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La consulenza politica dopo Donald Trump

Le elezioni americane di questo 2016 hanno messo in discussione il presente e il futuro delle campagne elettorali – e delle professioni legate alle campagne elettorali.

Ha vinto un candidato con uno staff minimo, che ha investito pochissimo in sondaggi, ricerche, spot televisivi, big data. Ha vinto un candidato che ha perso tutti i dibattiti televisivi, e ha perso la candidata che aveva costruito probabilmente la macchina elettorale più organizzata e all’avanguardia di sempre.

Ma allora, servono le campagne elettorali? Servono gli strateghi?

Le prime tracce della consulenza politica e delle strategie elettorali risalgono al Primo secolo a.C., con il Manualetto del candidato di Quinto Tullio Cicerone: difficile che improvvisamente un approccio professionale alle campagne elettorali perda di senso.
È tuttavia indubbio che ci siano momenti in cui la professione del consulente politico deve saper cogliere i propri limiti e mutare. Queste elezioni sono state uno spartiacque, e per adattarsi ai tempi che cambiano non si può che partire da un’analisi di quanto è successo.

Ho individuato pochi punti chiave, alcuni banali, altri meno scontati, dai quali partire per mettere ordine.

1. Uno staff funziona se diventa una squadra. Servono ruoli chiari, gerarchie riconosciute, lealtà e rispetto delle rispettive competenze. Lo staff di Hillary Clinton era una macchina imponente, che comprendeva alcuni tra i maggiori consulenti americani. John Podesta era il portavoce della campagna, Robby Mook aveva il ruolo di campaign manager, Joel Benenson era lo strategist, Jennifer Palmieri dirigeva la comunicazione, Mandy Grunwald lavorava al messaggio, Jim Margolis si occupava degli spot televisivi, e non possiamo dimenticare Minyon Moore e i sondaggisti John Anzalone e David Binder, oltre a decine di altri grandi professionisti.

Trump invece ha avuto uno staff minimale, ridotto all’osso. Questa differenza di approccio ha portato da subito molti analisti a ironizzare su Trump, sbagliando. Perché se è indubbio che uno staff più ampio avrebbe permesso a Trump di ideare e portare avanti una strategia più articolata e sofisticata (di sicuro un lavoro più approfondito sui dati, una migliore preparazione ai dibattiti e una maggiore efficacia degli spot non lo avrebbero sfavorito), lo staff troppo composito e con gerarchie indefinite di Hillary Clinton ha prodotto più danni che vantaggi. Come svelano in questi giorni diversi retroscena, da Politico al New York Times, è mancata una vera regia della campagna, è mancata una figura “alla David Axelrod”: Mook e Benenson si parlavano poco, ciascuno geloso del proprio ruolo; Palmieri e Grunwald si scontravano costantemente sul messaggio.

Gli staff allargati non sono il male. Obama aveva uno staff enorme, ma amalgamato, con una gerarchia precisa e una catena di comando chiara. Senza queste fondamentali caratteristiche, i rischi sono enormi: confusione, incoerenza tra i messaggi, gelosie. Soprattutto: gli staff troppo vasti, se non sono affiatati, generano fuoriuscite di notizie. Per vendetta, ma non solo: sono il modo più semplice per un consulente di accreditarsi con la stampa, se all’interno dello staff non gli viene attribuito il peso che pensa di meritare. Non è necessario creare staff minimi come Donald Trump, soprattutto se il territorio dove si gioca l’elezione è vasto: ma gli staff compositi e complessi vanno gestiti e costruiti alla perfezione. Servono gerarchie rigide, serve un rapporto umano tra i consulenti, serve riconoscimento del ruolo di tutti: la qualità del lavoro e la lealtà saranno una conseguenza diretta di questo lavoro.

2. Non vince chi ha più soldi, ma chi ha un’idea forte. Hillary ha raccolto e speso più di Trump, ma ha perso. In Italia, negli ultimi tempi, in diverse elezioni comunali abbiamo visto vincere i candidati che spendevano meno. Perché si può vincere senza 6×3, ma non senza una grande idea, un messaggio forte, un candidato apprezzato. Il cambiamento che invoca Beppe Grillo urlando “Mandiamoli tutti a casa!” sarà sempre più forte di una campagna sofisticata che investe milioni di euro in spot, manifesti, gadget e database, ma che alla fine non dice nulla che rimanga in testa agli elettori. Gli elettori votano per le idee che colpiscono, non per il candidato che occupa gli spazi pubblicitari davanti a casa loro.

3. Di big data si muore. Se nelle campagne elettorali i dati, l’ipertargetizzazione, la mobilitazione diventano il fine e non più il mezzo, allora la sconfitta è certa. Negli ultimi anni, partendo dall’errata convinzione che Obama avesse vinto grazie ai big data, tutti hanno iniziato a investire in database all’avanguardia, collezionando dati a non finire per mobilitare gli elettori. Parliamoci chiaro: questi dati possono essere molto utili. Ma non fanno vincere le campagne elettorali. La campagna di Hillary Clinton, secondo gli exit poll di Politico, ha raggiunto direttamente (attraverso i propri volontari, via telefono o porta a porta) il 26% degli elettori americani, la campagna di Trump il 17%. Ma se il messaggio veicolato è debole, le strategie di mobilitazione possono poco.

Alcuni analisti americani sollevarono il tema già due anni fa, mostrando gli esempi di alcune campagne di senatori democratici che alle elezioni di mid-term si erano concentrati esclusivamente sui micro-messaggi con i quali convincere micro-target da raggiungere attraverso la micro-segmentazione dell’elettorato con l’ausilio dei database. Dimenticandosi però di dare un’idea di insieme, di dare una visione, di costruire una narrazione. La ricerca non deve concentrarsi esclusivamente sulla segmentazione dell’elettorato, ma anche e soprattutto sulla definizione del messaggio più efficace e coerente con la strategia e la personalità del candidato.

Sono i grandi messaggi a vincere, le idee forti. I big data, il microtargeting, sono strumenti straordinari per raggiungere segmenti diversificati. Ma non possono essere la chiave della campagna elettorale. La campagna di Hillary è stata tutta concentrata sul ground game, e si è scontrata – perdendo malamente – con una campagna message-oriented. Nel 2008 e nel 2012 non vinse il porta a porta, vinsero Barack Obama, “Hope“, “Yes we can“, “Forward. Così come in Italia, e nel resto del mondo, non vincono e non vinceranno i database: vinceranno le narrazioni, i messaggi, i frame.

Un consulente politico deve saper interpretare i cambiamenti della politica. Quattro anni fa sembrava che il cambiamento fosse proprio incarnato dai big data e dalla prevalenza del paradigma della mobilitazione su quello della persuasione. Si sono inseguiti a tal punto i big data da trasformarli nel perno delle campagne elettorali, come nel caso di Hillary Clinton. Ora, il futuro è tornare indietro. Tornare alla ricerca del messaggio efficace, coerente, chiaro. I big data e le targetizzazioni saranno utili, certamente, ma solo a divulgarlo nel migliore dei modi.

Giovanni Diamanti

Classe 1989, consulente e stratega politico. Co-fondatore e amministratore di Quorum, ha lavorato ad alcune tra le più importanti campagne italiane, tra cui quelle di Debora Serracchiani, Dario Nardella, Nicola Zingaretti, Vincenzo De Luca, Pierfrancesco Majorino, Beppe Sala. In realtà è un ragazzo timido che ama guardarsi la punta delle scarpe. Uomo dalla testa veloce, ha idee (confuse) in ordine sparso - così come i capelli.

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