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Parte il semestre europeo, ma chi segue le raccomandazioni europee?

Parte il semestre europeo, ma chi segue le raccomandazioni europee?

“L’Europa è tornata a crescere”, “il peggio è passato”, “ripresa, ci siamo!”. A questi mantra molto in voga, fa eco la stessa Unione Europea al lancio del “pacchetto autunnale”: la prima tappa del Semestre Europeo. Dal 2011, la data d’inizio è fissata al 22 novembre, una data rispettata in modo quasi sacrale. Al contrario, il percorso che si sviluppa nei mesi successivi viene alquanto “demonizzato”: sarà un tiro alla fune fra stati membri e Commissione Europea a botte di 0,2%, tagli alla spesa, sforamenti di bilancio e lettere da Bruxelles.

Più in generale: che cos’è questo semestre europeo? Quali sono le raccomandazioni dell’Unione Europea per l’anno venturo? E soprattutto, qualcuno segue queste raccomandazioni? Proviamo a rispondere.

Semestre Europeo, il nome è fuorviante

Sì, perché non si tratta di sei mesi e questa infografica ci aiuta a capire perché.

Dalla pubblicazione del “pacchetto autunnale”, a novembre, all’approvazione delle Leggi di Stabilità nazionali da parte della Commissione, nell’ottobre successivo, si segue un calendario preciso che dura, di fatto, un anno. Per una descrizione (allo stesso tempo semplice e precisa) delle varie fasi rimandiamo ai siti istituzionali.

Il Semestre Europeo è un meccanismo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dei paesi dell’Unione Europea. Nella sua essenza, questo ciclo annuale ha una funzione di sorveglianza e poggia su due pilastri principali: da un lato il controllo dei conti pubblici, sulla base del Patto di Stabilità e Crescita (ne abbiamo parlato qualche mese fa qui); dall’altro, la prevenzione di potenziali squilibri macroeconomici che potrebbero avere ricadute su altri paesi; quest’ultima si fonda su uno schema chiamato – senza troppa fantasia – Procedura per gli Squilibri Macroeconomici.

La Commissione comincia redigendo, in autunno, un’analisi sulla situazione economica dell’Unione e della zona euro, e sulle politiche da adottare nei mesi successivi. Su questa base di lavoro, con l’inizio del nuovo anno la Commissione intrattiene un dialogo stretto con gli stati membri per individuare le possibili criticità e stabilire i rimedi. Ad aprile gli stati membri sono tenuti a presentare i loro programmi di stabilità e di convergenza e i programmi nazionali di riforma, che sono collegati ai due pilastri citati nel paragrafo precedente (rispettivamente su bilancio e prevenzione degli squilibri).

Questo percorso conduce alle famose raccomandazioni specifiche per paese, approvate dal Consiglio nel mese di giugno, che vedremo meglio più avanti.

Cosa c’è quest’anno nel pacchetto autunnale?

Non certo dei regali, ma il messaggio è positivo. Come sempre, il pacchetto contiene l’analisi annuale della crescita e la relazione sul meccanismo di allerta. La prima illustra le priorità politiche dell’Unione per l’anno successivo. La seconda analizza gli sviluppi macroeconomici per ogni paese. In altre parole, la relazione valuta, indirettamente, se gli stati membri hanno rispettato gli impegni presi: “Se ci sono squilibri, significa che i compiti non sono stati fatti”, è il ragionamento. In più, per la prima volta quest’anno, è stata inserita una dashboard di 12 indicatori che misurano l’inclusione e la protezione sociale nei vari paesi membri.

Passando ai contenuti: il quadro descritto nel 2017 è piuttosto roseo, a livello aggregato. Otto milioni di posti di lavoro creati, di cui 5,5 nella zona euro, e finanze pubbliche in miglioramento, segno che le politiche adottate stanno dando i loro frutti. D’altro canto, persistono squilibri macroeconomici in 12 paesi, per i quali la Commissione procederà ad un’analisi approfondita: certo, ci siamo noi italiani, ma anche Francia e Germania. E per il prossimo anno gli orientamenti sono più o meno gli stessi: disciplina fiscale, rilancio degli investimenti e adozione di riforme strutturali.

Ma che cosa sono queste riforme strutturali, tanto citate quanto poco spiegate? Si tratta di riforme volte a migliorare il business environment che, in ultima istanza, genereranno crescita. La logica è la seguente: rendere più attrattivo il sistema paese al fine di accomodare maggiori investimenti privati. Anche qui, la ricetta non cambia: semplificare il regime fiscale, rendere più efficiente la pubblica amministrazione e meno rigido il mercato del lavoro (obiettivi che dovrebbero suonare familiari a chi ha promosso riforma Madia e Jobs Act).

Chi segue le indicazioni dell’UE?

Il think-tank del Parlamento Europeo ha stilato uno studio per verificare l’implementazione delle riforme contenute nelle raccomandazioni specifiche per paese fra il 2014 e il 2016. In breve: gli studenti non sono così diligenti come dicono di essere.

Secondo le auto-valutazioni degli stati membri, ben il 94% delle disposizioni concordate dal Consiglio sono in fase d’implementazione. Andando più nel dettaglio, però, solo in un quinto dei casi l’implementazione è stata completata. In ben 79 casi su 106 le riforme vorticano ancora nel policy cycle. Addirittura in 4 casi, in Svezia e Polonia, i governi non hanno nemmeno pianificato alcuna misura implementativa.

La Commissione ha dei numeri diversi. Ma ottenuti utilizzando un’altra griglia di valutazione, il che rende difficile la comparazione.

Solo in 4 casi la Commissione ha appurato “progressi sostanziali”, contro i 21 nei quali le riforme erano auto-dichiarate completate. Aggregando i “progressi sostanziali” con “qualche progresso” ne vien fuori una classe di studenti un po’ altalenante. Almeno 4 paesi (Germania, Polonia, Svezia e Austria) sui 12 esaminati “non si applicano abbastanza”.

Proviamo a dare un senso a questi numeri. Lo studio rivela una correlazione degna di nota, e non di tipo geografico: i tre paesi più diligenti (Spagna, Irlanda e Regno Unito) sono stati recentemente soggetti alla Procedura di Deficit Eccessivo, che impone misure aggiuntive per rientrare nei parametri del Patto di Stabilità e Crescita. Il quarto, l’Italia, ha ricevuto in questi anni ingenti finanziamenti dalla Banca Europea degli Investimenti. Situazioni economiche e di bilancio difficili e assistenza finanziaria darebbero una “spinta” alle raccomandazioni specifiche per paese. Se si considera che i più refrattari (Germania, Svezia e Austria) sono economie forti, con l’eccezione della Polonia, si tratta di un’ipotesi più che probabile.

I più attenti avranno notato che i casi in esame sono scesi da 106 a 98. I numeri sono estrapolati dalle relazioni per paese, documento pubblicato a marzo dalla Commissione che contiene esami approfonditi degli squilibri macroeconomici. Le misure legate al rispetto del Patto di Stabilità e Crescita, le 8 mancanti, invece, non sono contenute nelle “relazioni per paese”, ma nell’analisi dei programmi nazionali di stabilità, rilasciata dalla Commissione a maggio. Per chi se lo stesse chiedendo, sì: il semestre europeo è molto complicato.

Le critiche al semestre europeo

Per alcuni è uno strumento per imporre consolidamenti fiscali e, in ultimo, per veicolare riforme neoliberali. Per altri è un’invasione della sovranità nazionale. Per altri ancora è un meccanismo inefficace e poco credibile per via della complessità delle regole e dell’arbitrarietà politica delle decisioni.

Quel che è certo è che il semestre europeo paga le conseguenze del suo essere nato in una fase a dir poco turbolenta (correva l’anno 2011). Un compromesso fra paesi in asimmetriche posizioni di bilancio e, quindi con una diversa distribuzione di potere, in un momento di forte pressione dei mercati. Una fase di estrema urgenza che necessitava strumenti di gestione della crisi. Finché l’integrazione europea avanza per soluzioni figlie delle crisi, non possiamo aspettarci molto di più.

Guido Boccardo

Torinese. Laureato presso il Collegio d'Europa di Bruges. All'Università ha girato fra Italia, Svezia, Francia e Belgio. Innamorato del Toro, non sempre corrisposto. Si consola con i baci di dama.
Scrivo perlopiù sull'Unione Europea, direttamente da Bruxelles dove lavoro come policy adviser.

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