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Le motivazioni della sentenza della Consulta sull’Italicum – TESTO INTEGRALE

Le motivazioni della sentenza della Consulta sull’Italicum – TESTO INTEGRALE

Pubblichiamo di seguito il testo integrale delle motivazioni della sentenza n° 35/2017 della Corte Costituzionale con cui è stata dichiarata l’illegittimità di alcune parti della legge elettorale “Italicum”.


SENTENZA N. 35 ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 18­bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, 83­bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), 84, commi 1, 2 e 4, e 85 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come sostituiti, modificati e/o aggiunti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 1, 10, lettera c), 11, 25, 26 e 27 della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati); degli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), come novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); e degli artt. 1, comma 1, lettere a), d), e), f) e g), e 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, promossi dai Tribunali ordinari di Messina, Torino, Perugia, Trieste e Genova con ordinanze, rispettivamente, del 17 febbraio, del 5 luglio, del 6 settembre, del 5 ottobre e del 16 novembre 2016, iscritte ai nn. 69, 163, 192, 265 e 268 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 14, 30, 41 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti gli atti di costituzione di V.P. e altri, di L.P.C. e altri, di M.V. e altri, di F.S. e altri, e di S.A. e altri, nonché gli atti di intervento di F.C.B. e altri, di C.T. e altri, di S.M., di F.D.M. e altro (intervenuti nel giudizio iscritto al n. 163 del registro ordinanze 2016 con due atti, il primo nei termini e il secondo fuori termine), del Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori) e altro (intervenuti nei termini nei giudizi iscritti ai nn. 265 e 268 del registro ordinanze 2016, e fuori termine nei giudizi iscritti ai nn. 69 e 163 del registro ordinanze 2016), di V.P., di E.P. e altra, di M.M. ed altri e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi gli avvocati Enzo Paolini per E.P. e altra, per F.C.B. e altri, per S.M. e per V.P., Claudio Tani per C.T. e altri, Carlo Rienzi per il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori) e altro, Vincenzo Palumbo e Giuseppe Bozzi per V.P. e altri, Roberto Lamacchia per L.P.C. e altri, Michele Ricciardi per M.V. e altri, Felice Carlo Besostri per F.S. e altri e per S.A. e altri, Lorenzo Acquarone e Vincenzo Paolillo per S.A. e altri, e gli avvocati dello Stato Paolo Grasso e Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 17 febbraio 2016 (reg. ord. n. 69 del 2016), il Tribunale ordinario di Messina ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati) e degli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), questi ultimi come modificati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 48, secondo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, della Costituzione, e dell’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848; dell’art. 1, comma 1, lettere a), d) e e), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione dell’art. 56, primo e quarto comma, Cost.; dell’art. 1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 18­bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati e/o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 56, primo e quarto comma, Cost.; degli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del d.lgs. 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), come novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.; e dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost.

1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702­bis del codice di procedura civile da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali del Comune di Messina, i quali hanno convenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, affinché sia riconosciuto e dichiarato «il loro diritto soggettivo di elettorato, per partecipare personalmente, liberamente e direttamente, in un sistema istituzionale di democrazia parlamentare, con metodo democratico ed in condizioni di libertà ed eguaglianza, alla vita politica della Nazione, nel legittimo esercizio della loro quota di sovranità popolare, così come previsto e garantito dagli artt. 1, 2, 3, 24, 48, 49, 51, 56, 71, 92, 111, 113, 117, 138 Cost. e dagli artt. 13 CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo), 3 Protocollo CEDU, entrambi ratificati in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848»; affinché sia riconosciuto e dichiarato che l’applicazione della legge n. 52 del 2015 «risulta gravemente lesiva dei loro diritti come sopra indicati, ponendosi in contrasto con le superiori disposizioni costituzionali»; e, di conseguenza, affinché il giudice adito disponga «la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale».

1.2.– In via preliminare, il Tribunale ordinario di Messina rigetta le eccezioni sollevate nel giudizio a quo dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, secondo la quale l’azione promossa dai cittadini elettori avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per carenza di interesse ad agire, in quanto non sarebbero state ancora indette le elezioni politiche e non vi sarebbe un’imminente competizione elettorale nella quale esercitare il diritto di voto che i ricorrenti assumono leso dalle disposizioni censurate, le quali ultime, peraltro, «entreranno in vigore dal 1° luglio 2016».

Il giudice a quo, sul punto, dichiara di condividere l’orientamento dalla Corte di cassazione, la quale avrebbe affermato che l’espressione del diritto di voto «rappresenta l’oggetto di un diritto inviolabile e “permanente”, il cui esercizio da parte dei cittadini può avvenire in qualunque momento» (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 17 maggio 2013, n. 12060). Pur riconoscendo che, in quell’occasione, la decisione della Corte di cassazione riguardava un ricorso proposto da un cittadino elettore in relazione ad elezioni politiche già svolte, il giudice rimettente afferma di aderire alle argomentazioni dei ricorrenti, i quali hanno sostenuto che l’indagine sulla meritevolezza dell’interesse ad agire non costituisce un parametro valutativo ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ.; che, ai fini della proponibilità delle azioni di mero accertamento, o, come nel caso in esame, costitutive o di accertamento­costitutive, sarebbe «sufficiente l’esistenza di uno stato di dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte negoziale o anche legale, in quanto tale idonea a provocare un ingiusto pregiudizio non evitabile se non per il tramite del richiesto accertamento giudiziale della concreta volontà della legge, senza che sia necessaria l’attualità della lesione di un diritto» (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione seconda civile, 26 maggio 2008, n. 13556; sezione lavoro, 21 febbraio 2008, n. 4496; sezione seconda civile, 29 maggio 1976, n. 1952; sezione prima civile, 12 agosto 1966, n. 2209); che l’espressione del voto costituisce oggetto di un diritto inviolabile e «permanente» dei cittadini, i quali possono essere chiamati ad esercitarlo in ogni momento e, pertanto, lo stato di incertezza al riguardo costituisce un pregiudizio concreto, di per sé sufficiente a giustificare la sussistenza dell’interesse ad agire; che, infine, subordinare la proponibilità dell’azione «al verificarsi di condizioni non previste dalla legge (come, ad esempio, la convocazione dei comizi elettorali)» determinerebbe la lesione dei parametri costituzionali che garantiscono l’effettività e la tempestività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113, secondo comma, Cost.). Il giudice a quo ricorda, inoltre, la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, con la quale sono state dichiarate ammissibili questioni di legittimità costituzionale relative a «normativa elettorale non conforme ai principi costituzionali, indipendentemente da atti applicativi della stessa, in quanto già l’incertezza sulla portata del diritto costituisce una lesione giuridicamente rilevante», e osserva come, nella medesima pronuncia, l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sarebbe stata dettata dall’esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi che definiscono le regole della composizione della Camera e del Senato.

Secondo il rimettente non potrebbe, invece, invocarsi – a sostegno della soluzione opposta – la sentenza della Corte costituzionale n. 110 del 2015, con la quale sono state dichiarate inammissibili questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni che regolano l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo in relazione «a future consultazioni»: la Corte costituzionale, infatti, in quella pronuncia, avrebbe sottolineato come solo la disciplina elettorale per il rinnovo della Camera e del Senato ricadano, in ragione del controllo riservato dall’art. 66 Cost. alle Camere stesse, in una zona franca sottratta al sindacato di costituzionalità.

Per tali ragioni, il Tribunale ordinario di Messina ritiene sussistente l’interesse ad agire dei ricorrenti.

1.3.– Sempre preliminarmente, il rimettente motiva sulla sussistenza della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate ai fini della definizione del giudizio principale, argomentando che nel giudizio principale sarebbe individuabile un petitum separato, distinto e più ampio rispetto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate: spetterebbe, infatti, al giudice a quo la verifica delle altre condizioni da cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto e, inoltre, non vi sarebbe neppure coincidenza tra il dispositivo della sentenza costituzionale e quello della sentenza che definisce il giudizio di merito, la quale ultima, accertata l’avvenuta lesione del diritto azionato, lo ripristina nella pienezza della sua espansione, seppure per il tramite della sentenza costituzionale.

1.4.– Nel merito, il Tribunale ordinario di Messina, dopo aver ampiamente illustrato le ragioni per le quali ritiene di non condividere parte delle doglianze prospettate dalle parti, solleva plurime questioni di legittimità costituzionale.

Con la prima censura, il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come modificati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, in riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 48, secondo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., e all’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Dopo aver ricordato quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014, il rimettente premette di non dubitare della conformità a Costituzione – e, in particolare, al principio di eguaglianza del voto garantito dall’art. 48, secondo comma, Cost., il quale richiede che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi – della previsione di un premio di maggioranza alla lista che ottenga la percentuale prescritta del 40 per cento dei voti al primo turno, trattandosi, a suo avviso, di una soglia che, nell’ambito della discrezionalità politica del legislatore, non rende intollerabile la cosiddetta disproporzionalità tra voti espressi e seggi attribuiti.

Dubita, invece, il rimettente che le disposizioni censurate contrastino con l’evocato parametro costituzionale, in quanto non prevedono «un necessario rapporto tra voti ottenuti rispetto non già ai voti validi, ma al complesso degli aventi diritto al voto (una sorta di quorum di votanti), unitamente al fatto che il premio di maggioranza operi anche in caso di ballottaggio (che andrebbe comunque considerato come una nuova votazione tra due sole liste, diverse dalla precedente, nella quale è necessario che la lista vincente prenda almeno il 50,01% dei voti rispetto alla lista concorrente) e che vi sia la clausola di sbarramento al 3%». Il premio di maggioranza, così attribuito, finirebbe – secondo il rimettente – per «liberare le decisioni della più forte minoranza da ogni controllo dell’elettorato».

Il Tribunale ordinario di Messina specifica, infine, di dubitare della legittimità costituzionale dell’introduzione di una clausola di sbarramento per l’accesso al riparto dei seggi, pur in presenza di un premio di maggioranza «a sua volta tendente a sovra­rappresentare il partito con più voti», e ciò sebbene l’introduzione di soglie di sbarramento costituisca una scelta riservata alla discrezionalità politica del legislatore e la percentuale prevista dalla legge n. 52 del 2015 non sia, di per sé, né troppo bassa, né eccessivamente elevata (è menzionata, sul punto, la sentenza della Corte costituzionale n. 193 del 2015).

1.5.– Il medesimo Tribunale solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere a), d) e e), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione dell’art. 56, primo e quarto comma, Cost.

Il rimettente premette che la legge n. 52 del 2015 suddivide il territorio nazionale in venti circoscrizioni territoriali, a loro volta ripartite in cento collegi plurinominali (fatti salvi i collegi uninominali nelle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino ­ Alto Adige), e che, «nel contesto di un complesso meccanismo di calcolo da parte dell’Ufficio centrale nazionale», nel caso in cui una lista abbia esaurito in una circoscrizione il numero dei candidati potenzialmente eleggibili, i seggi spettanti a quella circoscrizione «carente» vengono trasferiti ad altra circoscrizione in cui vi siano candidati «eccedentari», eleggibili in virtù del trasferimento di seggi.

A suo avviso, tale meccanismo violerebbe il principio di rappresentatività territoriale che l’art. 56 Cost. «delinea con riguardo al rapporto tra i seggi da distribuire e la popolazione di ogni circoscrizione». Il rimettente assume, infatti, che le disposizioni censurate, nel consentire la traslazione dei voti utili per l’elezione da una circoscrizione, che risulti carente di candidati, ad un’altra, che risulti eccedentaria, si porrebbero in contrasto «con il principio di rappresentatività e responsabilità dell’eletto rispetto agli elettori che lo hanno espresso».

1.6.– La terza questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Messina ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015, e gli artt. 18­bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati e/o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo comma, 51, primo comma, e 56, primo e quarto comma, Cost.

Ricorda, anzitutto, il rimettente la sentenza n. 1 del 2014, con la quale la Corte costituzionale avrebbe dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che prevedevano le liste bloccate, poiché esse non avrebbero consentito «all’elettore di esprimere alcuna preferenza al fine di determinare l’elezione, ma solo di scegliere una lista di partito, cui era rimessa la designazione e la collocazione in lista di tutti i candidati», e, dunque, quel sistema avrebbe reso «il voto sostanzialmente “indiretto”, e, quindi, né libero, né personale, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.».

Osserva, quindi, che le disposizioni censurate prevedono, da un lato, circoscrizioni «relativamente piccole» e, dall’altro, un sistema misto, «in parte blindato ed in parte preferenziale», costituito da «liste bloccate solo per una parte dei seggi», ossia solo per i capilista nei cento collegi plurinominali, mentre gli altri candidati sono scelti con il voto di preferenza.

Ciò premesso, il rimettente osserva che se, «[d]i per sé», tali norme potrebbero ritenersi coerenti con le indicazioni della Corte costituzionale, residua tuttavia il dubbio «che possa concretamente realizzarsi per le forze di opposizione (rectius: minoritarie) un effetto distorsivo dovuto alla rappresentanza parlamentare largamente dominata da capilista bloccati, pur se con il correttivo della multicandidatura, ma con possibilità che il voto in tali casi sia sostanzialmente “indiretto”, e, quindi, né libero, né personale, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.».

1.7.– Ulteriore questione di legittimità costituzionale investe gli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del d.lgs. n. 533 del 1993, come novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge n. 270 del 2005, per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.

Dopo aver ricordato che tali disposizioni, che regolano il sistema elettorale del Senato, prevedono che possano accedere alla ripartizione dei seggi le coalizioni di liste che ottengono almeno il 20 per cento dei voti validi in ambito regionale, le singole liste facenti parte di coalizioni che conseguono almeno il 3 per cento dei voti validi e le singole liste, non coalizzate, che ottengono almeno l’8 per cento dei voti, il giudice a quo ricorda la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, nella quale sarebbe stato affermato che, nonostante rientri nella discrezionalità del legislatore ordinario differenziare i sistemi elettorali dei due rami del Parlamento, alla Corte sarebbe riservato il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. Osserva, quindi, il rimettente che, nel caso in esame, la «palese diversità di sistema elettorale» favorisce la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea tra i due rami del Parlamento, e che ciò – sul punto riportando un passo della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014 – «rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato», rischiando di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del Governo.

1.8.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva, infine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, in base al quale le disposizioni contenute nel medesimo art. 2 si applicano alle elezioni della Camera dei deputati a decorrere dal 1° luglio 2016.

Il giudice a quo dubita che tale previsione sia conforme agli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione elettorale del Senato invariata (pur essendo in itinere la riforma costituzionale di questo ramo del Parlamento), si produrrebbe una situazione di palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze». Pur ammettendo che in un sistema bicamerale perfetto i componenti dei due rami del Parlamento possano essere eletti con sistemi elettorali differenti e che ciò rientri nella discrezionalità del legislatore, il rimettente ritiene che i sistemi elettorali attualmente vigenti per la Camera e il Senato produrrebbero maggioranze diverse e, dunque, assume che la disposizione censurata sia incostituzionale, in quanto l’applicabilità della legge n. 52 del 2015 non è stata differita «al momento in cui verrà attuata la riforma costituzionale».

2.– Con atto depositato in data 26 aprile 2016 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità di tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Messina, in quanto quest’ultimo avrebbe ritenuto sussistente il requisito della rilevanza a prescindere, non solo dall’applicazione delle disposizioni censurate, ma anche dall’astratta possibilità che tale applicazione si verifichi. Nel caso di specie, infatti, le norme censurate sarebbero vigenti, ma, sino al 1° luglio 2016, non applicabili.

Nonostante il giudice a quo abbia ampiamente richiamato le argomentazioni contenute nell’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060, vi sarebbe un’evidente differenza tra il caso ora all’esame della Corte costituzionale e quello che condusse all’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione: in quell’occasione, infatti, il giudice rimettente «si riferiva non ad un’ipotetica e futura applicazione della disciplina elettorale, ma ad un diritto di voto che aveva già avuto modo di esplicarsi a tre riprese (2006, 2008 e 2013) con le note menomazioni riconducibili ad una legge dichiarata poi incostituzionale». Mentre, cioè, l’azione che aveva dato origine al giudizio di costituzionalità definito dalla sentenza n. 1 del 2014 riguardava un accertamento riferito ad elezioni già svolte, soggette ad una disciplina di legge già efficace ed effettivamente già applicata, la legge n. 52 del 2015, censurata dal Tribunale ordinario di Messina, produce i suoi effetti a decorrere dal 1° luglio 2016 e, dunque, nessuna elezione si è svolta in base a questa legge e nessuna lesione del proprio diritto può essere addotta dai ricorrenti.

A sostegno dell’inammissibilità, l’Avvocatura generale dello Stato richiama la sentenza n. 110 del 2015, assumendo che le argomentazioni contenute in quella pronuncia sarebbero conferenti al caso in esame.

Essa osserva, quindi, che l’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto disposizioni che ancora non spiegano i loro effetti «contrasterebbe a chiare lettere con il dettato costituzionale che non prevede un ricorso preventivo di legittimità» e, dunque, con la stessa funzione del giudizio in via incidentale. Del resto – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – sia per la Corte costituzionale, sia per la dottrina, l’indice sintomatico minimo del requisito della rilevanza sarebbe proprio l’applicabilità della norma impugnata al caso sottoposto al giudizio del rimettente.

Rileva, inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato che le questioni di legittimità costituzionale sollevate sarebbero inammissibili per evidente mancanza di attualità dell’interesse ad agire dei ricorrenti rispetto a disposizioni non ancora applicabili. La mancanza di un concreto ed attuale interesse delle parti renderebbe impossibile distinguere i petita dei due giudizi, quello instaurato di fronte al giudice civile e quello di costituzionalità. Essa osserva, in definitiva, che, ai fini della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, occorre che «il giudizio a quo abbia un oggetto, un fatto storico, al quale riferirsi», mentre tale fatto sarebbe completamente mancante nel caso in esame, poiché le disposizioni censurate non trovano applicazione «sino alla data di entrata in vigore» e, a partire da quella data, esse troveranno applicazione «solo se, e quando, saranno svolte le elezioni» in base alla disciplina censurata.

Osserva ancora l’Avvocatura generale che il giudice a quo avrebbe sovrapposto il concetto di rilevanza con quello di interesse sostanziale della parte: un interesse pur meritevole di tutela non potrebbe, infatti, sostituirsi al concetto di rilevanza (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 193 del 2015, con la quale è stata dichiarata inammissibile una questione di legittimità costituzionale poiché, nella fattispecie concreta, la disposizione censurata non aveva prodotto gli effetti lamentati dal rimettente).

A sostegno dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate non potrebbe, peraltro, osservarsi che, per fare chiarezza sull’effettiva portata del diritto di voto, non vi sarebbe altra via rispetto al giudizio di accertamento e al successivo giudizio di costituzionalità, in quanto il controllo dei risultati elettorali è affidato alle Camere. Tale motivazione – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – rivelerebbe una confusione tra le competenze delle Camere, chiamate ad accertare i titoli di ammissione di ciascun parlamentare, e quelle della Corte costituzionale.

La necessità di evitare le cosiddette zone franche non potrebbe, inoltre, condurre a «stravolgere completamente» il modello vigente di giustizia costituzionale imperniato sulla concretezza e sulla incidentalità delle questioni di legittimità costituzionale.

Consentire la sottoponibilità allo scrutinio della Corte costituzionale di leggi elettorali «prima della loro entrata in vigore» o «promulgate nella legislatura in corso» potrebbe apparire «addirittura contra legem», dal momento che – come dimostrerebbe il disegno di legge di riforma costituzionale in via di approvazione – è chiara l’intenzione del legislatore di disciplinare espressamente, con disposizioni del tutto innovative, «i mezzi di ricorso di costituzionalità delle leggi elettorali».

2.2.– L’Avvocatura generale dello Stato adduce plurimi argomenti a sostegno della non fondatezza della prima censura sollevata dal Tribunale ordinario di Messina.

Contesta, anzitutto, che le disposizioni censurate siano incostituzionali, in quanto prevedono l’assegnazione del premio di maggioranza a chi ottiene una percentuale parametrata sui voti validi espressi, anziché sui voti degli aventi diritto. Sul punto – oltre ad eccepire una carenza di motivazione del rimettente, che dovrebbe indurre la Corte costituzionale a dichiarare l’inammissibilità della censura – l’Avvocatura generale dello Stato osserva che il diritto di voto è strumentale alla formazione degli organi costituzionali, la quale non potrebbe essere messa in pericolo dalla previsione di quorum di partecipazione al voto «di rischioso raggiungimento». La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2014, non avrebbe mai fatto riferimento alla necessità di un rapporto tra premio e percentuale degli aventi diritto, ma sempre e comunque tra premio e «soglia minima dei voti».

Il legislatore avrebbe modificato il sistema elettorale della Camera proprio per dare seguito all’affermazione della Corte costituzionale. Il sistema resterebbe di tipo proporzionale con la previsione di un premio di maggioranza, ma il premio è ora attribuito alla singola lista che ottenga, al primo turno di votazione, almeno il 40 per cento dei voti validi, ovvero, al secondo turno, il 50 per cento più uno dei voti. La congruità di tali soglie sarebbe dimostrata dalla circostanza che il premio di maggioranza garantisce al massimo un numero di seggi pari a quindici punti percentuali in più rispetto alla percentuale di consenso ottenuta al primo turno e di cinque punti in più al ballottaggio.

Il Parlamento – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – avrebbe approvato la nuova legge elettorale tenendo conto non solo dell’esigenza di superare le eventuali censure di incostituzionalità, ma anche al fine di favorire la governabilità, che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2014, ha definito «senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo».

Quanto alla scelta di attribuire il premio ad una singola lista, anziché ad una coalizione di liste, essa rientrerebbe certamente nella discrezionalità del legislatore.

Quanto, poi, alla soglia per l’ottenimento del premio al secondo turno – che, osserva l’Avvocatura generale dello Stato, «non appare chiaro in realtà se sia anch’essa censurata o meno» – viene fatto notare come tale soglia, pur non essendo esplicitata, operi chiaramente in ragione della stessa natura del ballottaggio: poiché il premio è attribuito alla lista che otterrà più del 50 per cento dei voti validi, vi sarebbe ancora un riferimento alla soglia minima di voti richiesta dalla più volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014.

D’altro canto, nessuna legge elettorale regionale che assegna un premio di maggioranza prevede che esso sia subordinato al raggiungimento di un quorum degli aventi diritto e ciò – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – appare «assolutamente razionale in quanto il meccanismo della legge 52/2015 premia opportunamente la partecipazione al voto di quella cittadinanza attiva che non deve essere pregiudicata dal comportamento omissivo di chi liberamente sceglie di non adempiere a quello che secondo Costituzione è il dovere civico del voto».

È, quindi, richiamata la sentenza n. 275 del 2014, assumendo che con tale decisione la Corte costituzionale avrebbe implicitamente riconosciuto la valenza legittimante del turno di ballottaggio per ciò che attiene all’assegnazione di un premio in seggi: non sussisterebbero, quindi, i dubbi relativi ad una eccessiva sovra­rappresentazione, poiché il premio sarebbe «diretta conseguenza del voto e non un artifizio completamente scisso da esso». La Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2014, avrebbe, peraltro, affermato che ogni legge elettorale deve contemperare il criterio della rappresentatività del corpo elettorale con quello della governabilità, quest’ultima certamente perseguibile, pur «con il “minore sacrificio possibile” per la rappresentanza democratica». Essa non avrebbe, però, chiarito quando si debba considerare superato il limite della manifesta sproporzione della soglia e del premio di maggioranza.

Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che la legge n. 52 del 2015 avrebbe comunque introdotto, rispetto alla previgente disciplina, un elemento di novità sostanziale, in quanto la maggioranza richiesta per accedere al premio non sarebbe relativa, bensì assoluta: ciò dimostrerebbe l’erroneità di quanto sostenuto dai ricorrenti nel giudizio a quo, in ordine all’assenza di un quorum minimo di consensi al secondo turno, ai fini dell’assegnazione alla lista vincente del premio di maggioranza.

L’Avvocatura generale dello Stato contesta, quindi, con ampiezza di argomenti, che l’incostituzionalità delle disposizioni censurate possa desumersi dall’ipotesi che si presenti al voto un numero irrisorio di elettori: non si rinverrebbe, infatti, in Costituzione la necessità di dare un fondamentale potere di «blocco» a chi si disinteressa della vita politica, scegliendo di non votare.

Concludendo su tale censura, l’Avvocatura generale dello Stato illustra le ragioni per le quali il sistema elettorale introdotto dalla legge n. 52 del 2015 si caratterizzerebbe per una maggiore rappresentatività rispetto sia alla previgente disciplina – quella introdotta dalla legge n. 270 del 2005 – sia ai sistemi maggioritari, tradizionalmente adottati in altri Stati occidentali, come la Francia e l’Inghilterra.

2.3.– Considerandola una autonoma questione di legittimità costituzionale, l’Avvocatura generale dello Stato si sofferma, quindi, sulla lamentata previsione, da parte del rimettente, di una soglia di sbarramento al 3 per cento per l’accesso al riparto dei seggi, pur in presenza di un premio di maggioranza.

Essa eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità di tale censura per carenza di motivazione, e in quanto essa sarebbe stata prospettata in modo contraddittorio, generico e perplesso.

Nel merito ritiene che la questione sarebbe, comunque, infondata, in quanto sussiste ampia discrezionalità legislativa nella scelta del sistema elettorale e, in particolare, nel coniugare in modo equilibrato il rapporto tra attività dei partiti e scelte degli elettori nella competizione elettorale, tutelando, nel contempo, il diritto degli elettori e l’esigenza di funzionalità degli organi.

L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea come la soglia di accesso pari al 3 per cento dei voti sia una delle più basse nel panorama europeo e nella storia delle leggi elettorali italiane.

Quanto all’asserita incostituzionalità della compresenza di soglie di accesso e del premio, essa osserva che non solo essa non fu censurata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, ma che tale coesistenza «ben può essere compatibile con il principio di uguaglianza in uscita del voto degli elettori, perché l’uguaglianza non attiene all’effetto del sistema elettorale, bensì esclusivamente al valore di ciascun voto in entrata, che deve essere in grado di assicurare la funzionalità degli organi ai quali l’elezione provvede».

L’Avvocatura generale dello Stato rileva, infine, come la presenza della soglia di sbarramento non si ponga in contrasto con l’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ritenuta pertinente.

2.4.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità anche della questione di legittimità costituzionale con cui il Tribunale ordinario di Messina lamenta l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che, nella fase della assegnazione, consentirebbero una traslazione dei seggi da una circoscrizione ad un’altra. L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, infatti, che la censura sarebbe apodittica e scarsamente motivata, in quanto il giudice a quo, anziché spiegare il meccanismo di attribuzione dei seggi, si limiterebbe a denunciarne la complessità e rinvierebbe per relationem agli atti delle parti.

In secondo luogo, l’Avvocatura statale rileva una inesatta indicazione delle disposizioni sottoposte al giudizio della Corte costituzionale: la censura avverso l’art. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957 sarebbe troppo ampia, in quanto la disposizione che consente il trasferimento dei seggi da una circoscrizione ad un’altra sarebbe solo l’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n. 361 del 1957; la censura avverso l’art. 84, commi 2 e 4, del medesimo d.P.R. sarebbe, invece, errata, poiché la norma che prevede il trasferimento dei seggi da un collegio ad un altro è contenuta nel comma 3 dello stesso art. 84.

Le questioni sarebbero in ogni caso infondate, poiché il quarto comma dell’art. 56 Cost. – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – sarebbe disposizione precettiva nei confronti del legislatore nazionale, affinché quest’ultimo tenga in dovuta considerazione, nel momento della distribuzione dei 618 seggi, la composizione numerica della popolazione in ogni circoscrizione, mentre non riguarderebbe il meccanismo di assegnazione dei seggi alle singole liste, che viene effettuato nel momento successivo alle elezioni.

Le disposizioni censurate, peraltro, regolerebbero fattispecie del tutto ipotetiche, «al fine di evitare che, per un concorso di fattori avversi, non si riesca ad assegnare tutti i seggi previsti dalla Costituzione». Prescrizioni analoghe sarebbero state contenute nella previgente disciplina, senza mai essere state oggetto di pronuncia da parte della Corte costituzionale. Peraltro, le disposizioni introdotte dalla legge n. 52 del 2015 avrebbero «un grado maggiore di razionalità nell’allocazione dei seggi sia alle liste deficitarie sia a quelle eccedentarie» rispetto a quelle previgenti: mentre, infatti, precedentemente, i seggi erano assegnati alla lista deficitaria dove l’eccedentaria avesse ottenuto il seggio con la minore parte decimale, a prescindere dall’esito della lista deficitaria in quel collegio, le disposizioni ora censurate prevedono che la lista deficitaria ottenga il seggio nel collegio della circoscrizione in cui ottiene la maggiore parte decimale e la lista eccedentaria lo perda nel collegio della medesima circoscrizione in cui ha ottenuto la minore parte decimale. Questo sistema renderebbe meno irrazionale lo slittamento di seggi – che comunque resterebbe minimo – e il fenomeno sarebbe, comunque, «contenuto a livello regionale».

Da quanto esposto emergerebbe – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – che le disposizioni censurate non solo non contrastano con il principio di rappresentatività territoriale insito nell’art. 56 Cost., ma «si pongono come “norma tecnica di chiusura” per evitare che venga leso il principio costituzionale concernente la completa formazione della rappresentanza popolare».

Osserva, quindi, l’Avvocatura generale dello Stato che le disposizioni censurate riguardano il momento dell’assegnazione dei seggi, mentre l’art. 56 Cost. si riferirebbe al momento antecedente della distribuzione degli stessi tra le circoscrizioni, la quale spetta, ai sensi dell’art. 3 del citato d.P.R., ad un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, da emanare contestualmente al decreto di convocazione dei comizi elettorali.

Rileva, infine, la difesa erariale che il rapporto tra l’esigenza che gli effetti di un sistema elettorale assicurino, nello stesso tempo e nella migliore misura possibile, la proporzionalità politica e quella territoriale sarebbe problema di valenza generale, e non riguarderebbe solo la legge sottoposta allo scrutinio della Corte costituzionale. È ricordata, sul punto, la sentenza della Corte costituzionale n. 271 del 2010, nella quale fu menzionato, quale possibile meccanismo per la riduzione del trasferimento dei seggi nel sistema per l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo, quello allora disciplinato dall’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n. 361 del 1957, che sarebbe stato ora migliorato proprio dalla legge n. 52 del 2015.

2.5.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce che anche la terza questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Messina sarebbe inammissibile, perché posta in modo contraddittorio. Il rimettente, infatti, dapprima sosterrebbe che la presenza di soli capilista bloccati e liste elettorali corte risponderebbe alle richieste della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per poi affermare che le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 48 della Costituzione per quanto riguarda l’elezione dei candidati dell’opposizione.

Ritiene, quindi, la difesa erariale che il rimettente avrebbe assunto apoditticamente che saranno eletti tutti e soli i capilista dei partiti di minoranza.

Tale ultima affermazione, peraltro, oltre che apodittica, sarebbe erronea, in quanto il giudice a quo ometterebbe di considerare la complessità del fenomeno elettorale, e postulerebbe che in nessun collegio i partiti di minoranza riescano ad eleggere più di un deputato: ciò potrebbe, però, riguardare solo i partiti che hanno un debole consenso in tutto il territorio elettorale, non certo quelli fortemente radicati a livello territoriale.

Ritiene, quindi, l’Avvocatura generale dello Stato che, per ciò che concerne i seggi per le forze di opposizione, è altamente probabile che le liste minori, avendo prevedibilmente meno candidati in grado di catalizzare il consenso, presentino numerose pluricandidature a capolista in più collegi plurinominali della medesima circoscrizione e che tale circostanza, in virtù delle successive, doverose opzioni, non potrà che favorire il subentro dei numerosi candidati che hanno ottenuto le preferenze anche nell’ambito dei 278 seggi da distribuire tra le liste di minoranza.

Sarebbe, dunque, del tutto impossibile – ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato – «prevedere la proporzione degli eletti delle forze di minoranza tra “capolista” e “preferenziati”» e non potrebbe, quindi, correttamente argomentarsi, come viceversa paventato nell’ordinanza di rimessione, «che la minoranza verrebbe “largamente dominata da capilista bloccati”».

Peraltro, l’Avvocatura sottolinea che, mentre con la legge n. 270 del 2005, se un capolista risultava eletto in più collegi, si liberavano seggi per altrettanti capilista bloccati, con il sistema ora censurato il beneficio sarebbe chiaramente a vantaggio dei primi non eletti con le preferenze. Osserva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato che, con la previsione di riservare ai capilista la possibilità di potersi candidare in più collegi, il legislatore avrebbe voluto attribuire alle formazioni politiche il potere di designare i propri candidati anche al fine di garantire la realizzazione di quelle linee programmatiche che esse sottopongono alla scelta del corpo elettorale in maniera funzionale al principio di governabilità, e ciò in linea con l’art. 49 Cost., che darebbe particolare risalto alla insostituibile funzione dei partiti quali intermediari rispetto al potere sovrano esercitato dal popolo. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 13 marzo 2012, Saccomanno e altri c. Italia, non avrebbe rilevato contrasti tra il sistema elettorale introdotto dalla legge n. 270 del 2005 e il diritto convenzionale e, in particolare, avrebbe osservato che i sistemi elettorali selettivi e le liste bloccate vanno valutati «nel complesso» e che la scelta dell’elettore deve essere bilanciata con il ruolo che i partiti politici sono chiamati a svolgere negli ordinamenti democratici.

2.6.– In ordine alla quarta questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Messina, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, anzitutto, che il rimettente non spiega per quale ragione diverse soglie di sbarramento per il sistema elettorale della Camera e del Senato condurrebbero alla formazione di maggioranze diverse, e osserva che, «a tutto concedere, non tanto la diversità di soglie di sbarramento quanto, eventualmente, una diversità di soglie percentuali per l’attribuzione del premio di maggioranza potrebbe condurre a maggioranze diverse nelle due Camere».

Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che sarebbe, peraltro, la stessa Costituzione a prevedere diversità sostanziali tra i due sistemi elettorali, e che, nel caso in cui si formino due maggioranze differenti, ciò «corrisponderebbe ad una logica contro­maggioritaria idonea proprio a temperare gli effetti che la legge elettorale della Camera spiegherebbe sull’intero sistema politico­costituzionale».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, tali osservazioni non sarebbero contraddette da quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014, in quanto il passo citato dal giudice a quo non si riferirebbe alla diversità dei sistemi elettorali di Camera e Senato, bensì all’irragionevolezza delle disposizioni, allora censurate, relative ai premi di maggioranza regionali. D’altro canto, sarebbe lo stesso rimettente, nel successivo paragrafo dell’ordinanza di rimessione, ad affermare che non è di per sé irragionevole che i due sistemi elettorali siano differenti e che la scelta rientra nella discrezionalità del legislatore.

Rileva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato che il giudice a quo non indicherebbe chiaramente la norma parametro che assume violata.

2.7.– Con riferimento all’ultima censura sollevata dal Tribunale ordinario di Messina, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, anzitutto, che essa sarebbe ipotetica, e, dunque, inammissibile, in quanto il giudice a quo avanzerebbe il dubbio relativo alla possibilità che, tra il 1° luglio 2016 e l’entrata in vigore della riforma costituzionale in itinere, in caso di elezioni che si celebrassero medio tempore, coesistano due diversi sistemi elettorali per la Camera e il Senato.

Nel merito, la censura sarebbe comunque infondata. Si osserva che ben può il legislatore, nell’ambito della propria discrezionalità, decidere che le disposizioni approvate non siano immediatamente applicabili, e che tale scelta – che certamente dimostra come il legislatore auspichi l’approvazione definitiva della riforma costituzionale – è proprio finalizzata ad evitare che, fino al 1° luglio 2016, si applichino due diversi sistemi elettorali. Se, comunque, la riforma costituzionale non fosse approvata, ciò non comporterebbe, come precedentemente osservato, una violazione degli evocati parametri costituzionali. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, d’altro canto, non sarebbe stato ragionevole e coerente, da parte del legislatore, modificare il sistema elettorale del Senato prima della definitiva approvazione della riforma costituzionale, né potrebbe reputarsi incostituzionale, attraverso un generico rinvio al principio di ragionevolezza, il fatto che l’applicazione della legge n. 52 del 2015 non sia subordinata «ad libitum» all’entrata in vigore della legge di revisione costituzionale, che potrebbe anche non superare positivamente il referendum previsto dall’art. 138 Cost.

3.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti, con atto depositato il 26 aprile 2016, alcuni dei ricorrenti nel giudizio principale, i quali hanno chiesto l’accoglimento di tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Messina.

4.– Con atto depositato il 26 aprile 2016 hanno spiegato intervento ad adiuvandum F.C.B., G.B., G.C.F. e D.A., assumendo di essere ricorrenti in giudizi analoghi a quello pendente di fronte al Tribunale ordinario di Messina. Con atto depositato il 6 settembre 2016 G.B. ha rinunciato all’intervento. Con atto depositato il 12 settembre 2016 hanno rinunciato all’intervento anche F.C.B., G.C.F. e D.A.

5.– In data 13 settembre 2016 – in prossimità dell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016, poi rinviata – l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato ulteriore memoria in cui ribadisce le conclusioni già rassegnate con l’atto di intervento.

6.– Le parti del giudizio a quo costituitesi nel giudizio davanti alla Corte costituzionale, hanno depositato, in data 13 settembre 2016 e 2 gennaio 2017, ampie memorie, in cui adducono argomenti a sostegno dell’ammissibilità e della fondatezza delle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Messina.

Esse osservano, anzitutto, che il rimettente avrebbe ampiamente motivato sulla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti e che tale motivazione sarebbe corretta, in quanto le azioni di accertamento sarebbero per loro natura orientate a scongiurare il pregiudizio che si verificherebbe per i ricorrenti se la legge elettorale comprimesse i loro diritti, e in quanto sarebbe lo stato di incertezza obiettiva a configurare un pregiudizio concreto ed attuale; che, inoltre, l’interesse ad agire sussisteva già al momento della proposizione della domanda, dal momento che il Governo aveva già dato attuazione alla delega contenuta alla legge n. 52 del 2015, approvando il decreto legislativo 7 agosto 2015, n. 122 (Determinazione dei collegi della Camera dei deputati, in attuazione dell’articolo 4 della legge 6 maggio 2015, n. 52, recante disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati).

Adducono, quindi, diffuse argomentazioni a sostegno dell’accoglimento, nel merito, di tutte le censure sollevate dal Tribunale ordinario di Messina.

Esse chiedono, infine, alla Corte costituzionale di sollevare di fronte a se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge n. 52 del 2015, «con particolare riferimento ai suoi articoli fondamentali (1, 2 e 4)», poiché sarebbe stata approvata, prima al Senato e poi alla Camera, «in palese violazione dell’art. 72, commi 1 e 4, Cost. e dell’art. 3 del protocollo CEDU (per come richiamato dall’art. 117, comma 1, Cost.)». Le parti ricordano che identica censura era stata proposta nel giudizio principale, ma che il giudice a quo l’aveva ritenuta manifestamente infondata. Ora – illustrando le ragioni per le quali, a loro avviso, il rimettente sarebbe incorso in «una classica ipotesi di svista processuale» – sollecitano la Corte costituzionale, con ampiezza di argomenti, a sollevare di fronte a se stessa le medesime questioni attinenti a presunti vizi di formazione della legge.

7.– In data 3 gennaio 2017 hanno depositato atto di intervento, fuori termine, il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e dei consumatori), in persona del suo legale rappresentante G.U., e quest’ultimo, «in proprio nella qualità di elettore avente diritto ad esprimersi nelle consultazioni elettorali». A sostegno della propria legittimazione, essi assumono di essere titolari, in qualità di singoli ed associati, di un interesse qualificato immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ossia l’accertamento del diritto di votare in conformità alla Costituzione. In particolare, sono ricordati i compiti e le finalità che lo statuto affida al Codacons.

Gli intervenienti hanno depositato ulteriore memoria, fuori termine, il 13 gennaio 2017.

8.– Con ordinanza del 5 luglio 2016 (reg. ord. n. 163 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino, prima sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come novellato dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; e dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48 Cost.

8.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi degli artt. 702­bis e seguenti cod. proc. civ. da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali, i quali hanno convenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, chiedendo che sia accertato «il diritto di “votare conformemente alla Costituzione” lamentando la lesione di tale diritto ad opera di specifiche norme della legge elettorale n. 52 del 6 maggio 2015 (il c.d. Italicum) che hanno sostituito o modificato il DPR n. 361 del 30 marzo 1957 e le residue norme della legge elettorale n. 270/2005 che aveva modificato il Testo Unico per l’elezione del Senato della Repubblica, approvato con Decreto Legislativo n. 533 del 20 dicembre 1993».

8.2.– In via preliminare, il rimettente motiva in ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, nonostante l’applicabilità della legge n. 52 del 2015, entrata in vigore il 23 maggio 2015, sia stata differita al 1° luglio 2016, ossia ad un momento successivo alla proposizione del ricorso. Poiché gli attori lamentano l’incertezza della portata del diritto di voto, come regolato da un complesso di norme già in vigore e la cui applicabilità, benché differita, è certa, il rimettente ritiene che sussista e sia attuale l’interesse dei ricorrenti ad ottenere una pronuncia di accertamento «prima ancora che la legge sia applicata, ossia prima ancora che vengano convocati i comizi elettorali», e ciò anche perché, una volta emesso il decreto di convocazione dei comizi elettorali, non vi sarebbe più spazio di tutela effettiva per l’elettore, non potendo costui ottenere pronunce giurisdizionali che incidano sulle elezioni. Ritiene il rimettente che deponga a favore di tale ricostruzione anche la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 16 aprile 2014, n. 8878 – emessa dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014 – dalla quale emergerebbe come il ripristino della pienezza del diritto di voto non possa che valere pro futuro, non potendo, invece, incidere sugli esiti delle elezioni già svolte.

8.3.– Il rimettente argomenta, quindi, in ordine alla sussistenza del requisito della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate rispetto alla controversia instaurata dai ricorrenti, ritenendo che il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale e quello della sentenza che deve definire il giudizio di merito siano tra loro autonomi, poiché spetta a quest’ultima accertare l’avvenuta lesione del diritto azionato e, in caso di accoglimento delle questioni sollevate, ripristinarlo nella sua pienezza, seppure con il tramite della sentenza costituzionale (sono richiamate l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060 e la sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1957).

8.4.– Nel merito, il Tribunale ordinario di Torino, dopo aver ampiamente illustrato le ragioni per le quali ritiene di non condividere larga parte delle doglianze prospettate dalle parti, solleva due questioni di legittimità costituzionale.

La prima ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, ossia le disposizioni che prevedono che, in caso di mancato conseguimento del premio di maggioranza al primo turno di votazione, tale premio sia attribuito in seguito ad un turno di ballottaggio a cui accedono le due liste più votate. Il rimettente dubita che tale previsione sia conforme agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Il giudice a quo ricorda, anzitutto, che il legislatore, nel determinare i modi con i quali attribuire il premio di maggioranza, deve operare in modo tale da contemperare ragionevolmente due contrapposti interessi di pari rilievo costituzionale, il principio di rappresentatività e il principio di governabilità, e richiama, sul punto, quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014. Ricorda, quindi, che il modo in cui la legge n. 52 del 2015 ha delineato il turno di ballottaggio ha indotto la dottrina a chiedersi se esso possa dirsi rispettoso del principio costituzionale «del necessario rispetto di un limite ontologico di rappresentanza del voto in presenza del quale possa essere attribuito, a una sola lista, il premio di maggioranza, senza incorrere in censure di irragionevolezza e di eccessiva distorsione del voto». Dopo aver ricordato gli argomenti di chi ritiene che il turno di ballottaggio non possa essere sospettato di violare il ricordato principio costituzionale di rappresentanza del voto e gli argomenti di chi, invece, dubita della legittimità costituzionale di tale meccanismo, il rimettente afferma di condividere questa seconda lettura, secondo la quale quella che scaturisce dal turno di ballottaggio sarebbe «una maggioranza solo virtuale perché priva, se non adeguatamente corretta, di una effettiva valenza rappresentativa del corpo elettorale».

Il legislatore, infatti, limitandosi a prevedere che accedano al turno di ballottaggio le due liste più votate, purché abbiano ottenuto almeno il 3 per cento dei voti (ovvero il 20 per cento nel caso siano espressione di minoranze linguistiche), avrebbe, da un lato, riconosciuto che esiste un problema di rappresentatività delle liste ammesse al ballottaggio, dall’altro, però, avrebbe utilizzato le soglie previste, in generale, dalla legge elettorale per scoraggiare una eccessiva «polverizzazione» del voto.

Inoltre – osserva il rimettente – nel valutare l’effettiva forza rappresentativa del 50 per cento più uno dei voti espressi al ballottaggio, si dovrebbe anche considerare che è previsto che tale maggioranza sia calcolata sui voti validi espressi, circostanza che non darebbe «alcun rilievo al peso dell’astensione, che potrebbe essere anche molto rilevante quale prevedibile conseguenza della radicale riduzione dell’offerta elettorale nel ballottaggio».

Il rimettente, infine, ricordando che il legislatore ha esplicitamente vietato – per il turno di ballottaggio – apparentamenti o coalizioni tra liste, ritiene che tale scelta, «evidentemente espressione di un favore per la governabilità», sarebbe irrazionale, in quanto il voto espresso al turno di ballottaggio sacrificherebbe eccessivamente il valore della rappresentatività.

In conclusione, il giudice a quo assume che, «[s]enza l’adozione di meccanismi che garantiscano una adeguata espansione della componente rappresentativa del voto (ovvero senza l’eliminazione del divieto di cui si è detto) l’attribuzione del premio di maggioranza alla sola lista che, all’esito del ballottaggio, si aggiudichi il premio di maggioranza finisce per essere svincolata dalla esistenza di parametri oggettivi che consentano di affermare che la lista vincitrice ha ottenuto quella “ragionevole soglia di voti minima” in presenza della quale è possibile la legittima attribuzione del premio di maggioranza», e, per tali ragioni, chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

8.5.– La seconda questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Torino investe l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, il quale stabilisce che il candidato eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione, quale collegio plurinominale prescelga, e che, in assenza di opzione, si procede al sorteggio.

Secondo il rimettente, mentre non sarebbe irragionevole che sia data la possibilità ai soli capilista di candidarsi in più collegi, costituirebbe, invece, una violazione degli artt. 3 e 48 Cost. non vincolare l’opzione del capolista che risulti eletto in più collegi a criteri oggettivi e predeterminati, rispettosi, nel massimo grado possibile, della volontà espressa dagli elettori.

Il giudice a quo osserva che rimettere l’opzione tra un collegio ed un altro «ad una mera valutazione di opportunità da parte del candidato» avrebbe l’effetto di annullare «sostanzialmente» il voto di preferenza nel collegio optato dal capolista: in virtù dell’opzione potrebbe accadere «che il candidato che abbia ricevuto molte preferenze (addirittura il più votato in assoluto) sia surclassato da uno o più candidati di altri collegi, con meno preferenze» e, inoltre, l’assenza di qualsivoglia criterio oggettivo al quale il capolista debba ispirarsi nella scelta renderebbe impossibile per l’elettore effettuare valutazioni prognostiche sull’utilità del suo voto di preferenza ad un candidato che faccia parte di una lista con un candidato capolista in altri collegi. Tale imprevedibilità sarebbe ulteriormente confermata dal meccanismo alternativo alla scelta, costituito dal sorteggio.

Tale disciplina – secondo il rimettente – si concreterebbe «in una distorsione tra il voto di preferenza espresso dagli elettori e il suo esito “in uscita” in quel collegio che appare irrazionale rispetto al diritto di uguaglianza e libertà del voto, in quanto lede in modo eccessivo tale diritto, senza che vi sia un altro correlativo valore di rilievo costituzionale da salvaguardare». Il giudice a quo aggiunge che non potrebbe invocarsi, in proposito, il valore della governabilità, poiché tale valore viene tutt’al più in rilievo con l’introduzione dei capilista bloccati e con la possibilità, data a costoro, di candidarsi in più collegi. Tale soluzione esprime, infatti, l’interesse delle forze politiche di riservare, in caso di vittoria elettorale, un seggio sicuro alla Camera a favore di personalità da loro prescelte. Sarebbe, invece, eccessivamente sproporzionato perseguire il valore della governabilità anche con la disposizione censurata, la quale consentirebbe, senza alcuna ragione, di escludere dal Parlamento un candidato «senza che tale scelta sia condizionata dal numero di voti di preferenza ottenuti dal candidato destinato all’esclusione, ovvero da altro sistema che consenta di salvaguardare nel massimo grado possibile il voto di preferenza espresso dagli elettori in favore di chi non è capo lista».

9.– Con atto depositato il 4 agosto 2016 l’Avvocatura generale dello Stato è intervenuta in giudizio per il Presidente del Consiglio dei ministri e per il Ministro dell’interno, quest’ultimo parte, insieme al Presidente del Consiglio, del giudizio principale.

9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità di entrambe le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Torino, adducendo argomenti analoghi a quelli già svolti nella memoria depositata per il giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Messina (reg. ord. n. 69 del 2016). Con specifico riferimento alle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Torino, essa si limita a precisare che anche in tal caso difetterebbe non solo l’avvenuta lesione del diritto (che potrebbe perfezionarsi solo a seguito di una competizione elettorale già avvenuta), ma anche l’ipotizzabilità della lesione, in quanto, al momento dell’instaurazione del giudizio a quo, la disciplina censurata non risultava applicabile. L’attualità dell’interesse ad agire dovrebbe, infatti, sussistere sin dal momento in cui l’azione di accertamento è instaurata. Anche il Tribunale ordinario di Torino avrebbe, dunque, sollevato questioni di legittimità costituzionale premature e, come tali, inammissibili.

9.2.– In ordine alla prima questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Torino, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità per erronea o inesatta indicazione delle norme oggetto, in quanto il giudice a quo, censurando complessivamente l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, non avrebbe correttamente individuato la porzione di norma che regola il turno di ballottaggio.

La questione sarebbe, inoltre, inammissibile per contraddittorietà, in quanto il giudice a quo ritiene necessario il superamento di un certo quorum di aventi diritto al voto al turno di ballottaggio, in cui è assegnato il premio di maggioranza pari al 5 per cento dei seggi, e non anche nel primo turno, in cui, invece, il premio può raggiungere il 15 per cento dei seggi.

Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato chiede che la questione sia dichiarata non fondata, contestando la correttezza degli argomenti addotti dal rimettente a sostegno del dubbio di legittimità costituzionale sollevato.

Con riferimento alla possibile limitata rappresentatività delle liste ammesse al turno di ballottaggio, la difesa erariale ritiene che il giudice a quo avrebbe erroneamente sovrapposto la soglia minima di voti che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, deve essere prevista per conseguire il premio di maggioranza, con un’ulteriore soglia minima di voti da prevedere per accedere al secondo turno. Non avrebbe, inoltre, considerato che l’accesso al ballottaggio non sarebbe sganciato dal principio della rappresentanza popolare, ma, al contrario, risulterebbe intrinsecamente connesso a tale principio, visto che al ballottaggio accedono le due liste elettorali che abbiano conseguito il maggior numero di voti al primo turno.

Né si potrebbe ipotizzare che sia il superamento della soglia del 3 per cento dei voti validi nel primo turno a consentire ad una lista di accedere al ballottaggio. Peraltro, sul punto, la difesa erariale rileva che il rimettente sarebbe incorso in una aberratio ictus, non avendo censurato la disposizione che prevede la soglia di sbarramento al 3 per cento.

Con riferimento, invece, alla denunciata incostituzionalità delle disposizioni che assegnano un premio di maggioranza alla lista che, in sede di ballottaggio, abbia ottenuto il maggior numero di voti validi, senza prevedere anche il raggiungimento di un «quorum strutturale» tra gli aventi diritto al voto, e senza quindi dare peso al dato politico dell’eventuale astensione tra gli elettori, l’Avvocatura generale dello Stato premette che anche nel turno di ballottaggio esiste una soglia minima di voti per il conseguimento del premio, dal momento che esso è attribuito a chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti validi, e che un premio di cinque punti percentuali non potrebbe certo dirsi irragionevole o eccessivo.

Contesta, inoltre, l’affermazione del rimettente secondo la quale vi sarebbe il «concreto rischio che il premio venga attribuito a una formazione che è priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale», osservando, non solo che non vi sarebbe alcuna violazione del principio di rappresentatività, ma che la disciplina del ballottaggio sarebbe «foggiata in termini del tutto conseguenti all’espressione della volontà elettorale nel primo turno»: «[l]e scelte degli elettori sono saggiate nel primo turno e ulteriormente messe alla prova nel ballottaggio, all’esito del quale sono le soglie di consenso espresse nei due turni a svolgere complessivamente la funzione di soglia».

Con specifico riferimento alla lamentata previsione di un «quorum strutturale» tra gli aventi diritto al voto, quale ulteriore condizione per l’assegnazione del premio di maggioranza, l’Avvocatura generale dello Stato rileva come il legislatore avrebbe anche potuto subordinare l’assegnazione del premio ad un (ulteriore) quorum di votanti o voti validi, ma che questa non potrebbe certo dirsi una scelta costituzionalmente necessaria. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2014, avrebbe fatto riferimento alla necessità che il premio di maggioranza sia subordinato al raggiungimento di una soglia minima di voti espressi. In ogni caso – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – la verifica del consenso per ottenere il premio non potrebbe che essere legittimamente parametrata al numero totale dei voti validi e non all’entità di coloro che teoricamente avrebbero potuto votare, ma si sono rifiutati di farlo, non adempiendo al dovere civico di votare previsto dall’art. 48, secondo comma, Cost. Rapportare la soglia minima agli aventi diritto, anziché ai votanti, potrebbe, tra l’altro, in caso di estesa non partecipazione al voto, avere conseguenze negative sulla governabilità e sulla stabilità del Paese, fino all’impossibilità di realizzare la provvista dell’organo.

A sostegno della non fondatezza della questione, l’Avvocatura generale dello Stato menziona, quindi, la sentenza n. 275 del 2014, in cui la Corte costituzionale avrebbe «riconosciuto implicitamente la valenza legittimante di un turno di ballottaggio per ciò che attiene all’assegnazione di un premio in seggi», e la più volte citata sentenza n. 1 del 2014, in cui la Corte avrebbe affermato che ogni legge elettorale deve contemperare il criterio della rappresentatività del corpo elettorale con quello della governabilità, quest’ultima certamente perseguibile, sia pure «con il “minore sacrificio possibile” per la rappresentanza democratica». Anche se la Corte non avrebbe chiarito quando si debba considerare superato il limite della manifesta sproporzione della soglia e del premio di maggioranza, tale limite non potrebbe dirsi violato dalla disciplina censurata, che, rispetto a quella previgente, avrebbe introdotto, oltre alla soglia del 40 per cento per ottenere il premio al primo turno, proprio il turno di ballottaggio, grazie al quale la maggioranza assoluta dei voti determina la maggioranza assoluta dei seggi.

L’Avvocatura generale dello Stato osserva, quindi, che la scelta di attribuire il premio ad una lista, anziché ad una coalizione di liste, rientrerebbe certamente nella scelta discrezionale del legislatore, che ha così voluto favorire la coesione politica della maggioranza e una più agevole governabilità.

La difesa statale conclude sottolineando che in materia elettorale esiste ampia discrezionalità legislativa, che la disciplina censurata non presenta alcun profilo di contrasto con il principio di eguaglianza del voto e che la legge n. 52 del 2015, superando il «vulnus della legge n. 270 del 2005», garantisce una maggiore rappresentatività; e spiegando le ragioni per le quali il sistema elettorale censurato risulterebbe preferibile anche rispetto ad un sistema uninominale maggioritario.

9.3.– In relazione alla seconda questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Torino, relativa alla disciplina contenuta nell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1956, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità «per inesatta ed erronea identificazione della norma oggetto di censura». Il rimettente si sarebbe, infatti, contraddetto nella formulazione della motivazione e del petitum, poiché avrebbe lamentato l’assenza di vincoli all’esercizio del diritto di opzione del candidato capolista, evocando una pronuncia della Corte costituzionale di tipo additivo­manipolativo, mentre, nel dispositivo, avrebbe chiesto una pronuncia di tipo ablativo.

Osserva, inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato come una pronuncia di accoglimento della disposizione censurata «determinerebbe un inammissibile vuoto normativo che potrebbe avere come conseguenza l’impossibilità di applicare la legge nella sua interezza», ciò che, secondo costante giurisprudenza costituzionale, non sarebbe possibile (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 13 del 2012 e n. 29 del 1987). Se anche il giudice rimettente «avesse scrupolosamente osservato tali logici presupposti processuali», la Corte costituzionale – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – non potrebbe comunque manipolare la norma fino a creare dei vincoli all’esercizio del diritto di opzione del candidato eletto in più collegi, senza sconfinare nella sfera della discrezionalità politica del legislatore.

Nel merito, la questione sarebbe infondata «perché non si capisce quale diritto sarebbe menomato da questa libertà di opzione del pluricandidato»: non potrebbe immaginarsi – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – un contrasto con il diritto di elettorato passivo dei candidati non capolista, poiché tale diritto non potrebbe spingersi sino «a definire un interesse legittimo alle chances di un qualsivoglia candidato di essere eletto a dispetto di altri»; né potrebbe dirsi leso il diritto di elettorato attivo o, quantomeno, non sarebbe chiaro il convincimento del giudice a quo su come il diritto di opzione potrebbe incidere sul diritto dei cittadini.

D’altro canto – osserva l’Avvocatura generale dello Stato – il voto per la lista sarebbe già ex se una preferenza espressa per il capolista e sarebbe pertanto artificioso differenziare la posizione del capolista da quella dei candidati in subordine.

Ricorda, quindi, la difesa erariale che la possibilità per il candidato eletto in più collegi di optare liberamente è già stata prevista nella previgente legislazione elettorale italiana.

La difesa statale prosegue, quindi, illustrando i caratteri del sistema introdotto dalla legge n. 52 del 2015 e affermando come esso sia pienamente conforme ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014, in quanto prevede candidature bloccate, ma consente anche di esprimere preferenze; in quanto la possibilità di candidarsi in più collegi è numericamente limitata, e, infine, perché la ridotta dimensione dei collegi rende individuabili e conoscibili i candidati da parte degli elettori. In particolare, la presenza di capilista bloccati e la possibilità di selezione di candidati eventuali sarebbero il frutto del bilanciamento tra l’esigenza di garantire il diritto di scelta degli elettori e quella che le elezioni esprimano forze adeguatamente rappresentative e consentano la costituzione di maggioranze sufficientemente stabili.

Né si potrebbe dubitare – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – che la facoltà attribuita alle forze politiche di scegliere la posizione in lista di un determinato candidato possa pregiudicare la libera scelta che si esplica nel momento del voto: è sul punto richiamata la sentenza n. 203 del 1975, con cui la Corte costituzionale ritenne non fondata una questione di costituzionalità avente ad oggetto la norma che consente ai partiti di scegliere l’ordine dei candidati in lista. Tale ricostruzione non solo non sarebbe stata smentita dalla più volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, ma troverebbe conferma nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, nella sentenza Saccomanno e altri c. Italia del 13 marzo 2012, avrebbe affermato che le liste bloccate, pur determinando una costrizione degli elettori nella scelta dei candidati, sarebbero giustificate in considerazione del ruolo dei partiti politici nella vita dei Paesi democratici. Il giudice a quo non avrebbe invece considerato il ruolo che, in ogni sistema democratico contemporaneo, spetta ai partiti nell’indicazione del candidato, il quale, in ogni collegio, «rappresenta la personificazione e il volto della piattaforma programmatica di una determinata lista». Tale regola, «indefettibile in ogni sistema maggioritario di collegio ma a maggior ragione anche nei sistemi elettorali basati sullo scrutinio di lista», sarebbe la conseguenza del ruolo che l’art. 49 Cost. assegna ai partiti politici.

L’Avvocatura generale dello Stato conclude, quindi, menzionando la sentenza n. 104 del 2006, nella quale la Corte costituzionale avrebbe affermato che il diritto di optare per una delle circoscrizioni in cui il candidato è risultato eletto sarebbe l’«esplicazione del diritto di elettorato passivo»; la sentenza n. 1 del 2014, nella quale la Corte costituzionale avrebbe affermato che la scelta del sistema elettorale è l’ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa; e la sentenza n. 43 del 1961, nella quale sarebbe stato affermato che l’eguaglianza del voto non si estende al risultato concreto della manifestazione della volontà dell’elettore.

10.– Alcune delle parti del giudizio principale si sono costituite con atto depositato il 29 luglio 2016, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Torino.

10.1.– Con riferimento alla prima questione, con cui il rimettente censura le disposizioni che prevedono l’attribuzione di un premio di maggioranza all’esito di turno di ballottaggio tra le due liste più votate al primo turno, le parti private premettono che «in nessun ordinamento democratico conosciuto, ad eccezione della Francia, esiste un turno di ballottaggio per determinare la composizione di un organo legislativo»; che i correttivi adottati in alcuni ordinamenti (quali le soglie di sbarramento e la ridotta dimensione dei collegi) non sono in grado di garantire con certezza che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi; che nel solo Stato – la Grecia – che prevede un premio di maggioranza al primo partito, questo è costituito da un numero fisso di seggi; che l’unico ordinamento in cui è stato adottato un sistema misto a prevalenza maggioritaria con meccanismi che possono attribuire una maggioranza abnorme al primo partito è l’Ungheria, «“forse” non un modello da imitare»; che su tredici ordinamenti con sistema parlamentare bicamerale, ben dieci hanno un sistema proporzionale e due (Regno Unito e Francia) un sistema maggioritario a uno o a due turni in collegi uninominali: che, dunque, con il sistema introdotto dalla legge n. 52 del 2015, l’Italia sarebbe l’unico Stato ad avere un sistema elettorale con premio di maggioranza, doppio turno di lista e attribuzione certa di una maggioranza più che assoluta dei seggi ad un solo partito. Secondo le parti private, già questo profilo costituirebbe un autonomo vizio di illegittimità costituzionale delle disposizioni in esame.

Le parti rilevano, quindi, che le disposizioni censurate sacrificherebbero eccessivamente, all’obbiettivo della governabilità, il principio di rappresentanza democratica e, di conseguenza, il diritto al voto eguale, personale e diretto, in quanto il ballottaggio consegnerebbe alla lista vincente «un “premio” di entità abnorme ed inversamente proporzionale all’entità del consenso ricevuto», a prescindere da un qualsiasi quorum minimo di voti validi per essere ammessi al ballottaggio e senza alcun riferimento alla percentuale dei votanti rispetto agli aventi diritto (confrontando, sul punto, le disposizioni censurate con il sistema elettorale previsto nell’ordinamento francese).

Osservano che le disposizioni censurate violerebbero gli evocati principi costituzionali anche perché l’introduzione di un premio di maggioranza attribuibile al secondo turno di ballottaggio, a prescindere dal raggiungimento di un qualsiasi quorum di voti validi, determinerebbe «di per sé la trasformazione dell’impianto della legge da proporzionale a maggioritario».

Ritengono, inoltre, che l’assegnazione del premio di maggioranza all’esito del turno di ballottaggio determinerebbe una distorsione della volontà della maggioranza degli elettori, i quali avrebbero deciso, al primo turno, di non assegnare il premio di maggioranza a nessuna lista, nonché una lesione dell’eguaglianza del voto, in quanto il voto dei cittadini che abbiano scelto la minoranza più forte (alla quale sarebbe attribuito il premio di maggioranza) varrebbe fino a due o tre volte in più del voto dei cittadini che avessero votato altre liste.

Per le ragioni evidenziate, le parti private ritengono che i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014 risulterebbero applicabili anche alle norme censurate, osservando, peraltro, che il ballottaggio di lista, contestuale al divieto di coalizioni o accordi di desistenza ed alla presenza al primo turno delle soglie di accesso, aggraverebbe ulteriormente l’effetto distorsivo del meccanismo di trasformazione dei voti in seggi.

10.2.– In relazione alla seconda censura, avente ad oggetto l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, nella parte in cui consente ai candidati capilista che siano eletti in più collegi di optare senza alcun vincolo per il collegio nel quale vogliono essere eletti, le parti private osservano che riservare «ad una élite politica», ossia ai capilista, la duplice facoltà di candidarsi fino ad un massimo di dieci collegi e quella di poter optare, ad elezione avvenuta con successo, per un collegio piuttosto che per un altro, determinerebbe «un pesantissimo condizionamento» per l’elezione dei candidati che seguono nella lista, i quali sono destinatari dei voti di preferenza. La disposizione censurata avrebbe introdotto una regola ormai superata da tutti gli altri ordinamenti democratici e rispetto ai quali la dottrina avrebbe ravvisato elementi di illegittimità costituzionale, proprio in quanto non sarebbero gli elettori a scegliere i candidati, ma i candidati capilista.

11.– Hanno spiegato intervento ad adiuvandum F.C.B., A.I. e G.S., con atto depositato il 1° agosto 2016; C.T., A.B., E.Z., con atto depositato il 4 agosto 2016; S.M. con atto depositato il 5 agosto 2016; F.D.M. e M.S., con atto depositato il 9 agosto 2016; V.P., con atto depositato il 9 agosto 2016; E.P. e N.R., con atto depositato il 9 agosto 2016, assumendo tutti di essere ricorrenti in giudizi analoghi a quello pendente di fronte al Tribunale ordinario di Messina (reg. ord. n. 69 del 2016).

12.– In data 13 settembre 2016 – in vista dell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016, poi rinviata – l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria per il Presidente del Consiglio dei ministri, in cui ribadisce le conclusioni rassegnate nell’atto di intervento.

13.– In data 12 settembre 2016, F.C.B. e A.I. hanno depositato una memoria in cui, in ordine alla loro legittimazione ad intervenire nel giudizio costituzionale, affermano di essere «soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, cioè l’accertamento del loro diritto di votare in conformità alla Costituzione […], al pari dei ricorrenti nel giudizio a quo».

Essi ritengono, infatti, di vantare una posizione giuridica qualificata in rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità in quanto cittadini elettori. Sottolineano, inoltre, di essere ricorrenti in giudizio analogo a quello dal quale hanno avuto origine le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale ordinario di Torino.

In data 13 settembre 2016, C.T., A.B. e E.Z. hanno depositato una memoria in cui, tra l’altro, argomentano in ordine all’ammissibilità del loro intervento. Essi osservano che la loro posizione sarebbe identica a quella degli attori del giudizio a quo, in quanto «tutti titolari dello stesso diritto fondamentale che li accompagna in qualunque momento e li accomuna nella stessa identica posizione giuridica». Ripercorrendo la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di ammissibilità degli interventi di terzi nel giudizio costituzionale, essi ritengono che non sarebbero conferenti le pronunce con le quali è stato negato l’intervento di soggetti che erano parti in giudizi analoghi a quello in cui la questione era stata sollevata: nel caso di specie, infatti, il giudizio pendente di fronte ad altro tribunale non sarebbe analogo, bensì identico per petitum e causa petendi.

Sempre in data 13 settembre 2016, anche V.P. ha depositato memoria in cui, in ordine alla propria legittimazione ad intervenire nel giudizio di costituzionalità, ritiene che sussistano le condizioni richieste dalla giurisprudenza costituzionale e, in particolare, osserva che la decisione della Corte costituzionale sarebbe idonea ad incidere direttamente sulla possibilità di esercitare il proprio diritto di voto in modo conforme ai principi costituzionali.

In data 23 dicembre 2016, S.M. ha depositato una memoria in cui chiede alla Corte costituzionale che il proprio intervento sia dichiarato ammissibile, in quanto titolare di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, cioè l’accertamento del diritto di votare in conformità alla Costituzione, al pari dei ricorrenti nel giudizio a quo.

14.– In data 15 settembre 2016 hanno chiesto di intervenire, fuori termine, L.A. e altri quarantadue, depositando atto privo di procura. Tra costoro F.D.M. e M.S. (peraltro già tempestivamente intervenuti nel medesimo giudizio) sono avvocati cassazionisti.

15.– In vista dell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017, le parti del giudizio a quo hanno depositato, in data 28 dicembre 2016, una memoria in cui ribadiscono, approfondendoli, gli argomenti già illustrati nell’atto di costituzione a sostegno della fondatezza delle censure sollevate dal Tribunale ordinario di Torino.

Esse, inoltre, argomentano in ordine all’ammissibilità di tutte le questioni, in quanto sussisterebbe, a loro avviso, sia l’interesse ad agire nel giudizio a quo, sia una diversità di petitum tra il giudizio principale e quello di costituzionalità.

In ordine alla seconda delle censure sollevate dal rimettente, esse suggeriscono alla Corte costituzionale di valutare, più radicalmente, la compatibilità a Costituzione delle disposizioni che consentono candidature bloccate in più collegi. In subordine, rispetto alla più circoscritta censura sollevata dal Tribunale di Torino, esse contestano l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, ritenendo che sia possibile individuare un’addizione a rime costituzionalmente obbligate: a loro avviso, la Corte costituzionale non potrebbe far altro che dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957 nella parte in cui non prevede che il capolista eletto in più collegi debba «optare per la nomina nel collegio nel quale il secondo degli eletti o il primo dei non eletti abbiano, in proporzione, conseguito il minor numero di voti».

16.– Con atto di intervento depositato in data 3 gennaio 2017, il Codacons, in persona del suo legale rappresentante G.U., e quest’ultimo, «in proprio nella qualità di elettore», hanno chiesto di intervenire – oltre che nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 69 del 2016 – anche nel giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Torino. Tali soggetti hanno poi depositato, in data 13 gennaio 2017, dunque fuori termine, ulteriore memoria.

17.– Con ordinanza del 6 settembre 2016 (reg. ord. n. 192 del 2016), il Tribunale ordinario di Perugia, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; e dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

17.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702­bis cod. proc. civ. da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali della Regione Umbria, i quali hanno convenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, chiedendo che sia accertata la lesione del loro diritto di voto, per come costituzionalmente garantito, in conseguenza dell’approvazione della legge n. 52 del 2015.

17.2.– In via preliminare, il rimettente motiva in ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, in particolare affermando che – poiché l’esercizio del diritto di voto secondo modalità conformi alle previsioni costituzionali costituisce un diritto inviolabile e permanente dei cittadini, i quali possono essere sempre chiamati ad esercitarlo in qualunque momento e devono poterlo esercitare in modo conforme a Costituzione – sarebbe «irrilevante il fatto che non si siano ancora svolte le elezioni con la legge elettorale che determinerebbe la lesione del diritto di voto», così come sarebbe irrilevante anche il fatto che non siano stati convocati i comizi elettorali relativamente ad elezioni da svolgersi applicando la nuova legge elettorale. D’altro canto – osserva il rimettente – ove le questioni di legittimità costituzionale potessero essere sollevate solo successivamente alla convocazione dei comizi elettorali, si rischierebbe di pregiudicare ogni concreta e tempestiva possibilità di tutela.

Sarebbe inoltre irrilevante – secondo il giudice a quo – anche la circostanza che la domanda di accertamento della lesione del diritto di voto sia antecedente alla data a partire dalla quale le disposizioni censurate potranno avere applicazione, dal momento che esse sono già in vigore.

Osserva, quindi, il rimettente come non possa ritenersi che la domanda di accertamento sia stata proposta al solo fine di sollecitare il giudizio della Corte costituzionale, dal momento che, ai fini della proponibilità delle azioni di mero accertamento, è sufficiente l’esistenza di uno stato di dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata dei diritti ed obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte negoziale o legale, in quanto tale idoneo a provocare un ingiusto pregiudizio non evitabile se non attraverso il richiesto accertamento (è sul punto richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014).

17.3.– Il rimettente argomenta, quindi, in ordine alla sussistenza del requisito della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate rispetto alla controversia instaurata dai ricorrenti, affermando che la definizione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate risulta pregiudiziale all’accertamento del diritto dei ricorrenti.

Osserva, inoltre, come non vi sia coincidenza tra l’oggetto del giudizio di merito e quello del giudizio di costituzionalità, poiché spetta al giudice ordinario accertare l’avvenuta lesione del diritto azionato e, in caso di accoglimento delle questioni sollevate, ripristinare tale diritto, seppure per il tramite della sentenza costituzionale (sono richiamate l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 21 marzo ­ 17 maggio 2013, n. 12060, e la sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1957).

17.4.– Nel merito, il giudice a quo, dopo aver ampiamente illustrato le ragioni per le quali ritiene di non condividere larga parte delle doglianze prospettate dalle parti, solleva due questioni di legittimità costituzionale.

La prima questione di legittimità costituzionale investe l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Il rimettente, dopo aver affermato che il sistema elettorale, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, è censurabile di fronte alla Corte costituzionale quando il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di essi in maniera eccessiva, assume che le disposizioni censurate, nel garantire il premio di maggioranza alla lista che risulti vincitrice nel ballottaggio tra le due liste più votate, «senza prevedere alcuna soglia di voti minima ed escludendo ogni forma di collegamento o apparentamento tra list[e]», violerebbero i ricordati principi costituzionali. Tale meccanismo, infatti, sacrificherebbe eccessivamente il principio della rappresentatività e, quindi, dell’eguaglianza del voto rispetto al principio della governabilità.

17.5.– Il rimettente solleva, inoltre, questione di legittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Dopo aver spiegato le ragioni per le quali ritiene di non condividere i dubbi di legittimità costituzionale – pure prospettati dalle parti – aventi ad oggetto le disposizioni che prevedono che le liste siano formate da capilista bloccati e che consentono a costoro di candidarsi in più collegi, il giudice a quo censura, invece, l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dalla legge n. 52 del 2015, il quale consente al capolista che sia stato eletto in più collegi di scegliere il collegio in cui essere proclamato eletto, senza alcun criterio oggettivo rispettoso, nel massimo grado possibile, della volontà espressa dagli elettori. La possibilità concessa al capolista di optare senza limiti, potendo determinare l’esclusione o l’elezione di altri candidati maggiormente votati in altre circoscrizioni, finirebbe per privare gli elettori della possibilità di scegliere il proprio candidato con le preferenze.

Il rimettente dubita altresì della ragionevolezza dell’intero sistema, in quanto il principio della governabilità, già garantito dal sistema delle candidature multiple, finirebbe, in questa ipotesi, per sacrificare eccessivamente il diritto di scelta del candidato da parte degli elettori e, quindi, il suo diritto di voto.

18.– In data 31 ottobre 2016 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale, producendo memoria analoga a quella depositata per il giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016), chiede che entrambe le questioni siano preliminarmente dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza, a causa dell’assenza di interesse ad agire delle parti, determinata dal fatto che le disposizioni censurate non hanno mai avuto applicazione. Ritiene, quindi, che le questioni, anche isolatamente esaminate, siano inammissibili o, comunque, non fondate.

19.– In data 28 ottobre 2016 si sono costituite in giudizio alcune delle parti del giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Perugia siano dichiarate ammissibili e fondate. Esse chiedono, inoltre, alla Corte costituzionale di sollevare di fronte a se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge n. 52 del 2015 e, in particolare, degli artt. 1, 2 e 4, poiché tale legge sarebbe stata approvata, prima al Senato e poi alla Camera, in violazione dell’art. 72, primo e quarto comma, Cost.

Le parti ricordano che identica censura era stata proposta nel giudizio principale, ma che il giudice a quo l’aveva ritenuta manifestamente infondata.

Gli argomenti addotti sono ribaditi e approfonditi nella memoria del 3 gennaio 2017, depositata in vista dell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017.

In particolare, in tale memoria si ribadisce la richiesta alla Corte costituzionale di sollevare di fronte a se stessa questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 4 della legge n. 52 del 2015 per violazione dell’art. 72, secondo e quarto comma, Cost. A tal fine si ricorda che, alla Camera, tali articoli sono stati approvati con voto di fiducia, mentre al Senato l’esame in commissione sarebbe stato compresso e, in Assemblea, sarebbe stato approvato un emendamento con cui è stato inserito nel testo della legge una sorta di preambolo riassuntivo dei caratteri essenziali della legge elettorale, così da determinare l’inammissibilità degli ulteriori emendamenti che erano stati presentati.

20.– Con ordinanza del 5 ottobre 2016 (reg. ord. n. 265 del 2016) il Tribunale ordinario di Trieste, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; e dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

20.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702­bis cod. proc. civ. da alcuni cittadini italiani friulanofoni iscritti nelle liste elettorali, i quali, convenendo in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, chiedono che sia accertata la lesione del loro diritto di voto, per come costituzionalmente garantito, in conseguenza dell’approvazione della legge n. 52 del 2015, applicabile in occasione delle prime elezioni successive alla data di entrata in vigore di tale legge.

Preliminarmente, il rimettente ritiene che sussista l’interesse ad agire dei ricorrenti, poiché la legge n. 52 del 2015 è applicabile a partire dal 1° luglio 2016 e, una volta emesso il decreto di convocazione dei comizi elettorali, non vi sarebbe più alcuna tutela effettiva per l’elettore.

Ritiene, inoltre, che le questioni sollevate siano rilevanti, in quanto è individuabile un giudizio separato e distinto dalle questioni di legittimità costituzionale sul quale egli è chiamato a pronunciarsi (sul punto richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 59 del 1957, n. 4 del 2000 e n. 1 del 2014).

20.2.– Dopo aver illustrato le ragioni per le quali ritiene di non condividere larga parte dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati dalle parti, il giudice a quo solleva due questioni di legittimità costituzionale.

La prima questione ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostitutito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, ossia le disposizioni che prevedono che, nel turno di ballottaggio, il premio di maggioranza sia attribuito sulla base dei voti validamente espressi.

Dopo aver affermato che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 1 del 2014, avrebbe «ravvisato la necessità di individuare un limite per la legittima attribuzione del premio di maggioranza, dal quale il legislatore non può prescindere in sede di adozione di una legge elettorale», il rimettente ritiene che le disposizioni censurate, escludendo meccanismi che garantiscano una adeguata espansione della componente rappresentativa del voto – in particolare, vietando il collegamento o l’apparentamento tra liste al turno di ballottaggio; escludendo la possibilità di esprimere preferenze; conteggiando solo i voti validi espressi in questo turno e ammettendo al ballottaggio le due sole liste più votate, purché abbiano ottenuto il 3 per cento dei voti validi al primo turno – si pongano in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, della Costituzione, «là dove essi evidenziano […] che l’attuale sistema, privo di correttivi, pone il concreto rischio che il premio venga attribuito a una formazione che è priva di adeguata rappresentatività nel corpo elettorale».

20.3.– Con una seconda questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo chiede alla Corte costituzionale di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, della Costituzione.

Il rimettente ricorda che la disposizione censurata consente al candidato capolista in più collegi, e che sia stato poi eletto in più collegi, di optare, senza alcun tipo di vincolo, per un collegio piuttosto che per un altro. Egli assume che tale libera scelta del candidato capolista sia suscettibile di annullare il voto di preferenza degli elettori nel collegio optato dal capolista, consentendo, ad esempio, che il candidato che abbia ricevuto molte preferenze (addirittura il più votato in assoluto) sia superato da uno o più candidati di altri collegi con meno preferenze. Tale scelta legislativa – secondo il rimettente – non potrebbe neppure essere giustificata dall’esigenza di governabilità, «perché l’esclusione di un candidato non condizionata dal numero di voti di preferenza ottenuti è del tutto irrazionale e contraria al principio della rappresentatività».

21.– Con atto depositato il 3 gennaio 2017, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

L’atto di intervento contiene argomenti analoghi a quelli già rappresentati nei giudizi instaurati dall’ordinanza del Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016) e dall’ordinanza del Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016).

L’Avvocatura generale dello Stato chiede, dunque, in via preliminare, che entrambe le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza e, in subordine, eccepisce l’inammissibilità o, comunque, la non fondatezza delle singole censure.

Con riferimento alla prima questione sollevata dal Tribunale ordinario di Trieste, avente ad oggetto le disposizioni che regolano il turno di ballottaggio, l’Avvocatura generale dello Stato aggiunge che l’accoglimento «renderebbe la legge elettorale incapace di funzionare». Poiché il sistema elettorale definito dalla legge n. 52 del 2015 è concepito «per essere in ogni caso majority assuring», esso non prevederebbe un’alternativa al secondo turno, nel caso in cui una lista, al primo turno, non raccolga almeno il 40 per cento dei voti ed abbia conseguito (senza premio) almeno 340 seggi.

22.– Con atto depositato il 22 dicembre 2016, si sono costituite le parti del giudizio a quo, chiedendo che siano dichiarate ammissibili e, quindi, accolte entrambe le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Trieste.

Esse premettono, inoltre, che la legge n. 52 del 2015 (e, in particolare, gli artt. 1, 2 e 4) sarebbe stata approvata in violazione dell’art. 72, primo e quarto comma, Cost., auspicando che la Corte costituzionale sollevi di fronte a se stessa tali questioni.

In vista dell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017, le parti, il 12 gennaio 2017, hanno depositato una memoria in cui ribadiscono gli argomenti già addotti nell’atto di costituzione, in ordine all’ammissibilità e alla fondatezza di entrambe le censure sollevate dal rimettente.

23.– Con atto depositato il 23 dicembre 2016, hanno spiegato intervento ad adiuvandum C.T., A.B. e E.Z., assumendo di avere un interesse qualificato e diretto all’accoglimento delle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Trieste, in quanto parti di analogo giudizio pendente dinnanzi alla Corte d’appello di Milano. I medesimi soggetti, in data 30 dicembre 2016, hanno depositato una memoria in cui, tra l’altro, argomentano in modo più ampio in ordine all’ammissibilità del loro intervento nel giudizio di costituzionalità.

24.– In data 3 gennaio 2017 hanno depositato atto di intervento il Codacons, in persona del suo legale rappresentante G.U., e quest’ultimo «anche in proprio nella qualità di elettore avente diritto ad esprimersi nelle consultazioni elettorali», adducendo, a sostegno della propria legittimazione ad intervenire nel giudizio di fronte alla Corte costituzionale, argomenti analoghi a quelli contenuti nell’atto di intervento nei giudizi instaurati dai Tribunali ordinari di Messina e di Torino. Tali argomenti relativi alla asserita legittimazione ad intervenire nel giudizio di costituzionalità sono ribaditi nella memoria depositata il 13 gennaio 2017.

25.– Con ordinanza del 16 novembre 2016 (reg. ord. n. 268 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, della Costituzione; dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 1 e 83 del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, in relazione alle parole «sono comunque attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83­bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente sostituiti e aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.; dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

25.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere un giudizio promosso con ricorso ai sensi dell’art. 702­bis cod. proc. civ. da alcuni cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali di comuni ricompresi nel distretto della Corte d’appello di Genova, i quali, convenendo in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell’interno, chiedono che sia accertato il loro diritto di voto libero, personale e diretto in conformità alla Costituzione e all’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU, e, di conseguenza, di dichiarare che l’applicazione della legge n. 52 del 2015 pregiudicherebbe tale diritto.

Preliminarmente, il rimettente conferma la sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, già motivata in una propria precedente sentenza non definitiva, nonostante la legge n. 52 del 2015 sia applicabile a partire dal 1° luglio 2016.

Ritiene, inoltre, che le questioni sollevate siano rilevanti, in quanto sarebbe individuabile un giudizio separato e distinto dalle questioni di legittimità costituzionale sul quale egli è chiamato a pronunciarsi.

25.2.– Il giudice a quo solleva, quindi, sei distinte questioni di legittimità costituzionale.

La prima censura investe l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83, commi 1, numero 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015. Tali disposizioni prevedono che, al primo turno di votazione, sia attribuito un premio di maggioranza pari a 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi.

Secondo il rimettente, in tale ipotesi, la percentuale di distorsione del voto espresso a favore della lista vincitrice sarebbe pari a 1,375, mentre il «voto “perdente”» risulterebbe avere un coefficiente di sotto rappresentazione pari a 0,75. Egli suppone, inoltre, che, a fronte di 30 milioni di voti validi espressi, poiché il 40 per cento corrisponde a 12 milioni di voti, la lista vincente avrebbe diritto a un deputato ogni 35.294 voti, mentre il complesso delle forze di minoranza, che avrebbe ottenuto 18 milioni di voti, avrebbe un deputato ogni 64.748 voti. A fronte di «detta evidente distorsione», valutata in concreto, il rimettente ritiene che le disposizioni censurate si pongano in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., poiché, «non risultando neppure previsto alcun rapporto fra i voti ottenuti rispetto non già ai voti validi ma al complesso degli aventi diritto al voto», unitamente alla circostanza che è prevista una soglia di sbarramento al 3 per cento, esse sovra­rappresenterebbero, in modo sproporzionato e irragionevole, il voto a favore della lista vincitrice.

25.3.– Con la seconda questione il Tribunale ordinario di Genova lamenta che l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83 del d.P.R. n. 361 del 1957 – come novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015 – prevedendo che, in caso di mancato conseguimento del premio di maggioranza al primo turno di votazione, tale premio sia attribuito in seguito ad un turno di ballottaggio a cui accedono le due liste più votate, si pongano in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Il giudice a quo ricorda, anzitutto, che il legislatore, nel disciplinare l’attribuzione del premio di maggioranza, deve contemperare ragionevolmente due contrapposti interessi di pari rilievo costituzionale, ossia il principio di rappresentatività e il principio di governabilità, e richiama, sul punto, quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014.

Ritiene, quindi, che, con le disposizioni censurate, il legislatore, limitandosi a prevedere che accedano al turno di ballottaggio le due liste più votate, purché abbiano ottenuto almeno il 3 per cento dei voti (ovvero il 20 per cento nel caso siano espressione di minoranze linguistiche), abbia, da un lato, riconosciuto che esiste un problema di rappresentatività delle liste ammesse al ballottaggio, dall’altro, però, abbia utilizzato le soglie previste, in generale, dalla legge elettorale per scoraggiare una eccessiva «polverizzazione» del voto.

Inoltre, nel valutare l’effettiva forza rappresentativa del 50 per cento più uno dei voti espressi al ballottaggio, il rimettente ritiene che si debba considerare che tale maggioranza è calcolata sui voti validi espressi, circostanza che non darebbe «alcun rilievo al peso dell’astensione». Il giudice a quo, infine, ricordando che il legislatore ha esplicitamente vietato – per il turno di ballottaggio – apparentamenti o coalizioni tra liste, ritiene che tale scelta, «evidentemente espressione di un favore per la governabilità», sarebbe irrazionale, in quanto il voto espresso al turno di ballottaggio sacrificherebbe eccessivamente il valore della rappresentatività.

In conclusione, il Tribunale ordinario di Genova assume che, «[s]enza l’adozione di meccanismi che garantiscano una adeguata espansione della componente rappresentativa del voto (ovvero senza l’eliminazione del divieto di cui si è detto), l’attribuzione del premio di maggioranza alla sola lista che, all’esito del ballottaggio, si aggiudichi il premio di maggioranza finisce per essere svincolata dalla esistenza di parametri oggettivi che consentano di affermare che la lista vincitrice ha ottenuto quella “ragionevole soglia di voti minima” in presenza della quale è possibile la legittima attribuzione del premio di maggioranza» e, per tali ragioni, chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate per violazione degli evocati parametri costituzionali.

25.4.– Il giudice a quo solleva, inoltre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, in relazione alle parole «sono comunque attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

A suo avviso, tali disposizioni devono essere interpretate nel senso che il premio di maggioranza di 340 seggi è assegnato alla lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti validi, anche nel caso in cui siano due le liste che ottengono, al primo turno, il 40 per cento dei voti. Egli ritiene, però, che – in assenza dei lamentati correttivi individuati nella prima delle questioni sollevate (calcolo delle percentuali sui votanti, anziché sugli aventi diritto, e presenza di una soglia di sbarramento al 3 per cento) – tale soluzione comprimerebbe in modo sproporzionato e irragionevole il voto degli elettori della lista che, pur avendo ottenuto al primo turno il 40 per cento dei voti, sia risultata seconda.

25.5.– Un’ulteriore questione ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, e gli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83­bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente modificati e aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, ancora per asserita violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Il rimettente, assumendo che tali disposizioni imporrebbero di procedere ad un turno di ballottaggio anche nel caso in cui una lista abbia ottenuto, al primo turno, 340 seggi, ma non anche il 40 per cento dei voti, ritiene che tale soluzione sarebbe contraddittoria «rispetto allo scopo proclamato dallo stesso legislatore».

25.6.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva questione di legittimità costituzionale anche dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Egli premette di ritenere manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dalle parti in ordine alle disposizioni che consentono solo ad alcune categorie di candidati – i capilista – di essere presentati in più collegi e che sottraggono solo costoro al voto di preferenza.

Ritiene, invece, che si ponga in contrasto con i ricordati parametri costituzionali l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, in quanto consente al capolista eletto in più collegi di operare la scelta del collegio in cui essere proclamato tale senza alcun tipo di vincolo.

A suo avviso, rientrerebbe nella libertà di voto anche la tutela della legittima aspettativa dell’elettore di influire, con l’espressione della propria preferenza, sulla effettiva elezione del candidato prescelto. Tale libertà sarebbe pregiudicata dall’assenza di qualsiasi criterio cui il capolista sia vincolato nella scelta del collegio, in quanto l’elettore non potrebbe effettuare valutazioni prognostiche sulla «utilità» del suo voto di preferenza, dato in favore di un candidato che faccia parte di una lista con capolista candidato anche in altri collegi.

25.7.– Un’ultima questione di legittimità costituzionale è sollevata dal Tribunale ordinario di Genova avverso l’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, in quanto tali disposizioni prevederebbero che, nella sola Regione Trentino­Alto Adige, possano essere assegnati tre seggi di recupero proporzionale ad una lista non apparentata con alcuna lista nazionale o espressione della minoranza linguistica vincitrice in tale Regione. Il giudice a quo lamenta una lesione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Ad avviso del rimettente le disposizioni impugnate determinerebbero «una violazione nella rappresentatività della minoranza nazionale, rispetto alla minoranza linguistica assegnataria dei tre seggi di recupero proporzionale».

Tali conseguenze lesive, ad avviso del giudice a quo, costituirebbero un ulteriore effetto indiretto del meccanismo del doppio turno di votazione, «posto che il recupero proporzionale potenzialmente lesivo delle liste di minoranza nazionali è necessario per via della istituzione degli otto collegi uninominali che vengono assegnati fin dal primo turno, senza che il ballottaggio possa incidervi».

Il rimettente ritiene, inoltre, che, in caso di mancato apparentamento della lista di minoranza con liste nazionali o con la lista vincitrice nella Regione Trentino­Alto Adige, si verificherebbe «un’incidenza del voto in uscita di gran lunga superiore al corrispettivo voto reso dagli elettori nei confronti di una lista nazionale di minoranza».

26.– In data 3 gennaio 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

26.1.– Quest’ultima chiede, in primo luogo, che tutte le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Genova siano dichiarate inammissibili, con argomenti analoghi a quelli già rappresentati nei giudizi instaurati dalle ordinanze del Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016), del Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016) e del Tribunale ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016).

26.2.– Con riferimento alle prime due censure – con le quali il rimettente chiede alla Corte costituzionale di valutare la compatibilità, rispetto ai principi costituzionali evocati, delle disposizioni che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza, al primo turno, alla lista che ottiene almeno il 40 per cento dei voti, o, al secondo turno, a chi vince il ballottaggio – l’Avvocatura generale dello Stato adduce, a sostegno della non fondatezza, argomenti analoghi a quelli rappresentati nelle memorie depositate nei giudizi instaurati dal Tribunale ordinario di Messina (reg. ord. n. 69 del 2016), dal Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016), dal Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016) e dal Tribunale ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016).

26.3.– In relazione alla terza questione sollevata dal Tribunale ordinario di Genova – nella quale si contesta la possibilità che sia assegnato il premio di maggioranza anche nel caso in cui due liste ottengano, al primo turno, il 40 per cento dei voti validi – l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, preliminarmente, che la censura sarebbe inammissibile perché priva di adeguata motivazione: in particolare, il giudice non spiegherebbe le ragioni per le quali si possa determinare un’illegittima compressione del diritto di voto degli elettori che optano per una lista seconda classificata, ove vi sia una lista diversa che abbia ottenuto più voti e maturato, quindi, il diritto a conseguire il premio di maggioranza.

Nel merito, la censura sarebbe – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – non fondata. Anzitutto, la tesi del rimettente sarebbe idonea a «colpire indistintamente» qualsiasi tipo di sistema elettorale majority assuring, e a impedire l’adozione di qualsiasi correttivo ad un sistema proporzionale: in nessun sistema che preveda il ballottaggio è stabilito che l’effetto maggioritario si produca solo con la realizzazione di un determinato «scarto» di voti tra la prima e la seconda lista. In secondo luogo, non si comprenderebbe per quale ragione, nel caso di specie, vi sarebbe una particolare compressione del diritto di voto diretto. Né, infine, potrebbe accedersi alla soluzione prospettata dal rimettente, il quale propone l’eliminazione del premio di maggioranza nell’ipotesi in cui due liste superino la soglia del 40 per cento dei voti: così operando, verrebbe illegittimamente frustrato il diritto di voto degli elettori che hanno optato per una lista risultata vincitrice, la quale potrebbe vantare un diritto all’assegnazione del premio anzidetto.

26.4.– In relazione alla quarta questione sollevata dal Tribunale ordinario di Genova, avente ad oggetto l’ipotesi in cui una lista ottenga, all’esito del primo turno, 340 seggi, ma non raggiunga anche il 40 per cento dei voti validi, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce anzitutto l’inammissibilità, poiché l’interpretazione fornita dal rimettente sarebbe «artificiosa e disancorata dal dato normativo». Il tenore letterale delle disposizioni censurate deporrebbe, invero, nel senso dell’esclusione del turno di ballottaggio nel caso in cui una lista abbia ottenuto 340 seggi, ma non anche il 40 per cento dei voti. L’Avvocatura generale dello Stato, dopo aver ricordato il contenuto del novellato art. 83, comma 1, numeri 5), 6) e 7), del d.P.R. n. 361 del 1957, osserva come, presumibilmente, il rimettente legga le disposizioni enumerate all’art. 83, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, «come un elenco assolutamente sequenziale con progressivo restringimento della fattispecie considerata a partire dalla disposizione contenuta nel numero 5)», mentre il turno di ballottaggio sarebbe indetto nel caso in cui si sommino due verifiche negative, ossia che nessuna lista abbia raggiunto il 40 per cento dei voti e non abbia conseguito almeno 340 seggi. Da ciò risulterebbe chiaro che, se una lista ottiene 340 seggi, ma non anche il 40 per cento dei voti, non si procede al turno di ballottaggio.

Osserva, infine, l’Avvocatura generale dello Stato che l’ipotesi presa in considerazione dal rimettente, «oltre a costituire un caso limite (come lo definisce lo stesso giudicante) puramente ipotetico, configurerebbe un caso di scuola erroneamente costruito»: anzitutto, il numero dei seggi da attribuire sarebbe 606, e non 618, in quanto devono essere sottratti i seggi spettanti alle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino ­ Alto Adige; in secondo luogo, il caso ipotizzato potrebbe verificarsi solo a fronte di «una frammentazione del voto assai cospicua» (secondo l’Avvocatura generale dello Stato, solo nel caso in cui quasi dieci milioni di voti siano indirizzati a liste che non superano la soglia del 3 per cento, pari a circa dieci partiti che si fermano tutti al 2,9 per cento). Da qui, l’ulteriore eccezione di inammissibilità di tale questione per la sua natura ipotetica e virtuale.

26.5.– Anche con riferimento alla quinta censura, avente ad oggetto l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, l’Avvocatura generale dello Stato adduce, sia in punto di ammissibilità, sia nel merito, argomenti analoghi a quelli contenuti negli atti di intervento nei giudizi instaurati dal Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016), dal Tribunale ordinario di Perugia (reg. ord. n. 192 del 2016) e dal Tribunale ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016).

26.6.– Con riferimento, infine, all’ultima censura sollevata dal Tribunale ordinario di Genova, il quale lamenta gli effetti derivanti dal meccanismo di attribuzione dei seggi in Trentino­Alto Adige sulla rappresentatività delle «minoranze nazionali», nel caso in cui quei seggi siano assegnati ad una lista non apparentata con una lista nazionale o espressione della minoranza linguistica, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce plurime ragioni di inammissibilità.

Anzitutto, la censura sarebbe irrilevante, poiché essa non potrebbe «che essere riferita ai soli altoatesini».

In secondo luogo, vi sarebbe una errata individuazione dell’oggetto della censura, dal momento che le norme sospettate di incostituzionalità non sarebbero contenute negli artt. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015 e 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, bensì nell’art. 2, comma 32, della predetta legge n. 52 del 2015 e nell’art. 93­bis del citato d.P.R. n. 361 del 1957.

Vi sarebbe, inoltre, un difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, poiché il rimettente non avrebbe motivato in ordine alla nozione di «minoranza», e non sarebbe, dunque, chiaro se l’effetto che egli lamenta derivi realmente dal meccanismo che egli sinteticamente denuncia ovvero – come sarebbe se la minoranza fosse una minoranza regionale – dalle disposizioni che prevedono il cosiddetto “scorporo” per l’assegnazione, in ragione proporzionale, dei seggi nella medesima Regione Trentino­Alto Adige.

27.– Con atto depositato il 29 dicembre 2016 si sono costituite in giudizio alcune delle parti del giudizio a quo, chiedendo che la Corte costituzionale dichiari ammissibili e, quindi, fondate tutte le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Genova.

Il 13 gennaio 2017, in vista dell’udienza pubblica, esse hanno depositato un’altra memoria, in cui adducono argomenti a favore dell’ammissibilità di tutte le questioni sollevate, nonché della loro fondatezza. In tale memoria esse, in particolare, insistono per l’accoglimento delle questioni aventi ad oggetto le disposizioni che prevedono l’assegnazione del premio di maggioranza, sia al primo turno, sia al turno di ballottaggio. Inoltre, con riferimento alla censura avente ad oggetto il meccanismo di assegnazione dei seggi nella Regione Trentino­Alto Adige, le parti osservano che le disposizioni censurate determinerebbero una violazione, non del diritto degli elettori di tale Regione, bensì di tutti gli altri elettori, i quali, a causa del «privilegio» dei primi, rischierebbero di vedere ancora più ridotto il numero degli eletti delle liste di minoranza, «con una ulteriore enfatizzazione del meccanismo premiale».

Anche tali parti ripropongono dinnanzi alla Corte costituzionale il primo motivo dell’atto introduttivo del giudizio a quo, relativo alla procedura di approvazione della legge n. 52 del 2015, motivo ritenuto dal Tribunale ordinario di Genova manifestamente infondato. Con ampiezza di argomenti, sollecitano la Corte costituzionale a sollevare dinnanzi a se stessa questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto l’intera legge n. 52 del 2015, per asserita violazione dell’art. 72, quarto comma, Cost.

28.– Nel giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Genova hanno spiegato intervento ad adiuvandum C.T., A.B. e E.Z., con atto depositato il 23 dicembre 2016, e M.M. e altri sette con atto depositato il 30 dicembre 2016.

Gli intervenienti C.T., A.B. e E.Z., in data 30 dicembre 2016, hanno anche depositato una memoria in vista dell’udienza pubblica del 24 gennaio 2017.

In ordine alla loro legittimazione ad intervenire nel giudizio, gli intervenienti hanno sottolineato di essere parti in giudizi analoghi a quello da cui hanno avuto origine le questioni oggetto del giudizio di costituzionalità, e di essere titolari dello stesso diritto fondamentale, della cui portata è chiesto l’accertamento dinnanzi a diversi giudici.

Gli intervenienti M.M. e altri sette hanno argomentato, in ordine alla propria legittimazione ad intervenire nel giudizio di fronte alla Corte costituzionale, nella memoria depositata il 12 gennaio 2017, in vista dell’udienza pubblica.

29.– Con atto di intervento depositato in data 3 gennaio 2017, il Codacons, in persona del suo legale rappresentante G.U., e quest’ultimo, «in proprio nella qualità di elettore», hanno chiesto di intervenire – oltre che nel giudizio reg. ord. n. 265 del 2016 – anche nel giudizio instaurato dal Tribunale ordinario di Genova. Sulla propria legittimazione ad intervenire sono addotti argomenti nella memoria depositata il 13 gennaio 2017.

Considerato in diritto

1.– Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali ordinari di Messina (reg. org. n. 69 del 2016), Torino (reg. org. n. 163 del 2016), Perugia (reg. org. n. 192 del 2016), Trieste (reg. org. n. 265 del 2016) e Genova (reg. org. n. 268 del 2016) hanno ad oggetto disposizioni che disciplinano l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

In particolare, mentre le quattro ordinanze da ultimo citate sottopongono a censura disposizioni del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), e della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati), la sola ordinanza del Tribunale ordinario di Messina coinvolge, oltre a queste ultime, anche norme contenute nel decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica).

1.1.– Tra le plurime questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali ordinari menzionati, cinque hanno ad oggetto le modalità di attribuzione del premio di maggioranza.

La prima di queste, sollevata dal solo Tribunale ordinario di Messina, investe l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come modificati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015.

Ad avviso del rimettente, le disposizioni censurate violerebbero il principio di eguaglianza del voto garantito dall’art. 48, secondo comma, Cost., secondo cui ciascun voto contribuisce «potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi». La lesione deriverebbe dal fatto che esse delineano un sistema in cui: il premio di maggioranza è attribuito, al primo turno, alla lista che ha ottenuto il 40 per cento dei voti, calcolando tale percentuale sui votanti e non sugli aventi diritto al voto; tale premio è attribuito anche all’esito di un ballottaggio tra le due liste più votate; ed è contestualmente prevista una soglia di sbarramento al 3 per cento, su base nazionale.

Nel dispositivo dell’ordinanza sono menzionati, come parametri asseritamente violati, anche gli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., nonché l’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Il Tribunale ordinario di Genova, per parte sua, solleva tre questioni di legittimità costituzionale relative alle modalità di attribuzione del premio di maggioranza al primo turno di votazione.

Una prima censura investe l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015. Ad avviso del rimettente, tali disposizioni, prevedendo che, al primo turno di votazione, sia attribuito un premio di maggioranza pari a 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi, violerebbero gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. Secondo il rimettente, «non risultando neppure previsto alcun rapporto fra i voti ottenuti rispetto non già ai voti validi ma al complesso degli aventi diritto al voto», ed essendo contemporaneamente prevista una soglia di sbarramento al 3 per cento, il voto espresso a favore della lista vincente risulterebbe sovrarappresentato, in modo sproporzionato e irragionevole.

Il Tribunale ordinario di Genova solleva, inoltre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, in relazione alle parole «sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. Secondo il giudice a quo, la circostanza che, in tale ipotesi, il premio sia comunque attribuito a quella delle due liste che abbia ottenuto più voti, comprometterebbe il diritto di voto degli elettori della lista arrivata seconda che, pur avendo ottenuto anch’essa al primo turno il 40 per cento dei voti, vedrebbe ridotto il proprio numero di deputati per effetto della distorsione derivante dall’attribuzione del premio di maggioranza.

Il medesimo Tribunale solleva un’ulteriore questione di legittimità costituzionale, censurando l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83­bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente sostituiti e aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015 – lamentando ancora la violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. In particolare, il rimettente si duole dell’asserito obbligo di procedere al turno di ballottaggio anche nel caso in cui una lista abbia ottenuto, al primo turno, 340 seggi, ma non anche il 40 per cento dei voti, ritenendo ciò «contraddittorio rispetto allo scopo proclamato dallo stesso legislatore».

Infine, i Tribunali ordinari di Torino, Perugia, Trieste e Genova sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015. Il solo Tribunale ordinario di Genova censura anche l’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 1, della legge n. 52 del 2015.

I giudici a quibus dubitano che tali disposizioni – in virtù delle quali, se nessuna lista ottiene, al primo turno, almeno il 40 per cento dei voti validamente espressi, il premio di maggioranza è attribuito in seguito ad un turno di ballottaggio cui accedono le due liste più votate – siano conformi agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. In particolare, i rimettenti osservano che tali disposizioni, prevedendo che, ai fini dell’attribuzione del premio, si svolga un turno di ballottaggio cui accedono le sole due liste più votate, stabiliscono quale unica condizione che esse abbiano ottenuto al primo turno almeno il 3 per cento dei voti validi espressi (ovvero almeno il 20 per cento, se rappresentative di minoranze linguistiche), aggiungendo che in tale turno non sono ammessi apparentamenti o coalizioni tra liste, e che il premio di maggioranza sia attribuito a chi ha ottenuto il 50 per cento più uno dei voti validi espressi, e non degli aventi diritto al voto. Ritengono che tale sistema violi i parametri evocati, in quanto, privilegiando l’esigenza della governabilità rispetto al principio di rappresentatività, non impedirebbero che il premio sia attribuito ad una lista anche «priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale», la quale potrebbe conseguire il premio senza aver «ottenuto quella ragionevole soglia minima di voti in presenza della quale è possibile la legittima attribuzione del premio di maggioranza».

1.2.– Il solo Tribunale ordinario di Messina solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed e), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione dell’art. 56, primo e quarto comma, Cost. Il rimettente lamenta che, in virtù delle disposizioni censurate, un seggio, che deve essere assegnato in una determinata circoscrizione, possa poi risultare attribuito in un’altra (ingenerando il fenomeno del cosiddetto “slittamento”), asserendo che tale esito si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali evocati. Si duole, in particolare, della violazione del quarto comma dell’art. 56 Cost., il quale, prevedendo che «[l]a ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni […] si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione per seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti», esprimerebbe un «criterio di rappresentatività territoriale» e sarebbe anche ispirato al principio della responsabilità dell’eletto nei confronti degli elettori che lo hanno votato.

1.3.– Due ulteriori questioni di legittimità costituzionale investono le disposizioni che regolano la presentazione delle liste di candidati e la proclamazione degli eletti.

In particolare, il Tribunale ordinario di Messina solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 18­bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo comma, 51, primo comma, 56, primo e quarto comma, Cost. Tali disposizioni, da cui risulta che le liste nei singoli collegi sono composte da un capolista bloccato e da altri candidati che possono essere scelti con voto di preferenza, violerebbero l’art. 48, secondo comma, Cost., in quanto, per le liste che non ottengono il premio di maggioranza, potrebbe realizzarsi «un effetto distorsivo dovuto alla rappresentanza parlamentare largamente dominata dai capilista bloccati, pur se con il correttivo della multicandidatura», e, dunque, il voto si rivelerebbe sostanzialmente «“indiretto” e, quindi, né libero, né personale».

Il Tribunale ordinario di Torino e, in termini sostanzialmente analoghi, i Tribunali ordinari di Perugia, Trieste e Genova, sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015. Tale disposizione prevede che il candidato eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione, quale collegio plurinominale prescelga, e che, in assenza di opzione, si procede al sorteggio. Secondo i rimettenti, tale disposizione violerebbe gli artt. 3 e 48 Cost. I Tribunali ordinari di Perugia, Trieste e Genova lamentano anche la lesione dell’art. 1, secondo comma, Cost.

Con argomentazioni coincidenti, essi ritengono che la disposizione censurata, che consente al candidato capolista, eletto in più collegi plurinominali, di scegliere un collegio sulla base di una sua mera valutazione di opportunità, anziché subordinare tale opzione ad un criterio oggettivo e predeterminato, rispettoso nel massimo grado possibile della volontà espressa dagli elettori, violerebbe i parametri evocati, in quanto determinerebbe «una distorsione tra il voto di preferenza espresso dagli elettori e il suo esito in “uscita” in quel collegio», esito che sarebbe lesivo dell’uguaglianza e della libertà del voto, senza che vi sia un altro correlativo valore da salvaguardare e senza che ciò possa essere giustificato dalla tutela dell’interesse alla governabilità. Il Tribunale ordinario di Genova osserva, inoltre, che l’assenza di qualsiasi criterio nella scelta del capolista renderebbe impossibile, per l’elettore, effettuare valutazioni prognostiche sulla «utilità» del suo voto di preferenza, laddove tale voto sia espresso in favore di un candidato che faccia parte di una lista con capolista candidato anche in altri collegi.

1.4.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. Il giudice a quo parrebbe lamentare che il meccanismo di attribuzione dei seggi nella Regione autonoma Trentino­Alto Adige possa determinare una lesione della rappresentatività delle minoranze politiche nazionali, nel caso in cui queste non si siano apparentate con una lista vincitrice di seggi nella Regione a statuto speciale.

1.5.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva, infine, due questioni di legittimità costituzionale in cui è censurata la disomogeneità tra i sistemi elettorali previsti per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica.

La prima investe gli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del d.lgs. n. 533 del 1993, relativi all’elezione del Senato, come novellati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost. Ad avviso del giudice a quo, tali disposizioni, che prevedono soglie di sbarramento per l’accesso al riparto dei seggi diverse da quelle prevista nel sistema elettorale per la Camera, favorirebbero la formazione di maggioranze differenti nei due rami del Parlamento, rischiando così di compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare.

Con la seconda questione, il Tribunale ordinario di Messina dubita, invece, della conformità a Costituzione dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, in base al quale le disposizioni contenute nel medesimo art. 2 si applicano alle elezioni della Camera dei deputati a decorrere dal 1° luglio 2016. Il giudice a quo ritiene che tale previsione non sia conforme agli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione elettorale del Senato invariata (pur essendo in itinere la riforma costituzionale di questo ramo del Parlamento), si produrrebbe una situazione di palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze».

2.– Per la sostanziale identità dell’oggetto, considerando che i rimettenti sollevano perlopiù censure analoghe, con argomentazioni coincidenti e con riferimento ai medesimi parametri costituzionali, i giudizi vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.

Deve essere, inoltre, confermata l’ordinanza dibattimentale, allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei giudizi principali.

3.– In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo, in via preliminare e con argomenti coincidenti, l’inammissibilità per difetto di rilevanza di tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate.

L’Avvocatura statale osserva che i giudici a quibus avrebbero ritenuto sussistente l’interesse ad agire dei ricorrenti rispetto a disposizioni di legge non ancora applicabili. Con riferimento al giudizio introdotto dal Tribunale di Messina, tale obiezione è svolta in relazione al momento della sollevazione della questione di legittimità costituzionale. Con riguardo a tutte le altre ordinanze di rimessione, l’eccezione si riferisce alla data in cui sono esperite le azioni di accertamento da parte dei ricorrenti.

Ritiene inoltre non conferente il richiamo, operato dai giudici a quibus, al precedente costituito dalla sentenza n. 1 del 2014 di questa Corte, poiché, in quel caso, la legislazione elettorale della cui conformità a Costituzione si dubitava era già stata applicata in tre occasioni. Sottolinea invece come le disposizioni ora censurate non abbiano mai trovato applicazione, e mancherebbe perciò, ai fini della rilevanza, il fatto storico (ossia elezioni già avvenute) che dovrebbe costituire il riferimento necessario dei giudizi principali.

Tale assenza renderebbe inoltre impossibile la distinzione tra oggetto del giudizio a quo e oggetto del controllo di costituzionalità, palesando l’assenza di concretezza, incidentalità e pregiudizialità delle questioni sollevate.

Infine, osserva la difesa statale che l’esigenza di evitare le cosiddette zone franche nel sistema di giustizia costituzionale non giustificherebbe la creazione «in via pretoria» di un regime di sindacato praeter legem che, in relazione alle leggi elettorali, anticipi lo scrutinio di legittimità costituzionale, rispetto a quanto avviene per tutte le altre fonti primarie.

3.1.– Tale eccezione deve essere rigettata.

La sentenza n. 1 del 2014 costituisce il precedente cui questa Corte intende attenersi nel valutare le eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza, in relazione a questioni di legittimità costituzionale sollevate nell’ambito di giudizi introdotti da azioni di accertamento aventi ad oggetto la «pienezza» (sentenza n. 110 del 2015) – ossia la conformità ai principi costituzionali – delle condizioni di esercizio del diritto fondamentale di voto nelle elezioni politiche.

In tale sentenza, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale rispetto alla definizione del giudizio principale fu ritenuta sussistente sulla base di quattro argomenti.

In primo luogo, la presenza nell’ordinanza di rimessione di una motivazione sufficiente, e non implausibile, in ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti nel giudizio principale.

In secondo luogo, il positivo riscontro della pregiudizialità, poiché il giudizio spettante al giudice a quo e il controllo demandato a questa Corte non risultavano sovrapponibili, essendo possibile individuare una differenza tra oggetto del primo (l’accertamento della «pienezza» del diritto di voto) e oggetto del secondo (la legge elettorale politica, la cui conformità a Costituzione è posta in dubbio), residuando un margine di autonoma decisione in capo al giudice a quo, dopo l’eventuale sentenza di accoglimento di questa Corte.

In terzo luogo, la peculiarità e il rilievo costituzionale del diritto oggetto di accertamento nel giudizio a quo, cioè il diritto fondamentale di voto, che svolge una funzione decisiva nell’ordinamento costituzionale, con riferimento alle conseguenze che dal suo non corretto esercizio potrebbero derivare nella costituzione degli organi supremi ai quali è affidato uno dei poteri essenziali dello Stato, quello legislativo (sentenza n. 39 del 1973).

Infine, «l’esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico­ rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato» (così, appunto, la sentenza n. 1 del 2014). Ciò per evitare la creazione di una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale, in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico dell’ordinamento.

È bensì vero che in alcune pronunce successive alla ricordata sentenza n. 1 del 2014 questa Corte ha svolto precisazioni in relazione a questioni di legittimità costituzionale – sempre promosse nell’ambito di giudizi introdotti da azioni di accertamento – aventi ad oggetto disposizioni di legge che regolano il sistema di elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia. In tali casi, le questioni sono state dichiarate inammissibili, sia perché i giudici a quibus non avevano sufficientemente motivato sull’interesse ad agire delle parti (limitandosi a richiamare i contenuti dell’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 17 maggio 2013, n. 12060), sia, e soprattutto, perché quelle disposizioni possono pervenire al vaglio di legittimità costituzionale in un giudizio avente ad oggetto una controversia originatasi nel procedimento elettorale (sentenza n. 110 del 2015). In tale procedimento, il diritto costituzionale di voto può infatti trovare tutela, non solo successivamente alle elezioni, attraverso l’impugnazione dei risultati elettorali, ma talora anche prima di esse, nell’ambito del procedimento elettorale preparatorio (ordinanza n. 165 del 2016).

Invece, in relazione alle elezioni politiche nazionali, il diritto di voto non potrebbe altrimenti trovare tutela giurisdizionale, in virtù di quanto disposto dall’art. 66 Cost. e dall’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, come interpretati dai giudici comuni e dalle Camere in sede di verifica delle elezioni, anche alla luce della mancata attuazione della delega contenuta nell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nella parte in cui autorizzava il Governo ad introdurre la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio, oltre che per le elezioni amministrative ed europee, anche per quelle relative al rinnovo dei due rami del Parlamento nazionale (così, esplicitamente, ordinanza n. 165 del 2016; già prima, sentenze n. 110 del 2015 e n. 259 del 2009; ordinanza n. 512 del 2000).

Permanendo l’esigenza di evitare, con riferimento alla legge elettorale politica, una zona franca rispetto al controllo di costituzionalità attivabile in via incidentale, deve restar fermo quanto deciso con la sentenza n. 1 del 2014, negli stessi limiti ivi definiti.

3.2.– Tanto premesso, va anzitutto dato atto – in relazione alle ordinanze ora in esame – che tutti i Tribunali rimettenti si soffermano, con argomentazione ampia e sostanzialmente coincidente, sulla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti.

È bensì richiamata da tutti i rimettenti la citata ordinanza della Corte di cassazione, che sollevò le questioni di legittimità costituzionale decise con la sentenza n. 1 del 2014. Ma i giudici a quibus – consapevoli delle differenze tra quel caso e questi (in quanto le disposizioni ora censurate sono applicabili dal 1° luglio 2016 e non sono ancora state applicate) – illustrano le ragioni per le quali ugualmente sussiste, in capo ai ricorrenti, l’interesse ad agire.

Essi ritengono che, ai fini della proponibilità delle azioni di accertamento, sia sufficiente l’esistenza di uno stato di dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi scaturenti da un rapporto giuridico anche di fonte legale; che tale incertezza è idonea di per sé a provocare un ingiusto pregiudizio, non evitabile se non per il tramite dell’accertamento giudiziale circa l’incidenza della legge sul diritto di voto. Osservano che l’espressione del voto costituisce oggetto di un diritto inviolabile e «permanente» dei cittadini, i quali possono essere chiamati ad esercitarlo in ogni momento; pertanto, lo stato di incertezza al riguardo integra un pregiudizio concreto, di per sé sufficiente a fondare la sussistenza dell’interesse ad agire. Ricordano che le azioni di accertamento non richiedono la previa lesione in concreto del diritto rivendicato, ma sono esperibili anche al fine di scongiurare che tale lesione avvenga in futuro. Osservano, del resto, che subordinare la proponibilità dell’azione alla previa applicazione della legge, cioè allo svolgimento stesso delle elezioni, determinerebbe la lesione dei parametri costituzionali che garantiscono l’effettività e la tempestività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113, secondo comma, Cost.).

I Tribunali rimettenti argomentano altresì sulla sussistenza della pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale prospettate ai fini della definizione dei giudizi principali, sostenendo che in questi ultimi sarebbe individuabile un petitum separato, distinto e più ampio rispetto a quello oggetto del giudizio di legittimità costituzionale: all’esito della sentenza di questa Corte, che ha ad oggetto la legittimità costituzionale della legge elettorale, spetterebbe, infatti, al giudice a quo la verifica di tutte le condizioni da cui tale legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto. Inoltre, non vi sarebbe neppure coincidenza tra il dispositivo della sentenza di questa Corte e quello della sentenza che definisce il giudizio di merito, la quale ultima, accertata l’avvenuta lesione del diritto azionato, lo può ripristinare nella pienezza della sua espansione, seppure per il tramite della sentenza costituzionale.

Il Tribunale di Messina, in particolare, riconosce che al momento della rimessione delle questioni di legittimità costituzionale (17 febbraio 2016), le disposizioni censurate erano entrate in vigore, ma risultavano ad efficacia differita, poiché il legislatore (all’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, peraltro anch’esso posto in dubbio, per altri profili, dal medesimo giudice) ha stabilito che il nuovo sistema elettorale si applichi per l’elezione della Camera dei deputati a decorrere dal 1° luglio 2016.

Osserva il giudice a quo che l’interesse ad agire dei ricorrenti sussisterebbe comunque, poiché le disposizioni censurate erano già entrate in vigore al momento in cui le questioni sono state effettivamente sollevate. Essendo inoltre stabilito che esse sarebbero state efficaci a partire da una data certa, non vi sarebbe alcun dubbio, né sull’an, né sul quando, in ordine alla loro idoneità ad incidere sul diritto di voto, del quale i ricorrenti del giudizio principale chiedono sia accertata la portata.

Il rimettente aggiunge, anche sotto tale profilo, che l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, risultando sufficiente che l’attore se ne qualifichi come titolare e lamenti uno stato di incertezza oggettiva sulla sua portata. E osserva che la stessa entrata in vigore di una legge elettorale, sia pur contenente norme ad efficacia differita (ma a data certa), alimenta tale condizione oggettiva di incertezza circa la pienezza (conforme a Costituzione) del diritto fondamentale di voto.

3.3.– La giurisprudenza di questa Corte ritiene che una motivazione sufficiente e non implausibile sulla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti basti ad escludere un riesame dell’apprezzamento compiuto dal giudice a quo ai fini dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale (con riferimento alle stesse azioni di accertamento in materia elettorale, sentenze n. 110 del 2015 e n. 1 del 2014; ordinanza n. 165 del 2016; più in generale, sentenze n. 154 del 2015, n. 91 del 2013 e n. 50 del 2007). Del resto, l’apprezzamento su una condizione dell’azione quale l’interesse ad agire è tipicamente compito del giudice rimettente.

Nel caso sottoposto all’attuale scrutinio di ammissibilità, caratterizzato da elementi di novità, le non implausibili ragioni addotte dai giudici a quibus trovano peraltro riscontro e conferma in argomentazioni ulteriori, congruenti con quelle addotte da questi ultimi.

In esso, l’incertezza oggettiva sulla portata del diritto di voto è direttamente ricollegabile alla modificazione dell’ordinamento giuridico dovuta alla stessa entrata in vigore della legge elettorale, alla luce dei contenuti di disciplina che essa introduce nell’ordinamento. Non rileva la circostanza che, come avviene in questo caso, le disposizioni della legge siano ad efficacia differita, poiché il legislatore – stabilendo che le nuove regole elettorali siano efficaci a partire dal 1° luglio 2016 – non ha previsto una condizione sospensiva dell’operatività di tali regole, legata al verificarsi di un evento di incerto accadimento futuro, ma ha indicato un termine certo nell’an e nel quando per la loro applicazione. Il fatto costitutivo che giustifica l’interesse ad agire è dunque ragionevolmente individuabile nella disciplina legislativa già entrata in vigore, sebbene non ancora applicabile al momento della rimessione della questione, oppure al momento dell’esperimento dell’azione di accertamento: le norme elettorali regolano il diritto di voto e l’incertezza riguarda la portata di quest’ultimo, con il corollario di potenzialità lesiva, già attuale, sebbene destinata a manifestarsi in futuro, in coincidenza con la sua sicura applicabilità (a decorrere dal 1° luglio 2016). La rimozione di tale incertezza rappresenta, quindi, un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non attraverso l’intervento del giudice. Ne deriva la sussistenza, nei giudizi a quibus, di un interesse ad agire in mero accertamento.

Quanto osservato vale sia con riferimento all’ordinanza del Tribunale di Messina, sia con riferimento ai giudizi instaurati dagli altri quattro tribunali, in relazione ai quali l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce che le disposizioni censurate non erano ancora applicabili al momento dell’esperimento delle azioni di accertamento da parte dei ricorrenti. E conduce perciò al rigetto della relativa eccezione.

Da quanto rilevato, deriva inoltre, e a fortiori, il rigetto dell’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, in relazione alle questioni prospettate dai Tribunali di Torino, Perugia, Trieste e Genova, di cui è contestata la rilevanza, alla luce della circostanza che le disposizioni censurate non hanno mai trovato applicazione, nessuna elezione essendosi mai svolta sulla base di esse.

È la giurisprudenza di legittimità a chiarire, in generale, che è la natura dell’azione di accertamento a non richiedere necessariamente la previa lesione in concreto del diritto, ai fini della sussistenza dell’interesse ad agire, ben potendo tale azione essere esperita anche al fine di scongiurare una futura lesione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 10 novembre 2016, n. 22946; Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 23 giugno 2015, n. 12893; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 luglio 2015, n. 16262).

Nella sentenza n. 1 del 2014, questa stessa Corte, con specifico riferimento alle sole elezioni del Parlamento nazionale, ha del resto affermato che l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale allora sollevate in giudizio «costituisce anche l’ineludibile corollario del principio che impone di assicurare la tutela del diritto inviolabile di voto, pregiudicato – secondo l’ordinanza del giudice rimettente – da una normativa elettorale non conforme ai principi costituzionali, indipendentemente da atti applicativi della stessa, in quanto già l’incertezza sulla portata del diritto costituisce una lesione giuridicamente rilevante».

Infine, neppure ha fondamento l’obiezione secondo la quale le questioni sollevate difetterebbero di pregiudizialità, essendo impossibile distinguere tra oggetto dei giudizi a quibus e oggetto del controllo di costituzionalità.

Come già osservato da questa Corte (sentenze n. 110 del 2015 e n. 1 del 2014), nel giudizio principale il petitum consiste nella richiesta di accertare la pienezza costituzionale del diritto di voto; nel giudizio costituzionale, invece, si chiede di dichiarare che il diritto di voto è pregiudicato dalla disciplina vigente. Tale pregiudizialità sussiste anche nei casi all’attuale scrutinio, nei quali la legge elettorale non è ancora stata applicata, poiché la domanda dei ricorrenti è pur sempre quella di accertare la portata del diritto di voto, e tale accertamento prescinde dalla sua già avvenuta lesione in una tornata elettorale.

4.– Le parti costituite nei giudizi instaurati dai Tribunali ordinari di Messina, Perugia, Trieste e Genova, con motivazioni sostanzialmente coincidenti, sollecitano questa Corte a sollevare di fronte a se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’intera legge n. 52 del 2015, «con particolare riferimento ai suoi articoli fondamentali (1, 2 e 4)», poiché essa sarebbe stata approvata, prima al Senato e poi alla Camera, «in palese violazione dell’art. 72, commi 1 e 4, Cost. e dell’art. 3 del protocollo CEDU (per come richiamato dall’art. 117, comma 1, Cost.)».

Lamentano, in particolare, che, alla Camera, gli artt. 1, 2 e 4 della legge n. 52 del 2015 sono stati approvati ricorrendo al voto di fiducia; che, al Senato, l’esame in commissione è stato compresso nei tempi e nei modi; e che, sempre al Senato, nel corso dell’esame in assemblea, è stato presentato e approvato un emendamento che ha inserito nel testo della legge un preambolo riassuntivo dei caratteri essenziali del sistema elettorale, così da determinare l’inammissibilità di tutti gli ulteriori emendamenti presentati.

Le parti ricordano, peraltro, che nei quattro giudizi principali menzionati, nei quali la corrispondente eccezione era stata prospettata, essa è stata rigettata perché manifestamente infondata.

Tale istanza, concernendo asseriti vizi del procedimento parlamentare di formazione della legge n. 52 del 2015, il cui accertamento potrebbe comportare la caducazione dell’intera legge, va esaminata in via preliminare.

Essa è, tuttavia, inammissibile.

Per costante giurisprudenza, il giudizio di legittimità costituzionale non può estendersi oltre i limiti fissati dall’ordinanza di rimessione, ricomprendendo profili ulteriori indicati dalle parti. Questi ultimi non possono concorrere ad ampliare il thema decidendum proposto dinnanzi a questa Corte, ma ne debbono restare esclusi, sia che essi siano diretti ad estendere o modificare il contenuto o i profili determinati dall’ordinanza di rimessione, sia che – come è avvenuto in questi casi – essi abbiano formato oggetto dell’eccezione proposta dalle parti stesse nel giudizio principale, senza essere stati poi fatti propri dal giudice nell’ordinanza stessa (tra le tante, sentenze n. 83 del 2015, n. 94 del 2013, n. 42 del 2011, n. 86 del 2008 e n. 49 del 1999).

Ben vero che, nel caso di specie, le parti – anziché proporre direttamente l’estensione del thema decidendum – chiedono che la Corte costituzionale sollevi di fronte a sé la questione: ma l’obbiettivo perseguito è il medesimo, ossia l’estensione del giudizio di legittimità costituzionale a profili diversi da quelli individuati dai giudici rimettenti.

Una pronuncia d’inammissibilità s’impone, inoltre, in ragione della circostanza, già ricordata, che nei giudizi principali le relative eccezioni hanno formato oggetto di pronunce di manifesta infondatezza. E la sollecitazione affinché questa Corte decida di sollevare di fronte a sé questioni già ritenute manifestamente infondate finisce per configurarsi, nella sostanza, come improprio ricorso a un mezzo di impugnazione delle decisioni dei giudici a quibus.

5.– Passando all’esame delle singole questioni di legittimità costituzionale, la prima censura sollevata dal Tribunale ordinario di Messina ha ad oggetto l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, e gli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente sostituiti dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015. Tali disposizioni delineano un sistema in cui: il premio di maggioranza è attribuito, al primo turno, alla lista che ha ottenuto il 40 per cento dei voti, calcolando tale percentuale sui votanti e non sugli aventi diritto al voto; il premio è attribuito anche all’esito di un turno di ballottaggio; è prevista una soglia di sbarramento al 3 per cento su base nazionale per accedere al riparto dei seggi.

Il giudice rimettente ritiene che tale complessiva disciplina contrasti con l’art. 48, secondo comma, Cost., per cui ciascun voto contribuisce «potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi».

Nel solo dispositivo dell’ordinanza, perciò senza alcuna illustrazione delle ragioni di contrasto con le disposizioni censurate, sono evocati gli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., nonché l’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU. Come da costante giurisprudenza, le questioni sollevate in riferimento a tali parametri costituzionali sono inammissibili, in quanto prive di alcuna motivazione in punto di non manifesta infondatezza (sentenze n. 59 del 2016, n. 248 e n. 100 del 2015; ordinanze n. 122 e n. 33 del 2016).

In relazione alla residua questione di legittimità costituzionale, motivata sulla base del contrasto delle disposizioni censurate con il solo art. 48, secondo comma, Cost., l’Avvocatura generale dello Stato identifica due distinte censure, l’una relativa alla previsione del premio di maggioranza, l’altra all’introduzione di una soglia di sbarramento al 3 per cento. Di entrambe eccepisce l’inammissibilità per carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

Il tenore della prospettazione dell’ordinanza di rimessione e la circostanza che il giudice a quo formuli, in proposito, un unico dispositivo, inducono, tuttavia, a ritenere che sia stata sollevata una sola censura, per quanto utilizzando tre distinti argomenti (uno dei quali è, appunto, quello fondato sulla coesistenza del premio di maggioranza e della soglia di sbarramento al 3 per cento).

Così formulata, la questione è inammissibile.

Il giudice rimettente intende censurare il complessivo sistema attraverso il quale il legislatore ha scelto di attribuire il premio di maggioranza, al primo e al secondo turno. Ciò avviene, tuttavia, attraverso una motivazione particolarmente sintetica, in cui non sono distinti i singoli profili di censura relativi ai diversi caratteri del sistema elettorale. Non si comprende se l’asserita necessità di introdurre un quorum di votanti per l’attribuzione del premio di maggioranza sia riferibile al primo o al secondo turno, o a entrambi. Non sono illustrate le ragioni per le quali l’attribuzione del premio determinerebbe un’irragionevole compressione della rappresentatività della Camera dei deputati, e, nuovamente, non è spiegato se tale compressione si verifichi al primo turno, al secondo, o in entrambi.

Infine, l’oscurità della motivazione è accentuata dall’evocazione del solo art. 48, secondo comma, Cost., che dovrebbe da solo reggere l’intera censura sollevata (comparendo, come detto, gli ulteriori parametri costituzionali asseritamente lesi nel solo dispositivo dell’ordinanza).

Così formulata, la questione finisce per sollecitare una valutazione dai caratteri indistinti ed imprecisati, relativa nella sostanza all’intero sistema elettorale introdotto dalla legge n. 52 del 2015. Tale imprecisione nei profili di censura, unitamente alla carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza, determinano l’impossibilità di comprendere l’effettivo petitum avanzato dal giudice a quo (sentenze n. 130 e n. 32 del 2016, n. 247 e n. 126 del 2015).

6.– Il Tribunale ordinario di Genova ritiene che l’attribuzione di 340 seggi alla lista che, al primo turno di votazione, ottenga, a livello nazionale, il 40 per cento dei voti – calcolata tale percentuale sui suffragi validamente espressi – comprima irragionevolmente l’eguaglianza del voto e la rappresentatività della Camera, e censura perciò l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e gli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5) e 6), e 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come rispettivamente modificati e sostituiti dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, lamentando la violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Il giudice a quo, pur osservando che – in astratto considerata – la soglia minima di voti necessaria per ottenere il premio non si presterebbe a censure, dubita della ragionevolezza in concreto di tale soglia dopo aver operato alcuni calcoli matematici, che dimostrerebbero l’eccessiva distorsione del voto in uscita a favore della lista vincente al primo turno.

Tale distorsione, in particolare, deriverebbe dalla circostanza che il calcolo della percentuale è operato sul numero di voti validi espressi e non in relazione al complesso degli aventi diritto al voto, dovendosi inoltre considerare, nella valutazione dell’intero sistema, la compresenza del premio e della soglia di sbarramento del 3 per cento su base nazionale per l’accesso delle liste al riparto dei seggi.

Alla luce di tali argomenti, il giudice a quo sollecita una dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni che prevedono il premio di maggioranza al primo turno.

Così formulata, la questione non è fondata.

Preliminarmente, è da rilevare che questa Corte ha sempre riconosciuto al legislatore un’ampia discrezionalità nella scelta del sistema elettorale che ritenga più idoneo in relazione al contesto storico­politico in cui tale sistema è destinato ad operare, riservandosi una possibilità di intervento limitata ai casi nei quali la disciplina introdotta risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993, ordinanza n. 260 del 2002). Con specifico riferimento a sistemi elettorali che innestano un premio di maggioranza su di un riparto di seggi effettuato con formula proporzionale, la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che, in assenza della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi cui condizionare l’attribuzione del premio, il meccanismo premiale è foriero di un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa (sentenze n. 1 del 2014, n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008).

Le disposizioni portate ora all’esame di legittimità costituzionale prevedono, invero, una soglia minima di voti validi per l’attribuzione del premio, pari al 40 per cento di questi. Si è pertanto in presenza di un premio “di maggioranza”, che consente di attribuire la maggioranza assoluta dei seggi in un’assemblea rappresentativa alla lista che abbia conseguito una determinata maggioranza relativa. Alla luce della ricordata discrezionalità legislativa in materia, tale soglia non appare in sé manifestamente irragionevole, poiché volta a bilanciare i principi costituzionali della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e dell’eguaglianza del voto, da un lato, con gli obbiettivi, pure di rilievo costituzionale, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro.

A ritenere il contrario, si dovrebbe argomentare la non compatibilità con i principi costituzionali di una determinata soglia numerica per l’attribuzione del premio, fino a considerare – quale condizione per il positivo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità della disciplina premiale – la sola attribuzione, non già di un premio “di maggioranza”, ma di un premio “di governabilità”, condizionato al raggiungimento di una soglia pari almeno al 50 per cento dei voti e/o dei seggi, e destinato ad aumentare, al fine di assicurare la formazione di un esecutivo stabile, il numero di seggi di una lista o di una coalizione che quella soglia abbia già autonomamente raggiunto.

Al cospetto della discrezionalità spettante in materia al legislatore, sfugge dunque, in linea di principio, al sindacato di legittimità costituzionale una valutazione sull’entità della soglia minima in concreto prescelta dal legislatore (attualmente pari al 40 per cento dei voti validi, e del resto progressivamente innalzata nel corso dei lavori parlamentari che hanno condotto all’approvazione della legge n. 52 del 2015). Ma resta salvo il controllo di proporzionalità riferito alle ipotesi in cui la previsione di una soglia irragionevolmente bassa di voti per l’attribuzione di un premio di maggioranza determini una tale distorsione della rappresentatività da comportarne un sacrificio sproporzionato, rispetto al legittimo obbiettivo di garantire la stabilità del governo del Paese e di favorire il processo decisionale.

L’esito dello scrutinio fin qui condotto non è inficiato dalla circostanza, messa criticamente in luce dal giudice a quo, per cui la soglia del 40 per cento è calcolata sui voti validi espressi, anziché sul complesso degli aventi diritto al voto. Pur non potendosi in astratto escludere che, in periodi di forte astensione dal voto, l’attribuzione del premio avvenga a favore di una lista che dispone di un’esigua rappresentatività reale, condizionare il premio al raggiungimento di una soglia calcolata sui voti validi espressi ovvero sugli aventi diritto costituisce oggetto di una delicata scelta politica, demandata alla discrezionalità del legislatore e non certo soluzione costituzionalmente obbligata (sentenza n. 173 del 2005).

Del resto, anche nella sentenza n. 1 del 2014 questa Corte accolse la questione di legittimità costituzionale in relazione a disposizioni elettorali che non prevedevano l’attribuzione di un premio condizionato al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi, senza alcun riferimento agli aventi diritto al voto.

Infine, nemmeno pone in discussione la conclusione raggiunta l’ulteriore carattere criticamente evocato dal rimettente al fine di sollecitare l’accoglimento delle questioni sollevate, cioè la presenza, accanto al premio, di un correttivo alla rappresentatività (sentenza n. 1 del 2014), costituito dalla soglia di sbarramento del 3 per cento sui voti validamente espressi su base nazionale, quale condizione per l’accesso delle liste al riparto dei seggi.

In linea generale, infatti, anche «[l]a previsione di soglie di sbarramento e quella delle modalità per la loro applicazione […] sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla governabilità» (sentenza n. 193 del 2015).

Nel caso di specie, invero, il giudice a quo dubita degli effetti derivanti dalla contestuale previsione di un premio di maggioranza e di una soglia di sbarramento, traendo proprio da tale compresenza la convinzione dell’illegittimità costituzionale del premio.

Tuttavia, in primo luogo, le previsioni della legge n. 52 del 2015 introducono una soglia di sbarramento non irragionevolmente elevata, che non determina, di per sé, una sproporzionata distorsione della rappresentatività dell’organo elettivo.

Inoltre, non può essere la compresenza di premio e soglia, nelle specifiche forme ed entità concretamente previste dalla legge elettorale, a giustificare una pronuncia d’illegittimità costituzionale del premio. Ben vero che qualsiasi soglia di sbarramento comporta un’artificiale alterazione della rappresentatività di un organo elettivo, che in astratto potrebbe aggravare la distorsione pure indotta dal premio. Ma non è manifestamente irragionevole che il legislatore, in considerazione del sistema politico­partitico che intende disciplinare attraverso le regole elettorali, ricorra contemporaneamente, nella sua discrezionalità, a entrambi tali meccanismi. Del resto, se il premio ha lo scopo di assicurare l’esistenza di una maggioranza, una ragionevole soglia di sbarramento può a sua volta contribuire allo scopo di non ostacolarne la formazione. Né è da trascurare che la soglia può favorire la formazione di un’opposizione non eccessivamente frammentata, così attenuando, anziché aggravando, i disequilibri indotti dalla stessa previsione del premio di maggioranza.

7.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva questioni di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, nella parte in cui prevede che «sono comunque attribuiti 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi», e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4 del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, poiché tali disposizioni consentono l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui due liste superino, al primo turno, il 40 per cento di essi.

Se è da respingere l’eccezione d’inammissibilità per carenze motivazionali sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, risultando chiaro ed argomentato ciò che il giudice a quo lamenta, la questione non è comunque fondata nel merito.

Il rimettente assume, correttamente, che le disposizioni censurate debbano essere interpretate nel senso che – nell’ipotesi in cui due liste superino, al primo turno, il 40 per cento dei voti – il premio di maggioranza andrebbe comunque assegnato, e attribuito alla lista che ha ottenuto più voti. Ritiene tuttavia che, in tale ipotesi, la lista risultata seconda vedrebbe irragionevolmente ridotto il proprio numero di deputati, per effetto della distorsione derivante dall’attribuzione del premio, con lesione dei parametri costituzionali evocati.

Sull’esito del voto al primo turno possono essere formulate varie ipotesi, il cui realizzarsi è più o meno probabile o possibile, a seconda del concreto atteggiarsi del sistema politico. Ma è comunque nella logica di un sistema elettorale con premio di maggioranza che alle liste di minoranza, a prescindere dalla percentuale di voti raggiunta, sia attribuito un numero di seggi inferiore rispetto a quello che sarebbe loro assegnato nell’ambito di un sistema proporzionale senza correttivi. Tale logica, ovviamente, vale anche per la lista che giunge seconda, né rileva la circostanza che anch’essa abbia ottenuto il 40 per cento dei voti validi, ma un numero totale di voti inferiore, in assoluto, rispetto alla lista vincente.

Il giudice rimettente domanda una pronuncia additiva, che dichiari costituzionalmente illegittime le disposizioni censurate, nella parte in cui non escludono l’assegnazione del premio nell’ipotesi descritta.

Tale richiesta non ha alcun fondamento, innanzitutto alla luce della appena affermata (punto 6) non manifesta irragionevolezza delle previsioni della legge n. 52 del 2015 che disciplinano l’assegnazione del premio al primo turno.

Inoltre, e infine – anche a prescindere dall’intrinseca contraddittorietà di un sistema elettorale, quale quello prefigurato dal rimettente, che stabilisca di non assegnare il premio se al primo turno due liste superino il 40 per cento dei voti, ovvero se lo scarto di voti tra la lista vincente e le altre non corrisponda ad una determinata quantità o percentuale – un’addizione di questo genere non apparterrebbe in radice ai poteri di questa Corte, spettando, semmai, alla discrezionalità del legislatore.

8.– Lo stesso Tribunale ordinario di Genova solleva questioni di legittimità costituzionale – sempre per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83­bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4), del d.P.R. n. 361 del 1957, come novellati dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015 – ritenendo che tali disposizioni imporrebbero irragionevolmente di procedere ad un turno di ballottaggio anche se una lista abbia ottenuto, al primo turno, 340 seggi, ma non il 40 per cento dei voti. Osserva, in particolare, il giudice a quo che l’obbligo di procedere anche in questo caso al turno di ballottaggio sarebbe contraddittorio rispetto alla ratio stessa che ispira la legge n. 52 del 2015, quella cioè di consentire la formazione di una salda maggioranza politica, in seggi, alla Camera.

L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità di tali questioni per due ragioni.

Ritiene, in primo luogo, che il rimettente non abbia illustrato le ragioni che impediscono di interpretare le disposizioni censurate nel senso che, se una lista raggiunge al primo turno 340 seggi, ma non anche il 40 per cento dei voti, il ballottaggio non ha luogo, deducendo da ciò l’inammissibilità della questione. Tale prima eccezione va rigettata, concernendo in realtà il merito della questione e non la sua ammissibilità.

In secondo luogo, assume l’Avvocatura generale dello Stato che il caso ipotizzato dal rimettente sia solo virtuale e che, dunque, la questione sarebbe inammissibile perché ipotetica. Anche tale eccezione non è fondata, dal momento che non si può in assoluto escludere – ed è la stessa Avvocatura ad ammetterlo – che tale eventualità possa realmente verificarsi, sia pure in ipotesi del tutto residuali.

Nel merito, la questione non è tuttavia fondata.

Le disposizioni censurate stabiliscono che, all’esito del primo turno di votazione, l’Ufficio centrale nazionale verifica se la cifra elettorale nazionale della lista che ha ottenuto più suffragi corrisponda ad almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi (art. 83, comma 1, numero 5, del d.P.R. n. 361 del 1957) e, quindi, se tale lista abbia conseguito almeno 340 seggi (art. 83, comma 1, numero 6, del d.P.R. n. 361 del 1957).

Se la verifica di cui al comma 1, numero 5), del citato art. 83 ha avuto esito negativo, si procede ad un turno di ballottaggio fra le liste che abbiano ottenuto al primo turno le due maggiori cifre elettorali nazionali.

Se, invece, è la verifica di cui al comma 1, numero 6), ad aver fornito esito negativo – poiché la lista ha ottenuto il 40 per cento dei voti ma non ha conseguito 340 seggi – a tale lista sono attribuiti seggi aggiuntivi, sino ad arrivare a 340.

Dalla formulazione letterale di queste disposizioni, compendiate nel primo periodo dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 («sono attribuiti comunque 340 seggi alla lista che ottiene, su base nazionale, almeno il 40 per cento dei voti validi»), il rimettente deduce che debba essere indetto il turno di ballottaggio anche nel caso in cui una lista abbia ottenuto 340 seggi, ma non il 40 per cento dei voti. Censura, dunque, l’irragionevolezza di tale soluzione, asserendone la contraddittorietà e lamentando che da essa deriverebbe un’eccessiva compressione dell’eguaglianza del voto e della rappresentatività della Camera.

Il giudice a quo giunge tuttavia a tale soluzione muovendo da un errato presupposto interpretativo (ex multis, sentenze n. 204, n. 203, n. 106 e n. 95 del 2016).

Ben vero che l’art. 83, comma 1, numero 7), del più volte ricordato d.P.R. n. 361 del 1957 stabilisce che resta ferma l’attribuzione dei seggi effettuata dall’Ufficio centrale se abbia avuto esito positivo «la verifica di cui al numero 6)» del comma 1 del medesimo articolo, ossia nel caso in cui la lista che ha ottenuto il 40 per cento dei voti «abbia conseguito almeno 340 seggi». Ed è anche vero che il succedersi delle operazioni di verifica stabilite ai numeri 5) e 6) del comma 1 dell’art. 83 può far ritenere che solo una lista che abbia ottenuto il 40 per cento dei voti possa anche aver ottenuto 340 seggi. In altre parole, il modo in cui sono letteralmente delineate le distinte operazioni di verifica (nonché lo stesso tenore testuale dell’art. 1, comma 1, lettera f, della legge n. 52 del 2015) sembra non ricomprendere proprio l’ipotesi che il giudice a quo individua, cioè il caso in cui una lista abbia conseguito 340 seggi ma non il 40 per cento del totale dei voti validamente espressi. Si verserebbe perciò in un’ipotesi in cui non ha dato esito positivo la verifica di cui al comma 1, numero 6), dell’art. 83, derivandone la necessità del turno di ballottaggio.

L’interpretazione meramente letterale delle disposizioni ricordate è tuttavia fuorviante, poiché consegna un risultato il quale, prima ancora che irragionevole, è in contrasto con la ratio complessiva cui è ispirata la legge n. 52 del 2015. Tale risultato può e deve essere evitato attraverso una lettura sistematica delle disposizioni rilevanti al fine di stabilire se il turno di ballottaggio debba o meno aver luogo, ricomprendendo in essa l’art. 83, comma 1, numero 7), del d.P.R. n. 361 del 1957, che, invece, il giudice a quo, né censura, né considera nel proprio iter argomentativo.

Poiché, infatti, carattere distintivo della legge elettorale in esame è quello di favorire la formazione di una maggioranza, ossia fare in modo che una lista disponga, alla Camera, di 340 seggi, si deve interpretare l’appena citato art. 83, comma 1, numero 7) – il cui significato, come detto, il rimettente non tenta nemmeno di lumeggiare – nel senso che resta ferma l’attribuzione dei seggi effettuata dall’Ufficio centrale nazionale (quella di cui al comma 1, numero 4, del citato art. 83), quando la lista abbia già ottenuto 340 seggi, cioè quando abbia avuto «esito positivo» la verifica di cui al comma 1, numero 6), della medesima disposizione, anche a prescindere dalla percentuale dei voti ottenuti da tale lista. In altri termini, l’esito positivo cui si riferisce quella disposizione non può non ricomprendere anche l’ipotesi che il giudice a quo considera. E poiché in tale ipotesi l’obbiettivo perseguito dalla legge è già stato raggiunto, non è necessario procedere al turno di ballottaggio. Ne consegue la non fondatezza della questione.

9.– Con argomentazioni in larga parte coincidenti, e talora sovrapponibili, i Tribunali ordinari di Torino, Perugia, Trieste e Genova dubitano della compatibilità con gli artt. 1, secondo comma, 3, e 48, secondo comma, Cost. delle disposizioni della legge n. 52 del 2015, nelle parti in cui prevedono – se nessuna lista ha raggiunto, al primo turno, almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi – un turno di ballottaggio fra le liste che abbiano superato la soglia di sbarramento nazionale del 3 per cento e abbiano ottenuto, al primo turno, le due maggiori cifre elettorali nazionali. Censurano, di conseguenza, l’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015. Il Tribunale ordinario di Genova coinvolge nella censura anche l’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 1, della legge n. 52 del 2015.

9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle questioni per tre distinte ragioni.

In relazione alle ordinanze dei Tribunali ordinari di Torino, Perugia e Trieste, le questioni sarebbero, anzitutto, inammissibili per erronea o inesatta indicazione della disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale. I giudici a quibus, censurando l’intero art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, non avrebbero correttamente individuato la porzione di disposizione che regola il turno di ballottaggio, coinvolgendo anche le parti di essa che prevedono le modalità di attribuzione del premio al primo turno.

Questa prima eccezione non è fondata, in quanto l’oggetto della questione è facilmente individuabile. Si tratta della seconda parte dell’art. 1, comma 1, lettera f), dalle parole «o, in mancanza,» sino al termine del periodo, dovendosi tenere altresì conto del fatto che i rimettenti sospettano d’illegittimità costituzionale, nel contempo, anche l’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957 che, appunto, prevede il turno di ballottaggio. È infatti ben possibile circoscrivere l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte della disposizione censurata, se ciò è chiaramente suggerito, come in questo caso, dalla complessiva motivazione dell’ordinanza (ex plurimis, sentenze n. 203 del 2016 e n. 84 del 2016).

Secondo la difesa statale, le questioni sollevate dagli stessi Tribunali ordinari di Torino, Perugia e Trieste sarebbero, inoltre, inammissibili per contraddittorietà della prospettazione, in quanto i rimettenti riterrebbero necessario il superamento di un quorum di aventi diritto al voto al solo turno di ballottaggio, in cui è assegnato un premio di maggioranza pari al 5 per cento dei seggi, ma non anche nel primo turno, in cui, invece, il premio può raggiungere il 15 per cento di questi.

Anche tale eccezione non è fondata. L’obiezione dell’Avvocatura generale dello Stato si spiega alla luce della ben diversa prospettiva assunta da quest’ultima circa il turno di ballottaggio, e riguarda quindi il merito della questione, non invece la sua ammissibilità. Inoltre, la prospettazione dei rimettenti non è contraddittoria, perché essi illustrano con ampiezza di argomenti le ragioni per le quali ritengono che i parametri costituzionali evocati siano violati dalla sola previsione di un turno di ballottaggio.

Infine – eccepisce la difesa statale con riferimento alle questioni sollevate dai Tribunali ordinari di Torino, Trieste e Genova – i giudici a quibus sarebbero incorsi in una aberratio ictus, non avendo ricompreso tra le disposizioni oggetto di censura quella che prevede la soglia di sbarramento al 3 per cento.

Nemmeno questa eccezione ha fondamento, se si considera che i rimettenti non contestano la soglia di sbarramento in sé, né chiedono a questa Corte di pronunciarsi su di essa. Piuttosto, si dolgono del fatto che al premio possano accedere liste che hanno ottenuto, al primo turno, anche una percentuale assai bassa di voti, essendo in linea teorica sufficiente il 3 per cento dei voti validi.

9.2.– Quanto al merito della censura, i giudici a quibus lamentano che la maggioranza risultante dal turno di ballottaggio sarebbe «artificiosa», in quanto il legislatore si sarebbe limitato a prevedere che a tale turno accedano le sole due liste più votate (purché ottengano il 3 per cento dei voti validi espressi, o il 20 per cento se rappresentative di minoranze linguistiche); in quanto il premio sarebbe attribuito a chi ottiene il 50 per cento più uno dei voti validi espressi, senza alcuna considerazione per l’importanza, anche rilevante, che potrebbe assumere l’astensione dal voto, come prevedibile conseguenza della radicale riduzione dell’offerta elettorale nel turno di ballottaggio, e quindi senza prevedere correttivi, quali, ad esempio, il raggiungimento di un quorum minimo di votanti in tale turno, o di un quorum minimo al primo turno; e in quanto è esclusa, in vista del turno di ballottaggio, qualsiasi forma di collegamento fra liste.

Secondo i rimettenti, tali complessive modalità di assegnazione del premio al turno di ballottaggio, senza correttivi, comporterebbero il rischio che il premio sia attribuito a una formazione politica priva di adeguato radicamento nel corpo elettorale.

I giudici a quibus, in sostanza, dubitano della conformità ai parametri costituzionali evocati delle previsioni normative relative al turno di ballottaggio per l’assegnazione del premio, perché – a loro dire – il modo in cui tale turno è concretamente disciplinato determinerebbe un’alterazione eccessiva e sproporzionata della rappresentatività della Camera dei deputati, in nome dell’esigenza di favorire in Parlamento la formazione di una maggioranza idonea ad assicurare uno stabile e saldo sostegno al Governo.

In conseguenza di ciò, sollecitano una dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli art. 1 e 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come novellati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015: una pronuncia, cioè, che condurrebbe non già alla modifica della specifica disciplina relativa al turno di ballottaggio, ma alla sua caducazione.

In definitiva, nella prospettazione dei Tribunali rimettenti, i tre aspetti del turno di ballottaggio criticamente sottolineati (una lista può accedere ad esso anche solo raggiungendo il 3 per cento dei voti al primo turno; al ballottaggio, la soglia del 50 per cento più uno dei voti necessari per ottenere il premio è calcolata sui voti validi espressi e non sugli aventi diritto; non sono consentiti apparentamenti o collegamenti tra liste) costituiscono argomenti a sostegno di una censura volta a ottenere l’eliminazione dello stesso turno di ballottaggio, e non singoli profili d’illegittimità costituzionale (come, invece, sembra ritenere l’Avvocatura generale dello Stato, le cui memorie, infatti, oscillano tra la difesa del turno di ballottaggio in sé, e la distinta difesa dell’assenza di ciascuno dei tre caratteri individuati dai rimettenti).

La questione è fondata.

Come si è già ricordato, ben può il legislatore innestare un premio di maggioranza in un sistema elettorale ispirato al criterio del riparto proporzionale di seggi, purché tale meccanismo premiale non sia foriero di un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa (sentenza n. 1 del 2014).

Il legislatore ha ritenuto di tener fede alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, sia prevedendo una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio di maggioranza, sia disponendo che, qualora nessuna lista raggiunga 340 seggi, si proceda a un turno di ballottaggio tra le due liste più votate. Se, come sopra affermato (punto 6), la prima previsione non determina un’irragionevole compressione della rappresentatività dell’organo elettivo, sono invece le concrete modalità dell’attribuzione del premio attraverso il turno di ballottaggio a determinare la lesione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost.

Innanzitutto, nel sistema delineato dalla legge n. 52 del 2015, il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione. In questa prospettiva, al turno di ballottaggio accedono le sole due liste più votate al primo turno, senza che siano consentite, tra i due turni, forme di collegamento o apparentamento fra liste. Inoltre, la ripartizione percentuale dei seggi, anche dopo lo svolgimento del turno di ballottaggio, resta – per tutte le liste diverse da quella vincente, ed anche per quella che partecipa, perdendo, al ballottaggio – la stessa del primo turno. Il turno di ballottaggio serve dunque ad individuare la lista vincente, ossia a consentire ad una lista il raggiungimento di quella soglia minima di voti che nessuna aveva invece ottenuto al primo turno.

È vero – come osserva l’Avvocatura generale dello Stato – che la soglia minima si innalza, al secondo turno, al 50 per cento più uno dei voti, ma non potrebbe che essere così, dal momento che le liste ammesse al ballottaggio sono solo due. La legge n. 52 del 2015, prevedendo una competizione risolutiva tra due sole liste, prefigura stringenti condizioni che rendono inevitabile la conquista della maggioranza assoluta dei voti validamente espressi da parte della lista vincente; e poiché, per le caratteristiche già ricordate, il ballottaggio non è che una prosecuzione del primo turno di votazione, il premio conseguentemente attribuito resta un premio di maggioranza, e non diventa un premio di governabilità. Ne consegue che le disposizioni che disciplinano l’attribuzione di tale premio al ballottaggio incontrano a loro volta il limite costituito dall’esigenza costituzionale di non comprimere eccessivamente il carattere rappresentativo dell’assemblea elettiva e l’eguaglianza del voto.

Il rispetto di tali principi costituzionali non è tuttavia garantito dalle disposizioni censurate: una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno. Le disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella sentenza n. 1 del 2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente.

Il legittimo perseguimento dell’obbiettivo della stabilità di Governo, di sicuro interesse costituzionale, provoca in tal modo un eccessivo sacrificio dei due principi costituzionali ricordati. Se è vero che, nella legge n. 52 del 2015, il turno di ballottaggio fra le liste più votate ha il compito di supplire al mancato raggiungimento, al primo turno, della soglia minima per il conseguimento del premio, al fine di indicare quale sia la parte politica destinata a sostenere, in prevalenza, il governo del Paese, tale obbiettivo non può giustificare uno sproporzionato sacrificio dei principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza del voto, trasformando artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta.

Anche in questo caso, pertanto, si conclude negativamente lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.), il quale impone di verificare – anche in ambiti, quale quello in esame, connotati da ampia discrezionalità legislativa – che il bilanciamento dei principi e degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva.

Le disposizioni censurate producono una sproporzionata divaricazione tra la composizione di una delle due assemblee che compongono la rappresentanza politica nazionale, centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, da un lato, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, «che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare secondo l’art. 1 della Costituzione» (sentenza n. 1 del 2014), dall’altro. È vero che, all’esito del ballottaggio, il premio non è determinato artificialmente, conseguendo pur sempre ad un voto degli elettori, ma se il primo turno dimostra che nessuna lista, da sola, è in grado di conquistare il premio di maggioranza, soltanto le stringenti condizioni di accesso al turno di ballottaggio conducono, attraverso una radicale riduzione dell’offerta politica, alla sicura attribuzione di tale premio.

Inoltre, è vero che la previsione legislativa di un turno di ballottaggio eventuale – basato su una competizione risolutiva fra due sole liste, finalizzata ad attribuire alla lista vincente la maggioranza assoluta dei seggi nell’assemblea rappresentativa – innesta tratti maggioritari nel sistema elettorale delineato dalla legge n. 52 del 2015. Ma tale innesto non cancella la logica prevalente della legge, fondata su una formula di riparto proporzionale dei seggi, che resta tale persino per la lista perdente al ballottaggio, la quale mantiene quelli guadagnati al primo turno. Sicché il perseguimento della finalità di creare una maggioranza politica governante in seno all’assemblea rappresentativa, destinata ad assicurare (e non solo a favorire) la stabilità del governo, avviene a prezzo di una valutazione del peso del voto in uscita fortemente diseguale, al fine dell’attribuzione finale dei seggi alla Camera, in lesione dell’art. 48, secondo comma, Cost.

È necessario sottolineare che non è il turno di ballottaggio fra liste in sé, in astratto considerato, a risultare costituzionalmente illegittimo, perché in radice incompatibile con i principi costituzionali evocati. In contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. sono invece le specifiche disposizioni della legge n. 52 del 2015, per il modo in cui hanno concretamente disciplinato tale turno, in relazione all’elezione della Camera dei deputati.

Il turno di voto qui scrutinato – con premio assegnato all’esito di un ballottaggio in un collegio unico nazionale con voto di lista – non può essere accostato alle esperienze, proprie di altri ordinamenti, ove al ballottaggio si ricorre, nell’ambito di sistemi elettorali maggioritari, per l’elezione di singoli rappresentanti in collegi uninominali di ridotte dimensioni. In casi del genere, trattandosi di eleggere un solo rappresentante, il secondo turno è funzionale all’obbiettivo di ridurre la pluralità di candidature, fino ad ottenere la maggioranza per una di esse, ed è dunque finalizzato, oltre che alla elezione di un solo candidato, anche a garantirne l’ampia rappresentatività nel singolo collegio.

Appartiene invece ad una logica diversa – presentandosi quale istanza risolutiva all’interno di una competizione elettorale selettiva fra le sole due liste risultate più forti, nell’ambito di un collegio unico nazionale – l’assegnazione di un premio di maggioranza, innestato su una formula elettorale in prevalenza proporzionale, finalizzato a completare la composizione dell’assemblea rappresentativa, con l’obbiettivo di assicurare (e non solo di favorire) la presenza, in quest’ultima, di una maggioranza politica governante. Se utilizzato in un tale contesto, che trasforma in radice la logica e lo scopo della competizione elettorale (gli elettori non votano per eleggere un solo rappresentante di un collegio elettorale di limitate dimensioni, ma per decidere a quale forza politica spetti, nell’ambito di un ramo del Parlamento nazionale, sostenere il governo del Paese), un turno di ballottaggio a scrutinio di lista non può non essere disciplinato alla luce della complessiva funzione che spetta ad un’assemblea elettiva nel contesto di un regime parlamentare.

Nella forma di governo parlamentare disegnata dalla Costituzione, la Camera dei deputati è una delle due sedi della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), accanto al Senato della Repubblica. In posizione paritaria con quest’ultimo, la Camera concede la fiducia al Governo ed è titolare delle funzioni di indirizzo politico (art. 94 Cost.) e legislativa (art. 70 Cost.). L’applicazione di un sistema con turno di ballottaggio risolutivo, a scrutinio di lista, dovrebbe necessariamente tenere conto della specifica funzione e posizione costituzionale di una tale assemblea, organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero ordinamento, considerando che, in una forma di governo parlamentare, ogni sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile, non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività.

Le stringenti condizioni cui la legge n. 52 del 2015 sottopone l’accesso al ballottaggio non adempiono, si è detto, a tali compiti essenziali. Ma non potrebbe essere questa Corte a modificare, tramite interventi manipolativi o additivi, le concrete modalità attraverso le quali il premio viene assegnato all’esito del ballottaggio, inserendo alcuni, o tutti, i correttivi la cui assenza i giudici rimettenti lamentano. Ciò spetta all’ampia discrezionalità del legislatore (ad esempio, in relazione alla scelta se attribuire il premio ad una singola lista oppure ad una coalizione tra liste: sentenza n. 15 del 2008), al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi.

Inoltre, alcuni di questi interventi (che, in astratto considerati, potrebbero rendere il turno di ballottaggio compatibile con i tratti qualificanti dell’organo rappresentativo nazionale) non sarebbero comunque nella disponibilità di questa Corte, a causa della difficoltà tecnica di restituire, all’esito dello scrutinio di legittimità costituzionale, una disciplina elettorale immediatamente applicabile, complessivamente idonea a garantire l’immediato rinnovo dell’organo costituzionale elettivo (da ultimo, sentenza n. 1 del 2014).

Merita, infine, precisare che l’affermata illegittimità costituzionale delle disposizioni scrutinate non ha alcuna conseguenza né influenza sulla ben diversa disciplina del secondo turno prevista nei Comuni di maggiori dimensioni, già positivamente esaminata da questa Corte (sentenze n. 275 del 2014 e n. 107 del 1996). Tale disciplina risponde, infatti, ad una logica distinta da quella che ispira la legge n. 52 del 2015. È pur vero che nel sistema elettorale comunale l’elezione di una carica monocratica, quale è il sindaco, alla quale il ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione dell’organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca all’interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall’elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale.

Dall’insieme delle considerazioni svolte deriva la dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 (dalle parole «o, in mancanza» alle parole «tra i due turni di votazione»), dell’ultima parte dell’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 (ossia delle parole «, ovvero a seguito di un turno di ballottaggio ai sensi dell’art. 83»), e dell’art. 83, comma 5, dello stesso d.P.R. n. 361 del 1957.

La normativa che resta in vigore a seguito della caducazione del citato comma 5 dell’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957 è idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo, così come richiesto dalla costante giurisprudenza costituzionale (oltre alla già citata sentenza n. 1 del 2014, sentenze n. 13 del 2012, n. 16 e 15 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995, n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, n. 29 del 1987). Infatti, qualora, all’esito del primo turno, la lista con la maggiore cifra elettorale nazionale non abbia ottenuto almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi, s’intende che resta fermo il riparto dei seggi – tra le liste che hanno superato le soglie di sbarramento di cui all’art. 83, comma 1, numero 3), del d.P.R. n. 361 del 1957 – ai sensi del comma 1, numero 4), del medesimo art. 83.

10.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva questioni di legittimità costituzionale su alcune parti della disciplina che la legge n. 52 del 2015 prevede in tema di assegnazione dei seggi e di proclamazione degli eletti. Per asserita violazione dell’art. 56 Cost., sono censurati, in particolare, l’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed e), della legge ricordata, e gli artt. 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, questi ultimi come sostituiti dall’art. 2, commi 25 e 26, della medesima legge n. 52 del 2015.

Il rimettente lamenta che, in virtù delle disposizioni ricordate, un seggio, da assegnarsi in una determinata circoscrizione, potrebbe risultare assegnato in un’altra (ingenerando un fenomeno di traslazione di seggi, noto anche con il termine “slittamento”). Assume che tale esito si porrebbe in contrasto con l’art. 56 Cost. e si duole, in particolare, della violazione del suo quarto comma, il quale prevede che «[l]a ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni […] si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti».

Nella visione del rimettente, tale norma esprimerebbe i principi della rappresentanza cosiddetta territoriale e della responsabilità dell’eletto rispetto agli elettori che lo hanno votato, asseritamente lesi dalle disposizioni censurate, nelle parti in cui prevedono che, se una lista ha esaurito, in una circoscrizione, il numero dei candidati potenzialmente eleggibili, i seggi spettanti a quella lista vengono trasferiti in un’altra circoscrizione in cui vi siano candidati “eccedentari”.

10.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle censure, innanzitutto in quanto il giudice a quo non avrebbe illustrato la disciplina prevista dalla legge n. 52 del 2015 in tema di assegnazione dei seggi, limitandosi a lamentare la «complessità tecnica del meccanismo elettorale» e «la farraginosità della normativa censurata (ampiamente esposta nel ricorso)». In particolare, la difesa statale assume che le questioni sarebbero inammissibili in quanto il rimettente avrebbe rinviato per relationem al ricorso delle parti.

Tale eccezione non è fondata.

Il rimettente ha ricordato le doglianze delle parti e successivamente – sia pure in modo sintetico – ha motivato per quali ragioni le ha ritenute non manifestamente infondate in relazione all’art. 56 Cost. Ha, cioè, chiarito il senso della censura proposta, sia pure esponendo che la farraginosità della disciplina censurata era stata lamentata nel ricorso delle parti. In definitiva, il giudice a quo rinvia all’atto di parte non per l’individuazione dei termini delle questioni prospettate (come nel precedente ricordato dall’Avvocatura generale dello Stato: ordinanza n. 239 del 2012), ma solo con riferimento all’illustrazione del meccanismo di assegnazione dei seggi.

L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, la manifesta inammissibilità delle questioni, in quanto il rimettente avrebbe erroneamente individuato le disposizioni oggetto della questione di legittimità costituzionale: da un lato, risulterebbe «troppo ampio» il riferimento all’art. 83, commi da 1 a 5, del d.P.R. n. 361 del 1957; dall’altro, sarebbe errato il riferimento all’art. 84, commi 2 e 4, del medesimo corpus normativo.

L’eccezione è solo in parte fondata.

Secondo costante giurisprudenza costituzionale, è possibile circoscrivere l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte soltanto della o delle disposizioni censurate, se ciò è suggerito dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 203 del 2016 e n. 84 del 2016). Per questo, l’eccezione è da rigettare nella parte in cui lamenta che il riferimento all’art. 83, dal comma 1 al comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957 risulta eccessivamente ampio: ben si comprende, infatti, che la censura relativa alla traslazione dei seggi tra circoscrizioni, nella fase della loro assegnazione, riguarda specificamente l’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n. 361 del 1957.

L’eccezione è invece, fondata per la parte in cui sottolinea che il Tribunale ordinario di Messina, pur lamentando la possibilità che si verifichino casi di traslazione di seggi da una circoscrizione ad un’altra, ha erroneamente fatto oggetto di censura anche i commi 2 e 4 dell’art. 84 del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituiti dall’art. 2, comma 26, della medesima legge n. 52 del 2015, i quali, invece, consentono che si verifichino traslazioni di seggi, nella fase della proclamazione degli eletti, da un collegio plurinominale ad un altro.

La traslazione di seggi da una circoscrizione ad un’altra nella fase della proclamazione degli eletti è infatti consentita dall’art. 84, comma 3, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957.

La censura del rimettente, in riferimento all’art. 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957 è dunque inammissibile per aberratio ictus (sentenze n. 140 del 2016, n. 216 e n. 157 del 2015; ordinanze n. 182, n. 153, n. 47 e n. 24 del 2016, n. 128 del 2015).

D’altra parte, anche a intenderla come rivolta all’eventuale traslazione di un seggio, nella fase della proclamazione degli eletti, da un collegio plurinominale ad un altro, la censura sarebbe inammissibile per assoluta carenza di motivazione. Il rimettente, infatti, si limita a lamentare lo slittamento tra circoscrizioni, e soprattutto non si interroga sull’eventualità che l’art. 56, quarto comma, Cost. esprima un principio vincolante anche per la distribuzione dei seggi nei collegi, cioé in relazione ad ambiti territoriali più ridotti rispetto alle circoscrizioni.

10.2.– Resta dunque da scrutinare nel merito, rispetto a quanto disposto dall’art. 56, quarto comma, Cost., la questione avente ad oggetto l’art. 83, comma 1, numero 8), del più volte citato d.P.R. n. 361 del 1957, che regola l’assegnazione dei seggi tra le diverse circoscrizioni (e non anche tra i collegi plurinominali), insieme all’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed e), della legge n. 52 del 2015, il quale – nella prospettiva del rimettente – riassume i caratteri del sistema elettorale che consentono l’effetto traslativo dei seggi qui lamentato.

É utile preliminarmente ricordare che la legge n. 52 del 2015 – come prevede l’art. 1, comma 1, lettera a) – suddivide il territorio nazionale in venti circoscrizioni, a loro volta ripartite in cento collegi plurinominali (fatti salvi i collegi uninominali nelle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino­Alto Adige), individuati con decreto legislativo.

L’indicazione del numero dei seggi da attribuire alle singole circoscrizioni e ai singoli collegi plurinominali di ciascuna circoscrizione spetta, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 361 del 1957, ad un decreto del Presidente della Repubblica, da approvare contestualmente a quello di convocazione dei comizi elettorali, «sulla base dei risultati dell’ultimo censimento generale della popolazione, riportati dalla più recente pubblicazione ufficiale dell’Istituto nazionale di statistica».

Tale operazione è effettuata prima dello svolgimento delle elezioni.

Il giudice a quo censura, invero, il meccanismo normativo di assegnazione dei seggi alle singole liste previsto all’esito delle elezioni, sulla base dei voti ottenuti da ciascuna lista (meccanismo che, secondo quanto prevede l’art. 1, comma 1, lettera d, della legge n. 52 del 2015, si fonda su una attribuzione dei seggi su base nazionale con il metodo dei quozienti interi e dei più alti resti).

Secondo tale disciplina, dopo che l’Ufficio centrale nazionale ha stabilito quanti seggi spettano a ciascuna lista a livello nazionale (art. 83, comma 1, numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7, e commi 2, 3, 4, 5 e 6, del d.P.R. n. 361 del 1957), il medesimo ufficio, ai sensi del censurato art. 83, comma 1, numero 8), del citato d.P.R., distribuisce i seggi nelle varie circoscrizioni, in proporzione al numero di voti che ogni lista ha ottenuto in ciascuna di esse (con l’eccezione delle circoscrizioni Trentino­Alto Adige e Valle d’Aosta).

L’ufficio deve quindi verificare – e proprio in questa fase può verificarsi l’eventualità della traslazione – se la somma dei seggi assegnati alle liste nelle circoscrizioni corrisponda al numero dei seggi loro spettanti a livello nazionale, ovvero se vi siano liste che, in base al riparto a livello circoscrizionale, ne hanno ottenuti di più (liste cosiddette “eccedentarie”) ovvero di meno (liste cosiddette “deficitarie”) rispetto a quelli loro spettanti a livello nazionale.

In tale secondo caso, l’Ufficio centrale nazionale è chiamato ad operare delle correzioni.

L’art. 83, comma 1, numero 8), prevede che i seggi siano sottratti, a partire dalla lista che ha il maggior numero di seggi eccedenti (e, in caso di parità, a partire da quella che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale nazionale), proseguendo poi con le altre liste, in ordine decrescente di seggi eccedenti.

L’ufficio sottrae tali seggi nelle circoscrizioni in cui la lista li ha ottenuti con le minori parti decimali dei quozienti di attribuzione (ossia, con un numero minore di voti).

Quei seggi, così sottratti, sono assegnati, nella medesima circoscrizione, alle liste deficitarie per le quali le parti decimali dei quozienti di attribuzione non hanno dato luogo all’assegnazione di alcun seggio (ossia nei casi in cui la lista non ha ottenuto il seggio perché il numero di voti conseguiti non è stato sufficiente a raggiungere un quoziente intero).

Se non è possibile che tale compensazione si realizzi secondo le modalità appena ricordate – in quanto non vi siano, in una medesima circoscrizione, liste deficitarie con parti decimali dei quozienti inutilizzate – l’Ufficio centrale nazionale deve proseguire, per la stessa lista eccedentaria, nell’ordine dei decimali crescenti, fino ad individuare un’altra circoscrizione all’interno della quale sia contestualmente possibile sottrarre il seggio alla lista eccedentaria e assegnarlo a quella deficitaria.

Il complesso di tali previsioni – e in particolare quella da ultimo ricordata (introdotta, al Senato, nel corso dei lavori preparatori della legge n. 52 del 2015) – ha l’obbiettivo di consentire che le compensazioni avvengano all’interno di una medesima circoscrizione, anche a costo di danneggiare la lista eccedentaria, la quale potrebbe risultare privata del seggio non nella circoscrizione dove ha ottenuto meno voti, ma in quella in cui ne ha ottenuti di più. E tale operazione è condotta allo scopo di impedire che le compensazioni avvengano, come più frequentemente accadeva nella vigenza dei precedenti sistemi elettorali, tra circoscrizioni diverse. Dunque, proprio per evitare che si verifichino traslazioni di seggi da una circoscrizione ad un’altra.

Infatti, solo nell’ipotesi in cui – nonostante tutte le operazioni descritte – permanga l’impossibilità di effettuare la compensazione tra liste eccedentarie e deficitarie in una medesima circoscrizione, si applica, quale norma di chiusura, la disposizione censurata, contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 83, comma 1, numero 8) («[n]el caso in cui non sia possibile fare riferimento alla medesima circoscrizione ai fini del completamento delle operazioni precedenti, fino a concorrenza dei seggi ancora da cedere, alla lista eccedentaria vengono sottratti i seggi nelle circoscrizioni nelle quali essa li ha ottenuti con le minori parti decimali del quoziente di attribuzione, e alla lista deficitaria sono conseguentemente attribuiti seggi nelle altre circoscrizioni nelle quali abbia le maggiori parti decimali del quoziente di attribuzione non utilizzate»).

Alla luce di tali premesse, la questione non è fondata.

L’Avvocatura generale dello Stato, ai fini del rigetto, obietta che l’art. 56, quarto comma, Cost. vincolerebbe il legislatore a tenere in conto l’entità della popolazione di ogni circoscrizione, con riferimento specifico alle elezioni della Camera dei deputati, nella sola fase, preliminare alle elezioni, della ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni. Tale norma costituzionale, invece, non riguarderebbe il meccanismo di assegnazione dei seggi alle singole liste, effettuato dopo le elezioni.

L’obiezione non coglie nel segno.

Sostenere che i contenuti precettivi dell’art. 56, quarto comma, Cost. si riferiscano soltanto al momento antecedente alle elezioni, ossia alla sola ripartizione dei seggi fra le diverse circoscrizioni e non anche alla fase della loro assegnazione alle liste dopo le elezioni, autorizzerebbe il sostanziale aggiramento del significato della norma costituzionale. Essa non si limita, invero, a prescrivere che i seggi da assegnare a ciascuna circoscrizione siano ripartiti in proporzione alla popolazione, prima delle elezioni. Essa intende anche impedire che tale ripartizione possa successivamente esser derogata, al momento della assegnazione dei seggi alle diverse liste nelle circoscrizioni, sulla base dei voti conseguiti da ciascuna di esse.

La contraria lettura, sulla base di un’interpretazione formalistica dell’art. 56, quarto comma, Cost., potrebbe legittimare, all’esito del voto, anche consistenti traslazioni di seggi da una circoscrizione all’altra, tali da pregiudicare la garanzia di una proporzionale distribuzione dei seggi sul territorio nazionale.

La non fondatezza della questione, con riferimento allo specifico sistema elettorale previsto, per la Camera dei deputati, dalla legge n. 52 del 2015, deriva, piuttosto, dalla circostanza, prima dimostrata, che il complesso sistema di assegnazione dei seggi previsto dalla disciplina introdotta dalla legge n. 52 del 2015 dispiega ampie cautele proprio allo scopo di evitare la traslazione che il giudice a quo lamenta. E dal fatto che l’effetto traslativo, attraverso l’applicazione della disposizione indubbiata, si presenta, di risulta, solo se il ricorso a quelle cautele si riveli inutile, in casi limite che il legislatore intende come del tutto residuali.

La non fondatezza della censura si rivela, ancor più nitidamente, alla luce della necessità di interpretare il disposto di cui all’art. 56, quarto comma, Cost. in modo non isolato, ma in sistematica lettura con i principi desumibili dagli artt. 67 e 48 Cost.

Da questo punto di vista, il sistema di assegnazione dei seggi nelle circoscrizioni previsto dalla legge n. 52 del 2015 – che ricomprende, quale ipotesi residuale, la disposizione censurata – costituisce l’esito del bilanciamento fra principi ed esigenze diversi, non sempre tra loro perfettamente armonizzabili (analogamente, sia pure con riferimento alla diversa disciplina prevista per l’elezione dei membri italiani del Parlamento europeo, sentenza n. 271 del 2010).

Da un lato, il principio desumibile, appunto, dall’art. 56, quarto comma, Cost., posto a garanzia di una rappresentanza commisurata alla popolazione di ciascuna porzione del territorio nazionale; dall’altro, la necessità di consentire l’attribuzione dei seggi sulla base della cifra elettorale nazionale conseguita da ciascuna lista (soluzione, tra l’altro, funzionale – nel sistema elettorale ora in esame – allo scopo di individuare le liste che superano la soglia di sbarramento del 3 per cento, secondo quanto previsto anche dall’art. 1, comma 1, lettera e, della legge n. 52 del 2015, nonché la lista cui eventualmente attribuire il premio di maggioranza); infine l’esigenza di tenere conto, nella prospettiva degli elettori, del consenso ottenuto da ciascuna lista nelle singole circoscrizioni, alla luce dell’art. 48 Cost.

Il disposto di cui all’art. 56, quarto comma, Cost. non può essere infatti inteso nel senso di richiedere, quale soluzione costituzionalmente obbligata, un’assegnazione di seggi interamente conchiusa all’interno delle singole circoscrizioni, senza tener conto dei voti che le liste ottengono a livello nazionale (come, ad esempio, nel caso di un sistema elettorale interamente fondato su collegi uninominali a turno unico; oppure di un sistema proporzionale con riparto dei seggi solo a livello circoscrizionale, senza alcun recupero dei resti a livello nazionale).

L’art. 56, quarto comma, Cost. non è preordinato a garantire la rappresentanza dei territori in sé considerati (sentenza n. 271 del 2010), ma, come si è detto, tutela la distinta esigenza di una distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione delle diverse parti del territorio nazionale: la Camera resta, infatti, sede della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), e la ripartizione in circoscrizioni non fa venir meno l’unità del corpo elettorale nazionale, essendo le singole circoscrizioni altrettante articolazioni di questo nelle varie parti del territorio.

Con riferimento al sistema elettorale introdotto dalla legge n. 52 del 2015, se è costituzionalmente legittimo che il riparto di seggi avvenga a livello nazionale (eventualità che del resto il giudice a quo non contesta), l’art. 56, quarto comma, Cost. deve essere quindi osservato fin tanto che ciò sia ragionevolmente possibile, senza escludere la legittimità di residuali ed inevitabili ipotesi di traslazione di seggi da una circoscrizione ad un’altra.

In definitiva, il meccanismo di riparto dei seggi previsto dall’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n. 361 del 1957, non viola l’art. 56, quarto comma, Cost., poiché la traslazione di un seggio da una circoscrizione ad un’altra costituisce, nella procedura di assegnazione dei seggi, un’ipotesi residuale, che può verificarsi, per ragioni matematiche e casuali, solo quando non sia stato possibile, applicando le disposizioni vigenti, individuare nessuna circoscrizione in cui siano compresenti una lista eccedentaria ed una deficitaria con parti decimali dei quozienti non utilizzati.

La questione non è, infine, fondata nemmeno con riferimento al primo comma dell’art. 56 Cost., che contiene il principio del voto diretto. Quest’ultimo, esigendo che l’elezione dei deputati avvenga direttamente ad opera degli elettori, senza intermediazione alcuna, non viene in considerazione in relazione alle disposizioni censurate.

11.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 18­bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati o sostituiti dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015. I parametri costituzionali la cui lesione è lamentata sono l’art. 48, secondo comma, Cost. e, nel solo dispositivo dell’ordinanza di rimessione, gli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 51, primo comma, 56, primo e quarto comma, Cost.

Le questioni così sollevate investono le previsioni in base alle quali le liste, nei singoli collegi, sono composte da un candidato capolista e da un elenco di candidati, tra i quali ultimi l’elettore può esprimere fino a due preferenze per candidati di sesso diverso scelti tra quelli non capilista.

Il giudice a quo, dopo aver illustrato il sistema introdotto dalla legge n. 52 del 2015 e aver ricordato i contenuti della sentenza n. 1 del 2014 di questa Corte, osserva che, in linea di principio, un sistema misto – «in parte blindato ed in parte preferenziale» – potrebbe ritenersi coerente con le indicazioni di quella pronuncia. Dubita, tuttavia, che il sistema così introdotto garantisca all’elettore la possibilità di esprimere un voto diretto, libero e personale, in quanto, particolarmente per gli elettori che votano per le liste di minoranza, potrebbe concretamente realizzarsi un effetto distorsivo dovuto al formarsi di una rappresentanza parlamentare largamente dominata dai capilista bloccati, «pur se con il correttivo della multicandidatura».

Il giudice a quo, in altri termini, osserva che, con alta probabilità, solo la lista che consegue il premio otterrà eletti con le preferenze, mentre gli eletti nelle liste di minoranza saranno unicamente o perlopiù capilista bloccati. E ciò, egli sottolinea, pur con il correttivo della «multicandidatura»: il rimettente, dunque, non intende censurare la disposizione che consente ai capilista di candidarsi in più collegi (al massimo dieci), ma si mostra, anzi, consapevole del fatto che tale possibilità può produrre l’effetto di liberare seggi per candidati scelti attraverso il voto di preferenza (ad esempio, se una lista presenta dieci capilista diversi, ciascuno candidato in dieci collegi, potrebbe ottenere, al massimo, dieci eletti senza preferenze; se, all’estremo opposto, quella lista presenta un diverso capolista in ciascuno dei cento collegi, potrebbe avere fino a cento eletti senza preferenze).

Ciononostante, il rimettente lamenta la violazione della libertà del diritto di voto degli elettori delle liste di minoranza. Mentre, infatti, la lista che consegue il premio di maggioranza, ottenendo 340 seggi, avrà con certezza almeno 240 deputati eletti con le preferenze (e anche di più se – come detto – i capilista si candidano in più collegi), alle liste perdenti non potranno che essere attribuiti i restanti 278 seggi e, se tali liste sono in numero superiore a tre, in teoria potrebbero ottenere soltanto deputati eletti senza preferenze.

11.1.– Preliminarmente all’esame del merito della questione, va rilevato che sono inammissibili le censure proposte con riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 51, primo comma, 56, primo e quarto comma, Cost., in quanto non motivate, non essendo tali parametri costituzionali neppure evocati nella parte motiva, ma esclusivamente nel dispositivo (sentenze n. 59 del 2016, n. 248 del 2015, n. 100 del 2015; ordinanze n. 122 e n. 33 del 2016).

Deve invece essere rigettata l’eccezione d’inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale assume che la questione sarebbe posta in modo contraddittorio. Il rimettente, essa sostiene, dapprima avrebbe affermato che la previsione di soli capilista bloccati e liste corte sarebbe conforme a quanto affermato, in materia, dalla giurisprudenza di questa Corte, per poi lamentare comunque che le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 48 Cost. in relazione all’elezione dei candidati delle liste di minoranza.

Inoltre, per la difesa statale, il rimettente avrebbe così affermato, solo apoditticamente e senza dimostrarlo, che risulterebbero eletti «tutti e soli i capilista» di queste ultime.

In realtà, il giudice a quo, pur consapevole che le «multicandidature» dei capilista possono attenuare l’effetto lesivo che lamenta – l’elezione di soli candidati bloccati nelle liste di minoranza – ha tuttavia ritenuto prevalenti le conseguenze asseritamente incostituzionali delle disposizioni censurate, in quanto l’elezione di candidati con preferenze sarebbe comunque rimessa, per quelle liste, alle scelte dei singoli partiti.

11.2.– Così formulata, la questione non è fondata.

Nella sentenza n. 1 del 2014, questa Corte rilevò che il sistema allora vigente determinava la lesione della libertà del voto garantita dall’art. 48, secondo comma, Cost., poiché non consentiva all’elettore alcun margine di scelta dei propri rappresentanti, prevedendo un voto per una lista composta interamente da candidati bloccati, nell’ambito di circoscrizioni molto ampie e in presenza di liste con un numero assai elevato di candidati, potenzialmente corrispondenti all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, perciò difficilmente conoscibili dall’elettore. In quel sistema, alla totalità dei parlamentari, senza alcuna eccezione, mancava il sostegno della indicazione personale degli elettori, in lesione della logica della rappresentanza prevista dalla Costituzione. Simili condizioni di voto, che imponevano all’elettore di una lista di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati – che non aveva avuto modo né di conoscere né di valutare – perciò automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendevano quella disciplina «non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)».

In sostanza, mentre lede la libertà del voto un sistema elettorale con liste bloccate e lunghe di candidati, nel quale è in radice esclusa, per la totalità degli eletti, qualunque indicazione di consenso degli elettori, appartiene al legislatore discrezionalità nella scelta della più opportuna disciplina per la composizione delle liste e per l’indicazione delle modalità attraverso le quali prevedere che gli elettori esprimano il proprio sostegno ai candidati.

Alla luce di tali premesse, le disposizioni censurate non determinano una lesione della libertà del voto dell’elettore, presidiata dall’art. 48, secondo comma, Cost.

Il sistema elettorale previsto dalla legge n. 52 del 2015 si discosta da quello previgente per tre aspetti essenziali: le liste sono presentate in cento collegi plurinominali di dimensioni ridotte, e sono dunque formate da un numero assai inferiore di candidati; l’unico candidato bloccato è il capolista, il cui nome compare sulla scheda elettorale (ciò che valorizza la sua preventiva conoscibilità da parte degli elettori); l’elettore può, infine, esprimere sino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capilista.

Né è irrilevante, nella complessiva valutazione di una siffatta disciplina, la circostanza che la selezione e la presentazione delle candidature (sentenze n. 429 del 1995 e n. 203 del 1975) nonché, come nel caso di specie, l’indicazione di candidati capilista, è anche espressione della posizione assegnata ai partiti politici dall’art. 49 Cost., considerando, peraltro, che tale indicazione, tanto più delicata in quanto quei candidati sono bloccati, deve essere svolta alla luce del ruolo che la Costituzione assegna ai partiti, quali associazioni che consentono ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare, anche attraverso la partecipazione alle elezioni, la politica nazionale.

Si deve, per di più, osservare che l’effetto del quale il giudice a quo in prevalenza si duole – le liste di minoranza potrebbero avere eletti solo tra i capilista bloccati – costituisce una conseguenza (certo rilevante politicamente) che deriva, di fatto, anche dal modo in cui il sistema dei partiti è concretamente articolato, e che non può, di per sé, tradursi in un vizio d’illegittimità costituzionale (sull’irrilevanza dei cosiddetti inconvenienti di fatto nel giudizio costituzionale, ex multis, sentenze n. 219 e n. 192 del 2016; ordinanze n. 122 e n. 93 del 2016).

Inoltre e infine, come correttamente osserva l’Avvocatura generale dello Stato, molte sono le variabili in grado di determinare quanti candidati sono eletti con o senza preferenze: oltre al numero dei capilista candidati in più collegi, che possono liberare seggi da assegnare ad eletti con preferenze, rileva anche la diffusione, sul territorio nazionale, del consenso che ciascuna lista ottiene. L’effetto temuto presuppone che tale consenso sia omogeneamente diffuso per tutte le liste di minoranza. Laddove esso sia invece concentrato soprattutto in determinati collegi, una lista potrà conseguire, in questi, più di un seggio, eleggendo così, oltre al capolista, uno o più candidati con preferenze.

12.– I Tribunali ordinari di Torino, Perugia, Trieste e Genova, con argomenti largamente coincidenti, ritengono non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957 (come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015), il quale prevede che il deputato eletto in più collegi plurinominali deve dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione, quale collegio plurinominale prescelga.

Secondo i rimettenti, tale disposizione consente al candidato capolista, eletto in più collegi plurinominali, di optare in base ad una sua mera valutazione di opportunità, e non subordina tale opzione ad alcun criterio oggettivo e predeterminato, rispettoso, nel massimo grado possibile, della volontà espressa dagli elettori. Per tutti i giudici a quibus, tale disciplina violerebbe perciò gli artt. 3 e 48 Cost., in quanto il voto di preferenza espresso nei confronti di candidati non bloccati verrebbe vanificato nel collegio arbitrariamente prescelto dal candidato capolista eletto in più collegi: la sua opzione potrebbe, infatti, impedire l’attribuzione di un seggio ad un candidato che pure abbia ottenuto molti voti di preferenza, se il capolista sceglie quel collegio; al contrario, la sua scelta potrebbe determinare l’elezione di un candidato che abbia ottenuto anche un esiguo consenso personale, nel caso in cui il capolista non opti per tale collegio.

Osserva, in particolare, il Tribunale ordinario di Torino (e gli altri rimettenti in termini analoghi) che l’arbitrarietà della scelta del collegio da parte del capolista plurieletto determina un effetto di distorsione tra il voto di preferenza espresso dagli elettori e il suo esito “in uscita” in quel collegio. Tale effetto sarebbe lesivo dei principi di uguaglianza e libertà del voto, senza che alcun valore costituzionale sia invocabile a tutela della disciplina censurata.

12.1.– In tutti i giudizi, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità questione. I rimettenti sarebbero, infatti, incorsi in una contraddizione nella formulazione della motivazione e del petitum, poiché avrebbero lamentato l’assenza di vincoli all’esercizio del diritto di opzione del candidato capolista, evocando perciò un intervento additivo o manipolativo di questa Corte, mentre nel dispositivo avrebbero sollecitato una pronuncia di tipo seccamente ablativo della disposizione.

Osserva, inoltre, la difesa statale come una pronuncia di accoglimento della questione «determinerebbe un’inammissibile vuoto normativo che potrebbe avere come conseguenza l’impossibilità di applicare la legge nella sua interezza», ciò che, secondo costante giurisprudenza costituzionale, non sarebbe possibile (sono ricordate le sentenze della Corte costituzionale n. 13 del 2012 e n. 29 del 1987).

L’eccezione non è fondata.

Nella sostanza, l’obiezione dell’Avvocatura generale dello Stato – ad avviso della quale la questione dovrebbe incorrere in una pronuncia di inammissibilità perché sussiste in materia discrezionalità legislativa, molteplici essendo le soluzioni idonee a colmare la lacuna derivante dall’accoglimento e nessuna risultando a rime costituzionalmente obbligate – finisce per confondersi con il merito stesso della censura, che deve perciò essere affrontato.

12.2.– La questione è fondata.

L’assenza nella disposizione censurata di un criterio oggettivo, rispettoso della volontà degli elettori e idoneo a determinare la scelta del capolista eletto in più collegi, è in contraddizione manifesta con la logica dell’indicazione personale dell’eletto da parte dell’elettore, che pure la legge n. 52 del 2015 ha in parte accolto, permettendo l’espressione del voto di preferenza. L’opzione arbitraria consente al capolista bloccato eletto in più collegi di essere titolare non solo del potere di prescegliere il collegio d’elezione, ma altresì, indirettamente, anche di un improprio potere di designazione del rappresentante di un dato collegio elettorale, secondo una logica idonea, in ultima analisi, a condizionare l’effetto utile dei voti di preferenza espressi dagli elettori.

Obietta l’Avvocatura generale dello Stato che, nel sistema elettorale proporzionale antecedente al 1993, ai candidati eletti in più collegi era costantemente attribuita una libera facoltà di scelta del collegio d’elezione. Ricorda, inoltre, la sentenza n. 104 del 2006 di questa Corte, in cui si è affermato che «[i]l diritto di optare per una delle circoscrizioni nelle quali il candidato è risultato eletto costituisce il modo per consentirgli di instaurare uno specifico legame, in termini di rappresentanza politica, con il corpo degli elettori appartenenti ad un determinato collegio ed è esplicazione del diritto di elettorato passivo, garantito a tutti i cittadini dall’art. 51, primo comma, Cost.».

A tali osservazioni è agevole replicare che nel sistema elettorale antecedente al 1993, come pure nel sistema per l’elezione dei membri italiani al Parlamento europeo, cui specificamente si riferisce la sentenza invocata, il voto di preferenza poteva essere accordato a qualunque candidato, il quale, se eletto in più circoscrizioni, ragionevolmente poteva scegliere a discrezione quella in cui essere proclamato. Inoltre, l’accesso alle multicandidature non era riservato ai capilista, ma anche agli altri candidati.

Ben diverso è il sistema introdotto dalla legge n. 52 del 2015: in questo, solo i capilista sono bloccati e possono candidarsi in più collegi, e sono costoro a determinare poi, con la loro opzione, l’elezione – o la mancata elezione – di candidati che hanno invece ottenuto voti di preferenza.

Da questo punto di vista, non errano i giudici a quibus laddove lamentano che l’opzione arbitraria affida irragionevolmente alla decisione del capolista il destino del voto di preferenza espresso dall’elettore nel collegio prescelto, determinando una distorsione del suo esito in uscita, in violazione non solo del principio dell’uguaglianza ma anche della personalità del voto, tutelati dagli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost. Né la garanzia di alcun altro interesse di rango costituzionale potrebbe bilanciare tale lesione, poiché la libera scelta dell’ambito territoriale in cui essere eletto – al fine di instaurare uno specifico legame, in termini di responsabilità politica, con il corpo degli elettori appartenenti ad un determinato collegio – potrebbe semmai essere invocata da un capolista che in quel collegio abbia guadagnato l’elezione con le preferenze, ma non certo, ed in ipotesi a danno di candidati che le preferenze hanno ottenuto, da un capolista bloccato.

Accertata l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957 (come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015) nella parte in cui consente l’opzione arbitraria, questa Corte deve riconoscere – nella rigorosa osservanza dei limiti dei propri poteri, tanto più in materia elettorale, connotata da ampia discrezionalità legislativa (sentenze n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996, n. 438 del 1993; ordinanza n. 260 del 2002) – che più d’uno sono, in realtà, i possibili criteri alternativi, coerenti con la disciplina della legge n. 52 del 2015 in tema di candidature e voto di preferenza.

Infatti, e solo in via meramente esemplificativa, secondo una logica volta a premiare il voto di preferenza espresso dagli elettori, potrebbe stabilirsi che il capolista candidato in più collegi debba esser proclamato eletto nel collegio in cui il candidato della medesima lista – il quale sarebbe eletto in luogo del capolista – abbia riportato, in percentuale, meno voti di preferenza rispetto a quelli ottenuti dai candidati in altri collegi con lo stesso capolista. Ancora, secondo una logica assai diversa, tesa a valorizzare il rilievo e la visibilità della sua candidatura, potrebbe invece prevedersi che il capolista candidato in più collegi debba essere proclamato eletto in quello dove la rispettiva lista ha ottenuto, sempre in percentuale, la maggiore cifra elettorale, in relazione agli altri collegi in cui lo stesso si era presentato quale capolista.

La scelta tra questi ed altri possibili criteri, e tra i vantaggi e i difetti che ciascuno di essi presenta, appartiene alla ponderata valutazione del legislatore, e non può essere compiuta dal giudice costituzionale.

Da tale considerazione, però, non consegue la rinuncia al dovere, che questa Corte ha, di dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione che tale risulti, nella parte che i giudici a quibus effettivamente censurano.

Infatti, all’esito della caducazione dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede che il deputato eletto in più collegi plurinominali debba dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati quale collegio nominale prescelga, permane, nella stessa disposizione, quale criterio residuale, quello del sorteggio.

Tale criterio è già previsto dalla porzione di disposizione non coinvolta dall’accoglimento della questione, e non è dunque introdotto ex novo, in funzione sostitutiva dell’opzione arbitraria caducata: è in realtà ciò che rimane, allo stato, dell’originaria volontà del legislatore espressa nella medesima disposizione coinvolta dalla pronuncia di illegittimità costituzionale.

Il permanere del criterio del sorteggio restituisce pertanto, com’è indispensabile, una normativa elettorale di risulta anche per questa parte immediatamente applicabile all’esito della pronuncia, idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo (da ultimo, sentenze n. 1 del 2014, n. 13 del 2012, n. 16 e n. 15 del 2008).

Ma appartiene con evidenza alla responsabilità del legislatore sostituire tale criterio con altra più adeguata regola, rispettosa della volontà degli elettori.

13.– Il Tribunale ordinario di Genova solleva questioni di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015.

Il giudice a quo parrebbe lamentare che il meccanismo di attribuzione dei seggi, nella Regione autonoma Trentino­Alto Adige, determini una violazione della rappresentatività delle minoranze politiche nazionali, nel caso in cui queste non siano collegate con una lista vincitrice di seggi in tale Regione a statuto speciale. Poiché i seggi assegnati nella Regione Trentino­Alto Adige concorrono a determinare il numero dei seggi attribuiti, a livello nazionale, sia alla lista che consegue il premio di maggioranza sia alle liste di minoranza; e poiché, in particolare, il numero effettivo dei seggi da distribuire tra le liste di minoranza è variabile, dipendendo da quanti seggi siano già assegnati a tali liste, purché collegate con candidati nei collegi uninominali in tale Regione, il rimettente sembra assumere che le liste di minoranza non collegate risulterebbero penalizzate, concorrendo all’assegnazione di un numero inferiore di seggi.

13.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione per plurime ragioni.

Sussisterebbe innanzitutto un difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, essendo l’ordinanza di rimessione assistita, per questa parte, da argomentazioni sintetiche e il giudice a quo sarebbe inoltre incorso in un’aberratio ictus, avendo sottoposto a censura la sola disposizione che prevede l’assegnazione dei seggi, in ragione proporzionale, alle liste che a livello nazionale non conseguono il premio – ossia l’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015 – e non, invece, le disposizioni che determinano realmente l’effetto in tesi lamentato, ossia gli artt. 92­bis, 92­ter e 92­quater (in particolare, il suo comma 7), del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, i quali regolano l’assegnazione dei seggi in Trentino­Alto Adige, e che sono stati introdotti dall’art. 2, commi 29, 30, 31 e 32, della legge n. 52 del 2015

Tali eccezioni sono fondate e la questione è pertanto inammissibile.

In primo luogo, le disposizioni produttive dell’effetto lamentato non sono quelle censurate dal giudice a quo, ma quelle diverse che correttamente la difesa statale identifica. È del resto lo stesso rimettente, riferendo la doglianza delle parti del giudizio principale, a ricordare espressamente che queste avevano eccepito anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 29, 30, 31 e 32, della legge n. 52 del 2015, cioè proprio delle disposizioni che avrebbe dovuto sottoporre a scrutinio di legittimità costituzionale. Ma di tali disposizioni non è riportato, nell’ordinanza di rimessione, nemmeno il contenuto e, soprattutto, il dispositivo della stessa censura, infine, il solo art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957.

In secondo luogo, la prospettazione del rimettente, che non si dà peraltro carico di illustrare il meccanismo elettorale della cui legittimità costituzionale dubita, appare talmente sintetica da rendere oscura la complessiva censura sollevata (sentenze n. 102 del 2016, n. 247 del 2015; ordinanze n. 227, n. 118, n. 47 e n. 32 del 2016). Non è chiarito a quali «minoranze nazionali» il rimettente intenda riferirsi, ed è solo presumibile che l’ordinanza alluda (non già a minoranze linguistiche non protette ma) alle liste di minoranza a livello nazionale, cioè a minoranze politiche. Ancora, non sono esaurientemente descritte le ragioni per cui tali liste di minoranza risulterebbero discriminate nell’assegnazione dei seggi, tutte avendo, in linea teorica, la possibilità di apparentarsi con i candidati nei collegi uninominali della Regione Trentino­Alto Adige. Non è spiegato per quali ragioni il meccanismo elettorale genericamente lamentato costituisca «uno degli ulteriori effetti indiretti del doppio turno», dal momento che, secondo la legge n. 52 del 2015, una ripartizione proporzionale dei seggi alle liste di minoranza avviene ovviamente anche quando il premio è assegnato al primo turno. Infine, non si comprende perché il rimettente lamenti le conseguenze negative derivanti dall’attribuzione di soli tre seggi in ragione proporzionale, quando l’effetto che presumibilmente sospetta d’illegittimità costituzionale deriverebbe, piuttosto, dal sistema di distribuzione dei complessivi undici seggi assegnati a tale Regione a statuto speciale (otto con sistema maggioritario e tre con riparto proporzionale).

14.– Il Tribunale ordinario di Messina sospetta l’illegittimità costituzionale di due disposizioni del d.lgs. n. 533 del 1993, relativo all’elezione del Senato, e in particolare degli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17, i quali stabiliscono la percentuale di voti che le coalizioni di liste e le liste non collegate devono conseguire, in ciascuna Regione, per accedere al riparto dei seggi.

Nel proprio percorso argomentativo, particolarmente sintetico, il giudice a quo, dapprima ricorda che le disposizioni relative alle soglie di sbarramento previste dal vigente sistema elettorale del Senato hanno contenuti diversi rispetto a quelli previsti dalla legge elettorale n. 52 del 2015 per l’elezione della Camera, e che tale differenza pregiudicherebbe l’obbiettivo della governabilità, potendosi formare maggioranze non coincidenti nei due rami del Parlamento. Quindi, assume la non manifesta infondatezza della questione, per violazione degli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost., limitandosi a ricordare che la sentenza n. 1 del 2014 di questa Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della disciplina relativa al premio di maggioranza per il Senato, aveva affermato che quella disciplina comprometteva il funzionamento della forma di governo parlamentare.

14.1.– Così formulata, la questione è inammissibile, per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza e oggettiva oscurità del petitum.

Il rimettente solleva questioni di legittimità costituzionale sulle disposizioni che prevedono le soglie di sbarramento per l’elezione del Senato senza confrontare tali soglie con quelle introdotte dalla legge n. 52 del 2015 (che neppure cita), per poi dedurne che la diversità dei due sistemi elettorali pregiudicherebbe la formazione di maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento, in asserita lesione dei parametri costituzionali ricordati.

Non illustra, tuttavia, le ragioni per cui sarebbero le diverse soglie di sbarramento, e non altre, e assai più rilevanti, differenze riscontrabili tra i due sistemi elettorali (ad esempio, un premio di maggioranza previsto solo dalla disciplina elettorale per la Camera), ad impedire, in tesi, la formazione di maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento.

Lamenta, inoltre, la lesione di plurimi parametri costituzionali (gli artt. 1, 3, 48, secondo comma, 49 e 51 Cost.), dai contenuti e dai significati all’evidenza diversi, senza distintamente motivare le ragioni per le quali ciascuno sarebbe violato. Per costante giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenze n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009), tuttavia, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione.

La singolarità della prospettazione risiede anche nella circostanza che essa non chiarisce quale delle due diverse discipline, quanto all’entità delle soglie di sbarramento, dovrebbe essere uniformata all’altra; mentre sembra sfuggire al rimettente che l’ipotetico accoglimento della questione sollevata condurrebbe semplicemente alla caducazione delle censurate disposizioni della legge elettorale del Senato, derivandone il permanere di una distinta diversità tra i due sistemi: nessuna soglia di sbarramento a livello regionale nella disciplina del Senato, e il mantenimento di una soglia del 3 per cento, calcolata a livello nazionale, per la Camera.

15.– Il Tribunale ordinario di Messina solleva, infine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, in virtù del quale le disposizioni contenute nel medesimo art. 2, cioè quelle che apportano modifiche al d.P.R. n. 361 del 1957, ridisegnando il sistema per l’elezione della Camera dei deputati, si applicano a decorrere dal 1° luglio 2016.

Il giudice a quo ritiene che tale previsione violi gli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., in quanto, «in caso di nuove elezioni a legislazione elettorale del Senato invariata (pur essendo in itinere la riforma costituzionale di questo ramo del Parlamento), si produrrebbe una situazione di palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze».

Il rimettente ha sollevato la questione in epoca antecedente (17 febbraio 2016) all’approvazione in sede parlamentare (avvenuta in data 12 aprile 2016) del disegno di legge di revisione costituzionale finalizzato, tra l’altro, alla trasformazione del Senato della Repubblica e al superamento dell’assetto bicamerale paritario. Alla data dell’ordinanza di rimessione, la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati era già entrata in vigore. Il legislatore, ipotizzando una rapida conclusione del procedimento di revisione costituzionale, e al fine di evitare la compresenza di due sistemi elettorali diversi, aveva disposto che tale legge fosse applicabile a decorrere dal 1° luglio 2016.

Il giudice a quo, con prospettazione peraltro molto sintetica, censura proprio la scelta legislativa di differire l’efficacia delle nuove disposizioni al 1° luglio 2016, anziché all’effettiva conclusione del procedimento di revisione costituzionale. Tale scelta è ritenuta lesiva dei parametri costituzionali ricordati, poiché consentirebbe, da quella data, che i due rami del Parlamento siano rinnovati con due sistemi elettorali differenti, sul presupposto che questa difformità possa produrre maggioranze parlamentari non coincidenti.

15.1.– La questione è inammissibile.

Il rimettente si limita a sottoporre a generica ed assertiva critica la diversità tra i due sistemi elettorali, senza indicare quali caratteri differenziati di tali due sistemi determinerebbero «una situazione di palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze».

La mera affermazione di disomogeneità è insufficiente a consentire l’accesso della censura sollevata allo scrutinio di merito e alla identificazione di un petitum accoglibile.

In secondo luogo, i parametri costituzionali la cui lesione è lamentata (ossia gli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost.) sono evocati solo numericamente, senza una distinta motivazione delle ragioni per le quali ciascuno sarebbe violato. Vale anche in tal caso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale (citata supra, punto 14) che sottolinea come non sia sufficiente l’indicazione delle norme da raffrontare, per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma sia necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione.

Peraltro, non è nemmeno lamentata dal rimettente la lesione delle due disposizioni costituzionali che dovrebbero necessariamente venire in considerazione (cioè gli artt. 94, primo comma, e 70 Cost.) laddove si intenda sostenere che due leggi elettorali «diverse» compromettano, sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere, sia l’esercizio della funzione legislativa, attribuita collettivamente a tali due Camere.

15.2.– Fermo restando quanto appena affermato, questa Corte non può esimersi dal sottolineare che l’esito del referendum ex art. 138 Cost. del 4 dicembre 2016 ha confermato un assetto costituzionale basato sulla parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive.

In tale contesto, la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati), limitatamente alle parole «o, in mancanza, a quella che prevale in un turno di ballottaggio tra le due con il maggior numero di voti, esclusa ogni forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di votazione»; dell’art. 1, comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), come sostituito dall’art. 2, comma 1, della legge n. 52 del 2015, limitatamente alle parole «, ovvero a seguito di un turno di ballottaggio ai sensi dell’art. 83»; e dell’art. 83, comma 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 27, della legge n. 52 del 2015, nella parte in cui consente al deputato eletto in più collegi plurinominali di dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione, quale collegio plurinominale prescelga;

3) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015, e degli artt. 1, comma 2, e 83, commi 1, 2, 3, 4 e 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati e sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 48, secondo comma, 49, 51, primo comma, 56, primo comma, della Costituzione e all’art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza di indicata in epigrafe;

4) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 84, commi 2 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 2, comma 26, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento all’art. 56, primo e quarto comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

5) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

6) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 16, comma 1, lettera b), e 17 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), come modificati dall’art. 4, commi 7 e 8, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per la elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3 e 48, secondo comma, 49 e 51 Cost., dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

7) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3 e 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 1 e 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati dall’art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza di indicata in epigrafe;

9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2, 3 e 4, del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza di indicata in epigrafe;

10) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge n. 52 del 2015 e degli artt. 83, commi 1, numeri 5) e 6), 2 e 5, e 83­bis, comma 1, numeri 1), 2), 3) e 4) del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituiti e aggiunti dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza di indicata in epigrafe;

11) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere a), d) ed e), della legge n. 52 del 2015 e dell’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. n. 361 del 1957, come sostituito dall’art. 2, comma 25, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento all’art. 56, primo e quarto comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

12) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera g), della legge n. 52 del 2015, e degli artt. 18­ bis, comma 3, primo periodo, 19, comma 1, primo periodo, e 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati o sostituiti, rispettivamente, dall’art. 2, commi 10, lettera c), 11 e 26, della legge n. 52 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 2, 48, secondo comma, 51, primo comma, 56, primo e quarto comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2017. F.to:

Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2017. Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA ALLEGATO:

ORDINANZA LETTA ALL’UDIENZA DEL 24 GENNAIO 2017 ORDINANZA

Rilevato che il Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori), in qualità di associazione per la tutela dei diritti e degli interessi di consumatori e di utenti, e, in proprio, il suo legale rappresentante Giuseppe Ursini, in qualità di cittadino elettore, sono intervenuti nei giudizi promossi dal Tribunale ordinario di Messina (reg. ord. n. 69 del 2016), dal Tribunale ordinario di Torino (reg. ord. n. 163 del 2016), dal Tribunale ordinario di Trieste (reg. ord. n. 265 del 2016) e dal Tribunale ordinario di Genova (reg. ord. n. 268 del 2016), con atti depositati il 3 gennaio 2017;

che nel giudizio promosso dal Tribunale di Torino, con atto depositato il 1° agosto 2016, hanno chiesto di intervenire, in qualità di cittadini elettori, nonché in qualità di parti di giudizi analoghi a quello instaurato innanzi al Tribunale rimettente, F.C.B., A.I. e G.S.; con atto depositato il 4 agosto 2016, C.T., A.B. e E.Z.; con atto depositato il 5 agosto 2016, S.M.; con atti depositati il 9 agosto 2016, F.D.M. e M.S.; V.P.; E.P. e N.R.;

che nei giudizi promossi dal Tribunale di Trieste e dal Tribunale di Genova, con distinti atti depositati il 23 dicembre 2016, hanno chiesto di intervenire, in qualità di cittadini elettori, nonché in qualità di parti di giudizi analoghi a quello instaurato innanzi ai Tribunali rimettenti, C.T., A.B. e E.Z.;

che nel giudizio promosso dal Tribunale di Genova, con atto depositato il 30 dicembre 2016, sempre in qualità di cittadini elettori, nonché di parti di giudizi analoghi a quello instaurato innanzi al Tribunale rimettente, hanno chiesto di intervenire anche M.M. e altri.

Considerato, in primo luogo, che, l’intervento spiegato dal Codacons e, in proprio, dal suo legale rappresentante Giuseppe Ursini, nei giudizi instaurati dai Tribunali di Messina e di Torino, è inammissibile, in quanto tardivo (tra le tante, sentenze n. 248, n. 219 e n. 187 del 2016);

che l’intervento, in termini, dello stesso Codacons nei giudizi instaurati dai Tribunali di Trieste e Genova, è inammissibile, in quanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare al giudizio in via incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (tra le tante, ordinanze allegate alle sentenze n. 243 del 2016 e n. 2 del 2016), mentre i rapporti sostanziali dedotti nelle cause in esame non hanno alcuna diretta incidenza sulla posizione giuridica del Codacons;

che questa Corte ha già espresso tale orientamento anche in relazione alla richiesta di intervento da parte di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria (ex plurimis, sentenze n. 76 del 2016, n. 178 del 2015 e ordinanza n. 227 del 2016);

che è inammissibile anche l’intervento, nei giudizi da ultimo menzionati, spiegato in proprio dal legale rappresentante del Codacons, Giuseppe Ursini, nella mera qualità di cittadino elettore, poiché, in tale veste, la sua posizione soggettiva non può essere distintamente pregiudicata, più di quanto possa esserlo quella di qualunque altro cittadino elettore, dalla decisione di questa Corte;

che nei giudizi promossi dai Tribunali di Torino, Trieste e Genova, sono inammissibili gli interventi dei cittadini elettori, che allegano altresì la loro qualità di parti in giudizi analoghi a quelli dai quali originano le questioni di legittimità costituzionale all’esame di questa Corte;

che, infatti, la giurisprudenza costituzionale non ammette l’intervento nel giudizio di legittimità costituzionale di parti di giudizi diversi da quelli nei quali sono state sollevate le questioni di legittimità costituzionale, anche se suscettibili di essere definiti dalle medesime disposizioni oggetto di censura (ex multis, sentenze n. 71 e n. 70 del 2015, ordinanza n. 100 del 2016);

che, in particolare, non è sufficiente la circostanza che i richiedenti abbiano instaurato un giudizio identico, per oggetto, a quelli dai quali originano le questioni di legittimità costituzionale all’esame di questa Corte, poiché l’ammissibilità di interventi di terzi, titolari di interessi, analoghi o identici a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe in tal caso con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto il loro accesso a tale giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale da parte del giudice a quo (sentenze n. 71 del 2015 e n. 59 del 2013, ordinanze n. 156 e n. 32 del 2013).

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili tutti gli interventi spiegati nei presenti giudizi di legittimità costituzionale. F.to: Paolo Grossi, Presidente

Salvatore Borghese

Laureato in Scienze di Governo e della comunicazione pubblica alla LUISS, diplomato alla London Summer School of Journalism e collaboratore di varie testate, tra cui «il Mattino» di Napoli e «il Fatto Quotidiano».
Cofondatore e caporedattore (fino al 2018) di YouTrend. È stato tra i soci fondatori della società di ricerca e consulenza Quorum e ha collaborato con il Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE).
Nel tempo libero (quando ce l'ha) pratica arti marziali e corre sui go-kart. Un giorno imparerà anche a cucinare come si deve.

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