora che la legge elettorale debba rappresentare le regole del gioco più profonde di un paese.

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