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Legge elettorale: le conseguenze della Corte

Legge elettorale: le conseguenze della Corte

La sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittime alcune parti dell’attuale legge elettorale (il cd Porcellum) avrà effetti molto pesanti sul sistema politico italiano. La sentenza obbliga finalmente la politica a prendere una posizione netta sull’annosa questione del sistema elettorale: anche il non far nulla porterebbe ad esiti non irrilevanti.

Perché? Perché l’effetto di questa sentenza è quello di generare un sistema elettorale nuovo. Il primo elemento “cassato” dalla Corte sono le liste bloccate: bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per saperne di più, ma è probabile che a pesare sulla decisione della Consulta sia stata la possibilità, prevista dal Porcellum, di candidarsi in più di una circoscrizione. Tale meccanismo in pratica consegnava ad alcuni candidati “privilegiati” il potere di decidere della sorte di altri, e la sua abolizione era stata proposta già da un referendum nel 2009. Ma qui ci interessa in particolare l’annullamento del premio di maggioranza “assoluto” (cioè non vincolato al raggiungimento di una soglia minima), che porta automaticamente ad una “proporzionalizzazione” del Porcellum.

Quindi, se il Parlamento non dovesse intervenire (per qualunque motivo), alle prossime elezioni voteremmo con una legge elettorale di tipo proporzionale, sia alla Camera che al Senato, corretta da soglie di sbarramento “variabili”. Ed è proprio la presenza di queste soglie di sbarramento variabili, in assenza di un premio di maggioranza, la chiave per comprendere 1) a quali partiti conviene mantenere in vigore un sistema elettorale del genere, e 2) con quali schieramenti si andrebbe al voto se l’attuale legislatura si interrompesse prima dell’approvazione di una nuova legge.

Attualmente, per entrare alla Camera un partito deve ottenere almeno il 4% dei voti validi. Se però questo partito fa parte di una coalizione di liste che ottiene più del 10%, allora gli basta raggiungere il 2%; inoltre, se di quella coalizione fanno parte uno o più partiti che non raggiungono il 2%, il più votato di questi partiti può ottenere ugualmente seggi. Ma per stabilire quale fosse la coalizione più votata, ed assegnarle il premio di maggioranza, il Porcellum includeva nel conteggio i voti di tutte le liste che ne facevano parte, anche quelle che non avevano diritto – soglie di sbarramento alla mano – ad ottenere seggi: questo costituiva un forte incentivo, per i partiti maggiori, a formare coalizioni più larghe possibili per vincere il premio, anche a rischio di regalare una parte dei propri voti a micro-partiti della stessa area politica: ne sono degli esempi la coalizione guidata da Berlusconi nel 2013 (composta di 9 liste, di cui ben 6 sotto l’1%) e soprattutto le due coalizioni di Prodi e Berlusconi nel 2006 (“l’Unione” aveva 13 liste, di cui 6 sotto l’1%, mentre la “Casa delle libertà” si componeva di 12 liste, di cui 8 ottennero meno dell’1%).

Ma ora, se tutte queste micro-liste non servono più a portare acqua al mulino delle coalizioni che si contendono il premio, a che serve allearsi con esse? Perché i partiti maggiori, come in certi casi è avvenuto, dovrebbero persino favorirne la nascita? Se i micro-partiti non sono utili ad aumentare le chance di vincere il premio di maggioranza, e quindi ad ottenere più seggi, i partiti maggiori si dovrebbero guardar bene dall’allearcisi: in un sistema proporzionale, se questi partiti riuscissero a superare da soli la soglia di sbarramento sarebbe sempre possibile – in caso di necessità – formare delle alleanze in Parlamento dopo le elezioni, per sostenere uno stesso governo; in caso contrario, tenerli fuori da una coalizione, riducendo drasticamente le loro possibilità di ottenere seggi (perché dovrebbero superare il 4%, e non più il 2% o anche meno), significherebbe ottenerne in numero maggiore per sé.

Quindi, i partiti maggiori sono tanto più avvantaggiati quanto minore è il numero di partiti con cui devono dividersi i seggi. Se alle elezioni di febbraio ciascun partito si fosse presentato da solo, e in assenza di un premio di maggioranza, sarebbero entrati alla Camera solamente cinque partiti: PD, M5S, PDL, Scelta civica e Lega Nord.

Tra le due situazioni estreme (corsa solitaria per tutti e coalizioni monstre) esiste però una situazione “intermedia”: quella cioè in cui un partito ha convenienza ad agevolare l’ingresso in Parlamento di uno o più partiti minori appartenenti alla sua stessa area politica. Una strategia simile può essere conveniente se sono soddisfatte due condizioni:

• La coalizione così composta può sperare di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, ad esempio, se i sondaggi la stimano intorno al 45%.

• Gli elettori dei partiti minori non sono disponibili a votare il partito maggiore se quest’ultimo va da solo, nemmeno dietro il richiamo al cosiddetto “voto utile”.

Se questa strategia funziona, il partito grande può ritrovarsi con una maggioranza parlamentare insieme ai suoi alleati, invece di avere magari qualche seggio in più per sé ma la necessità di allearsi con i suoi avversari per formare un governo.

Passiamo agli esempi “concreti”. Per il M5S non cambierebbe molto: si è presentato da solo a febbraio e continuerà, quasi certamente, a presentarsi da solo alle prossime elezioni, con qualunque sistema elettorale. Al PD invece (che i sondaggi stimano poco sotto il 30%) molto probabilmente converrebbe presentarsi in coalizione con SEL; quest’ultima, stimata intorno al 3-4%, in caso di corsa solitaria rischierebbe seriamente di restare fuori dal Parlamento, ma manterrebbe la maggior parte dei suoi elettori: non solo perché questi si autocollocano decisamente più a sinistra del PD, ma anche perché, non essendoci il premio di maggioranza, verrebbe meno la variabile del “voto strategico” che decimò la sinistra radicale nel 2008. Avremmo una coalizione di centrosinistra composta solo da questi due partiti, poiché PSI e CD, visto il loro scarso peso elettorale non avrebbero forza contrattuale: al più potrebbero rinunciare a presentarsi con i loro simboli, concordando delle candidature nelle liste di PD e SEL (come fecero i Radicali con Veltroni nel 2008).

Più interessante e “variegata” la situazione del centrodestra: Forza Italia potrebbe senz’altro presentarsi da sola (dall’alto del suo 20% rilevato dai sondaggi), massimizzando i seggi ottenuti e puntando ad essere nuovamente decisiva per una maggioranza di governo. Ma è molto probabile, soprattutto dopo il passaggio all’opposizione del governo Letta, che rinnovi la sua alleanza con la Lega, la quale del resto si è dimostrata in grado di conservare il suo “zoccolo duro” di elettori (circa il 4%) persino dopo gli scandali che hanno riguardato la sua dirigenza nel 2012. Più complessa la situazione del NCD di Alfano: separandosi da Forza Italia, potrebbe forse puntare ad un bacino elettorale più ampio di elettori moderati, spaventati dagli eccessi dei “falchi” berlusconiani. Alle elezioni del 2013 questo bacino è risultato corrispondere al 10% ottenuto dalle liste guidate da Mario Monti. Proprio con l’appoggio di una fetta di quella coalizione (Casini, Mauro), il NCD potrebbe puntare a superare il 4%. Impresa che potrebbe rivelarsi più difficile del previsto, visto che si troverebbe quasi certamente in competizione con un altro soggetto, di ispirazione liberale-centrista, composto dagli esponenti di Scelta civica rimasti fedeli a Monti e da altre componenti liberali (ad esempio Fare – Fermare il declino, che a febbraio ottenne oltre l’1% dei consensi). Quest’ultimo soggetto andrebbe quindi a costituire un’altra lista solitaria, non potendo allearsi né con la sinistra né con Forza Italia.

Alla coalizione di centrodestra bisognerebbe poi aggiungere un partito, che oggi si chiama Fratelli d’Italia, che sarebbe l’approdo naturale per tanti elettori di destra che non voterebbero né per Forza Italia né per NCD: è probabile che nei prossimi mesi assisteremo ad un processo di fusione tra il partito di Meloni e La Russa, i “rifondatori” di Alleanza Nazionale e ciò che è rimasto del partito di Storace. Sia che i pronostici risultino positivi per il centrosinistra (magari per un “effetto Renzi”), sia che, al contrario, i sondaggi lascino intravedere la possibilità di una maggioranza assoluta dei seggi per il centrodestra, Forza Italia avrebbe tutto l’interesse ad allearsi anche con questo partito. Avremmo quindi un centrodestra formato da 4 soggetti (FI, Lega, NCD, FDI-destra) che si rivolgono ad elettorati differenti e quindi non si tolgono troppi voti l’un l’altro. In totale, vi sarebbero potenzialmente ben 8 partiti in corsa per ottenere seggi alla Camera, e una scarsissima probabilità che si formi una maggioranza omogenea (che sia di centrodestra, di centrosinistra o a 5 stelle): se andassimo a votare oggi, data la persistente frammentazione e l’attuale assetto tri-polare, questa nuova legge elettorale ci condannerebbe (salvo casi altamente improbabili) ad instabilità e ricorso perpetuo a “grandi coalizioni”.

Va ricordato che differenze più evidenti tra il “vecchio” Porcellum e quello (provvisorio?) disegnato dalla sentenza della Consulta riguardano la Camera, di cui abbiamo parlato finora. Ma dinamiche dello stesso tipo riguarderebbero anche il Senato, dove le soglie di sbarramento sono più alte e si applicano regione per regione: 8% per i partiti singoli, 3% per i partiti coalizzati.

L’unica nota positiva riguarda il probabile “sfoltimento” delle liste candidate. In tutte le elezioni, non solo col Porcellum, gli elettori hanno trovato sulla scheda elettorale i simboli di molte altre liste che poi non hanno superato la soglia e sono rimaste fuori dal Parlamento. Ma, come abbiamo già detto, con questo nuovo sistema verrebbe meno la necessità di allargare all’inverosimile le coalizioni; e i partiti “terzi”, che si collocano alle estremità dello spazio politico (a destra, a sinistra oppure “oltre”), si presenterebbero in ogni caso, così come avveniva ai tempi del Mattarellum, quando c’erano i collegi uninominali e, alla Camera, un recupero proporzionale solo per le liste che superavano il 4%. Ma affinché vi sia una drastica diminuzione nel numero delle candidature sarebbe sufficiente il venir meno delle ragioni “tecniche” che in passato hanno portato alla creazione di “liste civetta” e di micro-partiti “acquaioli”.

Salvatore Borghese

Laureato in Scienze di Governo e della comunicazione pubblica alla LUISS, diplomato alla London Summer School of Journalism e collaboratore di varie testate, tra cui «il Mattino» di Napoli e «il Fatto Quotidiano».
Cofondatore e caporedattore (fino al 2018) di YouTrend. È stato tra i soci fondatori della società di ricerca e consulenza Quorum e ha collaborato con il Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE).
Nel tempo libero (quando ce l'ha) pratica arti marziali e corre sui go-kart. Un giorno imparerà anche a cucinare come si deve.

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